Ci voleva un musicologo estraneo allestablishment (anche la musicologia ha il suo) perché in Italia si pubblicasse un ampio libro su Eugen dAlbert, inteso come compositore a tutto tondo e non solo mago della tastiera. Sotto questo profilo, lunico contributo scritto nel nostro idioma risaliva a centoquindici anni fa: una lunga disamina – che il volume riporta in appendice – della neonata opera Ghismonda (1895), pubblicata sulla «Rivista Italiana di Musicologia» a firma di Luigi Torchi (tra laltro, il traduttore di Opera e dramma di Wagner e del Bello musicale di Hanslick). Considerato che nel cammino operistico di dAlbert Ghismonda è il secondo titolo di un catalogo destinato a comprendere una ventina di lavori, appare chiaro come in Italia un tentativo di storicizzare il suo teatro musicale non sia mai stato tentato: né il discorso cambierebbe spostando lattenzione sul catalogo cameristico-sinfonico. E siccome pure in Germania questo compositore – sostanzialmente apolide, ma tedesco quanto a parabola artistica – è ricordato poco e male, vien fatto di pensare che dAlbert abbia patito lo stesso destino che, tra i musicisti a cavallo tra il periodo classico e quello romantico, spettò a Louis Spohr: il fatto di essere anche e soprattutto un grandissimo concertista (dAlbert del pianoforte, Spohr del violino) ha fatto passare in sottordine i meriti compositivi.
Tuttavia, suggerisce Guido Molinari, autore di questo volume ponderoso e appassionato, se la mancata programmazione di dAlbert nei nostri cartelloni è da ricercare nella pigrizia mentale (se non nellignoranza) di molti “addetti ai lavori”, lassenza di una bussola critico-esegetica ha radici più profonde. Innanzi tutto, la natura borderline: dAlbert nacque in Scozia da famiglia tedesca con avi italiani; intraprese gli studi musicali prima a Londra, poi in Austria e Germania; finì con lassumere la cittadinanza svizzera (ma sotto il profilo del mercato musicale, nota Molinari, fu un errore non prendere un passaporto tedesco); morì a Riga. In secondo luogo a penalizzarlo provvide leclettismo, che sottraendo la sua produzione teatrale a qualsivoglia denominatore comune (alternò tragedie a tinte forti e piccole opere da camera, drammi simbolisti e commedie satiriche), gli conferì una patente di superficialità del tutto indebita: la fiducia nel teatro in se stesso, senza bisogno di una griglia estetica in cui preventivamente riconoscersi, rappresenta già una presa di posizione, e tuttaltro che qualunquista.
Da ultimo, due contingenze storiche contribuirono allo scemare della sua fortuna post mortem. DAlbert muore nel marzo 1932, dieci mesi prima che Hitler venga nominato cancelliere. Sebbene non fosse ebreo – dunque mancassero motivi per parlare di “musica degenerata”, come avvenne per altri più sfortunati colleghi – la sua natura di apolide errante lo portò a subire il fascino di soggetti ebraici, da Kain (la storia di Abele e Caino) a Die toten Augen (ambientato in Palestina nel giorno della Domenica delle Palme) a Der Golem (nella Praga di Rodolfo II e dei rabbini alchimisti). Era abbastanza perché la sua produzione fosse accantonata. Nel dopoguerra invece un altro tipo di dittatura, questa volta squisitamente intellettuale, avrebbe dato il colpo di spugna al teatro di dAlbert come a quello di tanti altri autori della generazione post-romantica: negli anni di Darmstadt e della critica adorniana sembrava non esserci più posto, eterni classici esclusi, per una musica estranea alla corrente dodecafonica.
Alla lucidità dellanalisi storica il libro affianca la minuzia dellanalisi musicale. Per motivi di spazio Molinari rinuncia a sezionare da cima a fondo le opere teatrali di dAlbert (i riassunti, invece, sono dettagliatissimi), optando per una disamina “a settori” che si rivela di utile sistematicità e solo allapparenza frammentaria: dopo aver dato conto dei caratteri fondamentali di ciascuna opera si passa a brevi capitoli dedicati alle caratteristiche musicali particolari, dallindagine accordale a quella intervallare, dalle principali arie ai pezzi dinsieme, dai brani corali alla struttura dei finali datto. Infine, pure la parte biografica è assai curata, come si conviene a un personaggio che, almeno in veste di pianista, conobbe gli allori del divo ed ebbe unesistenza nomade e sentimentalmente avventurosa (unapposita appendice, ricca di stralci epistolari ma senza tentazioni di gossip, è dedicata ai rapporti con le sei mogli e altre donne importanti della sua vita).
In chiusura di volume, una discografia dà conto di quanta poca musica di questautore sia stata incisa (anche se ci resta una registrazione in cui dAlbert suona alcune sue musiche che, per il discologo, è un reperto preziosissimo): quella strumentale è davvero poca, ma pure sul piano operistico poter contare sullincisione di quattro opere su venti è un magro bottino. In particolare è grave lassenza di un lavoro fondamentale come Der Golem: ma chissà che la recente ripresa a Bonn non porti a un cd, o un dvd, dello spettacolo. Di Tiefland, invece, sono disponibili cinque incisioni. Non cè da stupirsene: è lunica opera di dAlbert che, dalla sua “prima” a oggi, ha continuato a godere di fortuna esecutiva nei paesi tedeschi, sebbene Molinari la definisca né la più bella né la più amata dal suo autore. E anche in Italia è poco conosciuta, ma, almeno, rapportabile al terreno del “sentito dire”, dato che rappresenta uno dei rarissimi casi di verismo extraitaliano e – sia pure solo ad Atene – fu cantata dalla Callas.
Le oltre seicento pagine scorrono agevolmente, anche perché si resta volentieri in compagnia di questo coetaneo di Strauss e allievo di Liszt che ebbe con il teatro musicale un approccio non dissimile da quello che Dino Risi avrebbe avuto con il cinema: ora un lavoro impegnativo ora uno più facile e commerciale, ora un dramma ora (forse più volentieri) una commedia. In ogni caso, una pubblicazione che riempie un vuoto nel nostro mercato editoriale. E offre il destro per una recrudescenza di orgoglio patrio, perché ci fa scoprire che tra gli avi italiani di dAlbert ci fu Leon Battista Alberti.
Paolo Patrizi
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