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VeneziaMusica e dintorni, a. VI, n.31, novembre-dicembre 2009


novembre/dicembre 2009, n. 31
ISSN 1971-8241

È un accostamento originale quello che conclude la stagione lirica del Teatro La Fenice: un dittico sulla carta piuttosto eterogeneo, ma che svela, attraverso lontane affinità e stimolanti contrasti, la ricchezza musicale dell’Europa nel passaggio tra il Romanticismo e il Novecento. A entrare in felice collisione, Šárka di Leoš Janáček e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni: se della seconda molto si sa, l’opera di Janáček – che non è mai stata rappresentata in Italia prima d’ora – ha avuto una vicenda piuttosto singolare, venendo accantonata per diversi anni e poi rappresentata solo nel 1925, per il settantesimo compleanno del compositore. A dirigere il dittico, che vedrà la regia di un grande maestro come Ermanno Olmi, è stato chiamato Bruno Bartoletti, artista di grande sensibilità ed esperienza, per molti anni Direttore Stabile dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e con una particolare sensibilità al repertorio novecentesco e contemporaneo. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare qualcosa di più di questa nuova sfida.

Maestro Bartoletti, dal punto di vista stilistico Šárka pone la sfida di rileggere Janáček, tenendo conto non solo del forte collegamento al nazionalismo di Dvoràk e Smetana, ma ovviamente anche dei successivi sviluppi della sua stessa carriera. Come intende lavorare su questo?

Più che di rilettura, parlerei di una vera e propria «lettura», dal momento che è la prima volta che dirigo Šárka e che quest’opera viene presentata in Italia. Trovo l’accostamento molto stimolante, perché comprende due lavori che sono le rispettive opere prime dei loro compositori, Janáček e Mascagni, due lavori che per la loro lunghezza contenuta possono essere bene accostati. Sono quindi contentissimo di poter dirigere questo dittico: il problema principale per quanto riguarda Šárka è che nella musica non si ritrova il testo del libretto, la musica popolareggiante di Janáček non è certo quella che un simile libretto, quasi wagneriano, potrebbe avere ispirato a un altro compositore coevo. L’operazione diventa così davvero interessante e la possibilità di dirigere, per questa prima esecuzione, un cast di cantanti di lingua originale, mi facilita molto il compito. In quest’opera ritroviamo tutto il carattere di Janáček, quella sua capacità di essere libero, sincero e popolare che raggiunge gli spettatori in modo efficace.

Leoš Janáček
Leoš Janáček

La regia è affidata a Ermanno Olmi. Come si rapporta con i registi solitamente?

Il fatto che la regia sia affidata a Olmi è per me un ulteriore motivo di tranquillità e soddisfazione, perché si tratta di un vecchio amico: forse non tutti ricordano che il debutto alla regia di Olmi fu proprio in un trittico Pucciniano da me diretto a Firenze, per il quale allestì il Tabarro, mentre le altre due opere ebbero la regia di Monicelli e Piavoli. A un regista chiedo il rispetto del testo, ma anche la capacità di invenzione, perché credo fermamente che si possa inventare molto anche senza bisogno di tradire la musica. Porto sempre a esempio un allestimento della Cena delle beffe di Giordano, che facemmo a Zurigo e Bologna con Liliana Cavani: la scelta della regista fu di ambientare l’opera in una famiglia di oggi, attualizzando senza tradire né la musica né il testo, con l’esito di renderla molto più viva ed efficace. Mi aspetto quindi da Olmi una collaborazione intensa e stimolante.

A Šárka è affiancata Cavalleria rusticana: come metterà in relazione le due opere? Quali affinità o quali contrasti si deve aspettare il pubblico veneziano?

Il pubblico non troverà molte affinità, perché si tratta di due opere che appartengono a mondi decisamente lontani tra di loro: per quanto riguarda Cavalleria rusticana, il mio obbiettivo è quello di evitare tutti i mezzucci, che trovo molto provinciali, che siamo abituati ad associare a questo titolo, per tornare a un lavoro quale lo pensò Mascagni dall’inizio, ritrovando la naturalezza delle prime edizioni. Si tratta di un’opera che ha centovent’anni, ma la musica è ancora freschissima e ho sempre in mente la lezione di Von Karajan che ne tolse gli accenti veristi per fare risaltare la raffinatezza che questo lavoro richiede.
 

Přemysl, stampa ottocentesca
Přemysl, stampa ottocentesca

Lei è un direttore che si muove con altrettanta sensibilità nel repertorio più classico (Puccini, Mascagni) così come in quello contemporaneo. Alla luce di questa sua esperienza, quali chiavi interpretative ritiene più stimolanti in uno scenario difficile come quello odierno?

Sono particolarmente felice di dirigere questo primo lavoro di Janáček perché ne ho già diretto i lavori successivi, Kát'a Kabanová, L'affare Makropulos e Jenufa: mi interessa molto capire, studiando quest’opera, come sia nato tutto quel mondo che conosco perfettamente: in Šárka si sente quello che verrà, alcune cose in forma ingenua certo, ma comunque sono già presenti. Per quanto riguarda Mascagni non posso che rileggerlo da toscano, con quell’amore incredibile per il suo talento immenso, un talento che esprime in Cavalleria rusticana e che sappiamo, con dispiacere, che non seppe più replicare.

Dopo Venezia, quali saranno i suoi prossimi impegni?

Dirigerò L'Heure Espagnole di Ravel ad Ancona, anche in questo caso abbinata in un interessante dittico ad Andata e ritorno di Hindemith, poi tornerò a Firenze per Adriana Lecouvreur. Sono comunque tempi di crisi e ci tengo a sottolineare la professionalità con cui teatri come la Fenice o Torino mantengono i loro impegni, a conferma non solo della loro serietà, ma del fatto che qualcuno i conti li sa ancora fare.

 

a cura di Enrico Bettinello


VeneziaMusica e dintorni, a. VI, n.31, novembre-dicembre 2009

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Mikoláš Aleš, Libuše
Mikoláš Aleš, Libuše

 


 

Mikoláš Aleš, Bivoj
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