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Avènement de la mise en scène / Crise du drame. Continuités-discontinuités

A cura di Jean-Pierre Sarrazac e Marco Consolini

Bari, Edizioni di pagina - DAMS Università di Torino, 2010, pp. 280
ISBN 978-88-7470-107-0

Convinto assertore dell’interdipendenza della funzione registica e di quella drammaturgica, tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, Jean-Pierre Sarrazac ha caldeggiato il Convegno Avènement de la mise en scène / Crise du drame. Continuités-discontinuités, tenuto al Théâtre de la Colline di Parigi, nel dicembre 2008. Da parte sua, Marco Consolini ha sollecitato la reazione del gruppo di studio su temi analoghi che fa capo al DAMS torinese. L’interesse dell’incontro vive dunque nel confronto di due punti di vista incrociati e integrati. Il risultato delle due giornate è ora apprezzabile negli Atti, folti di interventi inediti, raramente ridondanti, ben complementari in un’indagine che pure non si pretende né esaustiva né definitiva. A partire dalle date e dalla connotazione della messa in scena in accezione moderna, è immancabile una dialettica fra i riscontri di indizi preliminari e le prove inconfutabili di progetti consapevoli e intenti creativi.

 

Dopo le motivazioni del Convegno proposte dal Sarrazac e la constatazione: «Nous sommes les tenants et peut-être déjà les héritiers de deux traditions très différentes» (p. VIII), tocca a Roberto Alonge ripercorrere la manifestazione sempre più insistente e pregnante di un lavoro di direzione e controllo della rappresentazione; riconoscibile lungo la vicenda della messa in scena quale s’è imposta nel Teatro d’Arte europeo alla fine del XIX secolo. La grande stagione romantica, in cui gli autori assumono ruolo di metteurs en scène dei propri drammi, è illustrata ricorrendo ai Livrets de mise en scène (tipici di un’organizzazione produttiva più che di preoccupazione artistica), qui segnalati come strumento garante della riproduzione dello spettacolo, ma non ancora propedeutico all’arte della variazione creativa dell’evento scenico (p. 9). In analogia, il contributo di Elena Randi, consacrato all’allestimento di Hernani di Victor Hugo, seguito negli sviluppi sui vari testi disponibili, dal manoscritto del suggeritore alle edizioni a stampa, in cui Hugo agisce «al modo del regista» (p. 170). Sarrazac ribadisce poi la peculiarità d’invenzione cosciente del nuovo statuto registico in André Antoine. Nella linea indicata da Thomas S. Kuhn (La structure des révolutions scientifiques, Paris, 1983) e seguendo le riflessioni di Hegel, Lukacs e Bachtin, lo storico insiste sulla sua posizione: «A l’opposé de ces metteurs en scène routiniers, Antoine affirme son geste esthétique novateur» (p. 25). E termina citando Antoine Vitez, artista dell’interpretazione nella variazione scenica.

 

Cristina Grazioli si interroga sulla funzione della luce in scena, attraverso l’analisi delle continuità e delle rotture manifestatesi a partire dalla fine del Settecento e rileva i condizionamenti imposti dal cambiamento delle tecniche luministiche. Le implicazioni investono la scenografia, la pittura, nella presenza cangiante dell’apporto attorale. Gli esempi sono forniti da Goldoni, Goethe, Garrick, De Loutherbourg, Leone De’ Sommi e Pietro Gonzaga. Le condizioni produttive dei Teatri musicali sono studiate da Claudio Longhi, a partire dalla situazione della Scala di Milano a metà Ottocento, servendosi dei Capitolati di gestione. Indi si esaminano il Drury Lane di Londra e l’Académie Royale de Musique di Parigi. Franco Perrelli stabilisce la centralità di Ludvig Josephson e con «approccio storico e fenomenologico» tallona idee e azioni del regista-drammaturgo svedese. Procede alla ricostruzione dettagliata del suo spettacolo Marsk Stigs döttrar (Les Filles du Duce Stig, 1866) rappresentato a Stoccolma sul modello del Grand Opéra francese. La vicenda, dalla concezione del testo alla sua rappresentazione, è esemplare per le scelte del responsabile dello spettacolo rievocato. Nella sua cifra stilistica è rilevabile il fascino subito dall’artista per una «super orchestration des moyens d’expression scénique» (p. 105) e Perrelli conclude: «Josephson ne fut pas l’archétype du metteur en scène moderne ni le protagoniste d’une révolution ou d’une rupture historique […] est le premier régisseur coordinateur du Nord […] identifiant, de cette manière, à la fois un artiste et un métier en évolution» (p. 105).

