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Segnocinema, anno XXIX, n. 158, luglio-agosto 2009
Rivista cinematografica bimestrale

n. 158, anno XXIX, p. 80, € 6,00
ISSN 0393-3865

Segnocinema è una delle poche riviste italiane di cinema che cerca di tenere viva una discussione teorica intorno ai vari aspetti che caratterizzano l’arte cinematografica, compito, questo, facilitato soprattutto dalla varietà di "anime" presenti all’interno dei suoi collaboratori, cosa che contestualmente vivacizza il dibattito all’interno delle sue pagine ed evita quell’autereferenzialità spesso presente in questo tipo di pubblicazioni. Infatti non si è ancora sopita l’eco delle prese di posizione generate dall’articolo Goodbye cinema? di Vincenzo Buccheri nel numero 152, che Paolo Cherchi Usai apre un nuovo argomento di confronto: il cinema tridimensionale. Ma procediamo con ordine.

Il numero 158 si apre con una bella lezione di giornalismo che il veterano Morando Morandini impartisce ai "giovani" Natalia Aspesi e Paolo Mereghetti, rei di essersi dovuti piegare alle esigenze della cronaca quotidiana e quindi di aver recensito Vincere di Marco Bellocchio, non solo senza la giusta riflessione, ma, probabilmente, senza aver avuto la possibilità materiale di poterlo vedere per intero, "non è possibile paragonare un film di Bellocchio ad un qualsiasi scoop di cronaca nera", è questo l’insegnamento che il vecchio critico cinematografico dà a tutti quelli che si occupano di cinema, ovvero il film è innanzitutto una profonda e complessa operazione culturale, non una notizia di costume, e spetta a chi ne scrive (specie con una certa autorità) marcare la differenza. Segue un intenso ed inedito ritratto che Barbara Grespi fa di Vincenzo Buccheri come critico-teorico ma soprattutto cineasta più o meno dilettante (ha partecipato due volte, nel 1996 e nel 1998, al Sacher, il concorso per cortometraggi organizzato da Nanni Moretti), intrecciando questi due aspetti di questa complessa personalità e cercando di "raccontare il Vincenzo meno noto: il non visto (i suoi film) e l’invisibile (i suoi progetti: tanti, un’inesausta serie di sfide con se stesso)."

Vederci triplo è il bel titolo dell’articolo di Paolo Cherchi Usai su quello che convenzionalmente è chiamato 3D, ovvero il cinema tridimensionale o stereoscopico. Il pezzo contiene un’interessante panoramica storica di tutte le volte che il 3D si è affacciato nelle sale, sottolineando come il ricorso a questa forma rappresentativa abbia sempre coinciso con periodi in cui il cinema avvertiva la minaccia della fuga degli spettatori verso altri media (la radio, la televisione, le videocassette). Adesso il nuovo nemico è il download (più o meno legale) dei film da internet e la loro fruizione su supporti superportatili come il telefonino o il lettore mp4, ed ecco che il cinema ricorre di nuovo al 3D, per offrire nuove "attrazioni" e richiamare così il pubblico in sala, questa, in brutale sintesi, è la visione, piuttosto scettica e disincantata, che Cherchi Usai dà di questo ritorno di fiamma di un formato con un grande avvenire dietro le spalle. A mio avviso, però, c’è qualcosa di sostanzialmente diverso oggi rispetto alle passate ed effimere "stagioni del 3D": la continua, costante e soprattutto rapida evoluzione dell’elettronica, dell’ottica e del fantomatico digitale (del quale, peraltro, lo stesso Cherchi Usai ha previsto un rapido declino nello speciale del numero 154 di Segnocinema), fanno pensare ad un clima molto più favorevole ad una possibile evoluzione di questa tecnologia, magari senza neanche bisogno di occhialini o schermi riflettenti. Se così fosse ci si troverebbe di fronte a testi decisamente "nuovi" ed i problemi, anche teorici, di lettura ed interpretazione, derivanti da questa nuova forma di realizzazione e fruizione del film, potrebbero anche essere più complessi di quello che ci è dato di pensare. Per Cherchi Usai "il 3D produce un cinema lento, solenne, dominato da movimenti in perpendicolare" ed aggiunge che "un film comico ed una storia d’amore non hanno bisogno del 3D". Sembra quasi di essere tornati ai dubbi che accompagnarono l’avvento del sonoro, ma poi arrivarono le cabine di regia, i carrelli silenziosi, il formato unico di registrazione, i nuovi microfoni... insomma mai porre limiti preventivi all’evoluzione tecnica. Rimane, comunque, aperto un problema di carattere, diciamo, deontologico: come parlare di un film di cui esiste una versione tradizionale ed una in 3D? Quest’ultima è solo un accessorio "attrattivo" o ha una dignità a sé stante? Quanto la prima versione ha condizionato la seconda e viceversa? Aspettiamo che sia pronto l’ormai proverbiale Avatar di James "Titanic" Cameron e forse riusciremo a capire qualcosa di più sull’effettivo futuro di questa forma espressiva (che quest’anno sbarcherà "fuori concorso" anche alla Mostra del cinema di Venezia, e chissà che anche questo non voglia già dire qualcosa).

