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Mehmet Ulusoy. Un théâtre interculturel

A cura di Béatrice Picon-Vallin e Richard Soudée

Lausanne, L’Âge d’Homme, 2010, pp. 282, euro 29,00
ISBN 978-2-8251-3955-4

Tra realtà e metafora può collocarsi – secondo Denis Bablet – l’opera teatrale di Mehmet Ulusoy (1942-2005), artista turco vissuto a lungo in Francia (e finora pressoché misconosciuto), dove si è imposto per la sua originalità d’attore e di metteur en scène, a partire dagli anni Settanta. Alcuni studiosi, collaboratori e compagni d’avventura ne ricordano la figura e cercano di individuare il significato del suo lavoro, reso più fecondo e duraturo per la straordinaria interferenza che ha saputo cogliere e suscitare nei confronti di tanti personaggi eminenti del suo tempo. E non soltanto nell’ambito francofono, poiché da Strehler (al Piccolo Teatro, fu apprendista e assistente negli anni Sessanta) e Planchon a Vitez e a Brook -nonché lavorando con gli scenografi Robert Moscoso, Michel Launay, Metin Deniz e Josef Svoboda - la sua curiosità e il suo entusiasmo espressivo hanno coinvolto sensibilità e gusto diversi in risultati sorprendenti. Il suo procedimento creativo, nota ancora il Bablet, «observer, apprendre, s’imprégner» testimonia al contempo delle origini culturali, in quanto «musulman élevé dans les écoles chrétiennes […] nourri des écrivains turcs et particulièrement du poète Nazim Hikmet, mais aussi de Dante, de Rabelais, de Shakespeare» (p. 22) e dell’esperienza nella lunga, tortuosa traversata europea, in condizioni di «convergence», in una posizione centrale, all’incrocio delle culture, che tutti gli osservatori gli riconoscono.

 

L’attuale dispersione dei documenti e degli archivi di Ulusoy, rende più difficile offrirne un profilo fedele alla varietà e alla singolarità della sua opera. Lo rileva Robert Abirached, fra quanti lo conobbero; e mentre rinuncia in Prefazione a un disegno esaustivo rimarca, nell’acutezza dei ricordi recuperati, i valori apportati dai tanti stranieri ambientati in Francia nella seconda metà del Novecento. Fra questi, Mehmet Ulusoy gli appare, «un peu à l’écart de la cohorte, un jeune homme […] sa passion prédominante allait vers un théâtre issu des rues, faisant son miel de la pratique ouvrière et, par-dessus tout, de la tradition villageoise» (p. 9). Béatrice Picon-Vallin e Richard Soudée delineano le coordinate storiche ed esistenziali dell’artista; definendo gli scopi del libro, cercano inoltre di enucleare i fondamenti dell’estetica di Ulusoy: «L’œuvre de ce grand metteur en scène a contribué […] à enrichir le vocabulaire de la scène, tant du point de vue du jeu que de la forme» (p. 20).

 

La specialista del teatro sovietico, di Mejerchol’d in particolare, nel suo principale contributo (dedicato all’Influence du théâtre russe) procede a individuare analogie e debiti del contemporaneo verso i predecessori, dalle Avanguardie fino a Liubimov al suo teatro, La Taganka. D’altra parte, si scopre come il magistero del poeta nazionale Nazim Hikmet e l’ispirazione costante ai «jeux de village» (azioni festive popolari dell’Anatolia delle origini ) preludano alla creazione dei nuovi generi, «conte-montage» e «théâtre-récit», in seguito entrati nella prassi della drammaturgia francese. Alla fondazione, il suo Théâtre de Liberté appare all’autore «un projet un peu utopique: créer un centre de théâtre immigré qui sera composé de Turcs, de Grecs, d’Arabes au début, puis si ça marche d’Espagnols, de Portugais» (p. 116). Ancora un parere della Picon-Vallin: «Poétique, ce théâtre était toujours un théâtre de prise de position, un théâtre politique, un théâtre d’éveil du regard et de la conscience. […] Poétisant les objets les plus pauvres auxquels il donnait sur le plateau une existence polyvalente, Mehmet déstabilisait le quotidien» (p. 119).

 

Precedendo la teorizzazione dell’interculturalità nei collettivi teatrali, il teatrante turco inaugurava rapporti fecondi per un «travail théâtral en commun, création d’un langage scénique imagé où le corps du comédien est vivement sollicité» (p. 120). Pure apprezzando i Russi e facendo propria la lezione di Mejerchol’d, non si recò mai nel Paese della Rivoluzione. Il viaggio geograficamente più lontano si compì in Martinica, per l’amicizia e la collaborazione con Aimé Césaire (di cui riferisce Richard Soudée in Une altérité fraternelle). Diversi spettacoli salienti sono oggetto di analisi e ricostruzioni: Romain Piana tratta di Équateur funambule (1995), l’unico spettacolo sul quale si abbia qui un testo di Mehmet Ulusoy (p. 161). Jean-Pierre Sarrazac rievoca Légendes à venir (1973); Anne Ubersfeld riflette su Le nuage amoureux (1974), Béatrice Picon-Vallin, su Le Cercle de craie caucasien (edizione 1984). La continuità con le fonti turche e il lavoro presentato in patria sono documentati da Aysin Candan. Il rapporto profondo con Hikmet emerge ancora riandando a Paysages humains, tratto da testi del poeta (1987). Fra i riscontri critici inediti spicca la concordanza con l’idea di Antoine Vitez sulla forma del «théâtre-récit», tanto da rendere attuale una vertenza sull’attribuzione della primogenitura, attraverso una proposta di verifica finora elusa.

 

Un Dossier fotografico fuori testo illustra una decina di spettacoli. Diverse interviste ad attori e registi viventi, comunicano il senso aggiornato di passate esperienze comuni. Cronologia, Biografia e Bibliografia completano il volume, aprendolo alla curiosità di un’indagine più specifica e approfondita.
di Gianni Poli


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