 

«Sentori di regia» va cogliendo Giovanna Zanlonghi lungo le esperienze di Lang, Lessing e Goethe. La trattazione parte da una rivalutazione della Retorica, posta a fondamento di considerazioni sull’interpretazione del ruolo del metteur en scène. In conseguenza, «colui che chiamiamo regista è colui che crea la propria retorica – osserva la studiosa - ossia il proprio e personale stile di actio scenica» (p. 126), asserendo infine: «I numi tutelari della nascita della regia vivono nel processo di generazione di una scena organica, autonoma, unitaria, artistica, a partire da un corpus retorico. Da regole appunto» (p. 137). Hélène Kuntz utilizza l’esegesi di Bernard Dort per la lettura della Dramaturgie de Hambourg di Lessing e risale alle concezioni di Kleist sulla marionetta, che lo stesso Dort sviluppa in La représentation émancipée (1988). Le teorie formulate da Louis Becq de Fouquières sono ripercorse da Catherine Naugrette, tesa a dimostrare in quali ambiti dell’estetica teatrale – branca inedita della filosofia dell’arte fino ad allora inesplorata – egli sia da considerare un pioniere (p. 174). Philippe Marcerou stabilisce confini e influenze fra il romanziere e il regista naturalisti, nell’instaurarsi della nuova arte autonoma. Alice Folco indaga le coincidenza fra le visioni di Antoine e di Mallarmé, vagliando le riflessioni del poeta e cronista-critico, spettatore del primo spettacolo del Théâtre Libre nel 1887 fra i pochi a esprimersi sull’evento.

 

Marco Consolini utilizza l’opera di Arsène Durec - teatrante misconosciuto e dimenticato, eppure responsabile di scelte artistiche inedite - per verificare la contraddizione sorta dalla collaborazione con Jacques Rouché, teorico innovatore entrato nella storia dello spettacolo senza passare per la pratica scenica. Così, in L’Art théâtral moderne (Paris, 1910) Rouché, «après avoir réclamé dans son livre toute la liberté pour le metteur en scène, engage son propre metteur en scène, Durec, sans aucune intention de lui laisser l’autonomie décisionnelle qui fonde un véritable travail artistique» (p. 235). Nella storia del Teatro s’è insinuato il mito dell’armoniosa collaborazione fra autore e regista, che Georges Banu denuncia quale malinteso e segue nella casistica fornita da tante coppie note. I rilievi vertono sui rapporti complicati da sensibilità personale, condizioni di realizzazione, estetiche differenti. Così, da Vilar a Strehler, da Brook a Mnouchkine, Banu chiarisce come e perché i sodalizi stabili e fecondi siano rari. Per sua natura, quel «malentendu n’est pas statique, il est dynamique, mais il n’est jamais entièrement résolu» (p. 244). Il rapporto Cechov/Stanislavskij ritorna nelle relazioni di Christine Hamon-Siréjols e di Christophe Bident. L’ipotesi ermeneutica di quest’ultimo è particolarmente affascinante. Circoscritta la questione estetica della trasmissione dell’esperienza, emergenti sia nell’artista e pedagogo russo sia nel poeta-filosofo francese Georges Bataille, trova analogie illuminanti nel confronto tra L’expérience intérieure e il lavoro sull’attore documentato da Stanislavskij.
di Gianni Poli


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