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Piermario Vescovo

Entracte. Drammaturgia del tempo


Marsilio,Venezia, 2007, pp. 271
ISBN 8831793004

Complesso nel suo intreccio di piani diversi e interrelati (il livello teorico si avvale di quello storico e dell’analisi per campioni drammatici), l’importante volume di Piermario Vescovo pone al centro del suo serrato argomentare la temporalità. Una categoria fondativa che ha prodotto equivoci e dibattiti, fra cui quello dei neoaristotelici riguardante una presunta oggettività temporale. Vescovo illustra, in maniera inoppugnabile, come essa abbia avuto più riscontro nell’ordine cartaceo del testo che nella concreta realizzazione scenica, poggiante su ellissi e tagli che consentivano una diversa durata dell’azione costretta nel tempo ristretto dei regolisti. Sul piano teorico, aleggiano le magistrali analisi di Szondi sulla peculiarità del teatro data dalla ‘presentificazione’ che, come mostra Vescovo nel bellissimo epilogo, trasforma le diverse dimensioni del passato – non a caso l’analisi è condotta sullo straordinario testo di Beckett L’ultimo nastro di Krapp – in un qui e ora che senza sosta svapora.

Il libro si misura con le categorie più in uso nell’analisi testuale attinte alla fondamentale  opera di Genette, sulla scia del meno noto Drama y tiempo di García Barrientos, prospettato come un punto di riferimento ineludibile per chi intenda inoltrarsi nel campo minato del teatro nella sua molteplicità di piani. Allo stesso modo il libro di Vescovo va considerato come uno studio fondamentale di cui non si potrà più fare a meno.

Otto compatti capitoli, incorniciati da un prologo e da un epilogo, dipanano l’ingarbugliata matassa della categoria ‘tempo’, che, se nel congedo assume le molteplici sembianze delle voci del vecchio Krapp, nel prologo si personifica nel suo stesso nume che recita il prologo nell’Anconitana di Ruzante. Così lo studioso pone sul tappeto la prima e fondamentale questione: il dislivello fra il tempo mondano e quello teatrale, il cui saldo si fa attivo soltanto grazie all’intervallo in cui si collocano le ellissi e i tagli. Accanto a questo escamotage, elaborato dal teatro regolare cinquecentesco, Vescovo situa, per un immediato confronto, il salto di sedici anni, sottolineato dal tempo sotto forma di Coro, nel Racconto d’inverno di Shakespeare. Due testi teorici fra Sei e Settecento (la Pratique du théâtre di d’Aubignac e gli Élémens de littérature di Marmontel) mostrano come soltanto nel secondo maturi la “coscienza della relatività del sistema dell’illusione” (p. 22) da cui scaturirà il sipario, mentre nel primo si fissava, proprio in nome di quell’illusione, la differenza fra ellissi e scena parallela, acquistando una funzione basilare l’entracte che comprendeva il tempo stralciato dalla rappresentazione. Nel 2° cap. si propone una tipologia delle scene in rapporto alla durata, distinguendo, accanto alla isocronica, la scena condensata (ad es. l’inizio dell’Amleto o la Veniexiana) da quella dilatata impostasi nel Novecento quale “istanza dell’interiorità” rispetto alla quale la prima si caratterizza per la sua “estroflessione” (p. 43). Vescovo distingue inoltre la regressione che apparterrebbe più al piano dell’ordine del discorso che a quello della durata, notando come tale procedimento (l’andare indietro nel tempo) appartenga  inizialmente al teatro spagnolo e a Lope de Vega. Vari rilievi sui suoi autori (cap. 3°), insieme ai contemporanei Wilder e Pinter, esemplificano la riflessione teorica sui nessi e cerniere temporali interni alle scene, mentre più avanti l’analisi si sofferma, sulla scorta del fondamentale Tempus di Weinrich, sulla didascalia come forma diegetica “commentativa” (pp. 94-95). Di qui il rilievo che assume la categoria di sommario nella demarcazione o sovrapposizione del tempo fra modo drammatico e modo narrativo (p. 97). Dalle contraddizioni di Manzoni (coro come diegesi ma concezione del dramma assoluto) al primato della diegesi in Brecht, il sommario è figura del nesso e combinazione di un nesso e di un salto. Fra i tanti esempi, segnalo la finissima analisi dell’ultima commedia di Eduardo, Gli esami non finiscono mai dove i sommari si rincorrono nel sovrapporsi di mimesi e diegesi.

Al centro del libro i due capitoli più significativi ci aiutano a ricostruire il nostro approccio al teatro, liberandoci da luoghi comuni e pregiudizi, innanzi tutto dal ruolo svolto dalla Poetica di Aristotele. Il Commento a Terenzio di Donato, riscoperto nel primo Quattrocento, ne prende il posto: da esso derivò l’applicazione a Plauto della divisione in atti, così come la regola della scena vuota e della delimitazione dell’atto per rispondere a esigenze rappresentative (pp. 110-20). Vescovo ribadisce la differenza fra plot-division e stage-division, mutuata dalla critica anglosassone, rilevando come la Mandragola guardasse più alla seconda che alla prima. Se al teatro spagnolo è ricondotta la nascita della più moderna forma tripartita usata ad es. da un Goldoni, le ragioni per cui de la Cueva, Cervantes e lo stesso Lope la utilizzano sono da addebitarsi alla volontà di prendersi più tempo nella storia e meno sulla scena, secondo un processo inverso a quello  del teatro regolare francoitaliano.

I rilievi sulla mancata “coincidenza tra disposizione retorica e reale strutturazione scenica” (p. 151) toccano il cuore del problema: dai dialoghi di Ruzante alla Veniexiana all’accostamento del Borghese gentiluomo di Molière al Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare in nome del divario fra articolazione scenica e disposizione cartacea. Si danno, così, gli eroi “vittime del tempo contato”, come i personaggi del Cid, costretti a rientrare in un tempo inverosimile, contro cui, a ben guardare, si scagliano gli accademici della celebre querelle. Amleto che differisce il tempo o la tradizione del don Giovanni che riduce la doppia cena in una ci mostrano, grazie al bel libro di Vescovo, l’incidenza del tempo nel teatro, persino in quel teatro nel teatro (da Pirandello a Molière e Corneille) che abbiamo visto sinora soprattutto come rivoluzione dello spazio teatrale.

di Beatrice Alfonzetti


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