A proposito di Mostra del cinema Sopra le palme, sotto i leoni di Antonio De Grandis ritorna sull’atavico ritardo di Venezia rispetto al "rivale" Festival di Cannes, con la consueta denuncia della mancanza di coraggio nelle scelte della giuria, e della propensione, tutta veneziana, a premiare opere troppo elitarie, quasi sempre distanti sia dai gusti del pubblico che dalle novità produttive (con le "felici eccezioni" di Hana-bi di Takeshi Kitano e Vive l’amour di Tsai Ming-Liang). Certo che la polemica su quanto sia "avanti" Cannes rispetto a Venezia è ormai diventata, più che un classico, un luogo comune e non resta che sperare che quest’anno, con un Cannes insolitamente "veneziano" (Ang Lee, Tsai Ming-Liang, Johnnie To, Park Chan-Wook, Loach, ma anche Resnais e lo stesso Bellocchio), che ha premiato il bello ma fin troppo annunciato The White Ribbon di Haneke, ed una Venezia necessariamente più coraggiosa (Tsukamoto, Solondz, Chéreau ma anche Romero) con in più qualche "classico" rubato al rivale (Rivette, Moore, Herzog), possa, per una volta, far tornare le mezze stagioni (Tornatore permettendo...).

Lo speciale di questo numero è dedicato ad uno degli autori più controversi e prolifici del cinema contemporaneo: Woody Allen, quarant’anni di carriera per quaranta film. Icona per una numerosa élite (mi si perdoni l’ossimoro) cosiddetta radical-chic, ma sempre poco apprezzato da certa critica cinematografica, che spesso lo ha ritenuto uno scrittore (o, nel peggiore dei casi, un battutista) che ha usato il cinema come veicolo per i suoi motti di spirito, Allen continua sempre a far discutere (specie da questa parte del pianeta) e i suoi film (che ormai da svariati lustri hanno un’incredibile cadenza annuale) sono, nel bene o nel male, "eventi" sui quali confrontarsi. Lo speciale si rivela davvero un’ottima lettura, sia per gli estimatori che per i detrattori del regista perché, nello spirito dialettico che contraddistingue la rivista, vi sono ampiamente rappresentate entrambe le istanze, che si confrontano, da punti di vista affatto scontati, in un derby che, comunque, vede tutti concordi nel riconoscere ad Allen un ruolo, suo malgrado, importante, nella storia del cinema.

In Actor Segno continua la paziente opera di Cristina Jandelli tesa ad evidenziare l’importanza del contributo dell’attore all’interno dell’opera cinematografica e l’interpretazione di Sean Penn in Milk, di Gus Van Sant, sembra fatta apposta per facilitare questo compito. Jandelli entra in profondità nella metodologia di costruzione del personaggio dimostrando come la via seguita da Penn nella costruzione del suo Harvey Milk, non sia quella dell’immedesimazione ma quella dell’imitazione. Sempre per quanto riguarda le rubriche Paola Valentini in Segno Sound si occupa della complessa colonna sonora di The Millionaire, di come il film di Dan Boyle sia riuscito a restituire il "paesaggio acustico dell’India", armonizzandolo perfettamente con le campionature digitali di A. R. Rahman. Completano il numero tre articoli sulle tre principali sezioni del Festival di Cannes 2009 (Concorso, Un certain regard e la Quinzaine des réalisateurs), i quali offrono un panorama molto esaustivo su quest’ultima edizione, che, tutto sommato non ha deluso le aspettative, così come non ha deluso l’ultima edizione del Far East Film Fest di Udine, stando a quanto riporta Adelina Preziosi nel suo Noodles a colazione.

Ancora una volta una frase mi ha particolarmente colpito e mi sembra un’altra ottima conclusione: "la via per la saggezza, e forse per quella cosa che più si avvicina alla felicità, passa per l’accettazione della propria disabilità radicale, del proprio essere sbagliati, e testardi, e ostinati." (Vincenzo Buccheri)

Luigi Nepi


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