Il libro di Beatrice Alfonzetti, apparso nella Collana del Dipartimento di italianistica e spettacolo (La Sapienza, Università di Roma), prosegue e approfondisce un filone di ricerca sui finali nella narrativa e nel teatro intrapreso anni or sono da alcuni studiosi italiani, tra cui Giulio Ferroni e la stessa Alfonzetti. Incentrati su quello che rappresenta il momento culminante della scansione del testo letterario e drammaturgico, gli scritti di questi autori, o di altri presenti nei volumi collettanei da essi curati, apportano un contributo su quellaspetto piuttosto singolare che è il finale di unopera – come lo sono state del resto le ricerche sugli incipit, speculari a queste altre. Finale mai considerato isolatamente bensì investigato nel suo contesto storico, a partire cioè da epoche e forme canoniche, da paradigmi letterari, politici, morali, antropologici, dentro e oltre i quali sono sorte determinate strategie autoriali, talvolta apertamente trasgressive della norma, talaltra capaci di aggirarla con un paradosso.
Come tutti i lavori seri e scientifici questo libro nasce da unesigenza di chiarezza, e dovendo fare innanzitutto piazza pulita dei luoghi comuni più diffusi sul finale, si rivolge al lettore con una constatazione che suona come un avvertimento: "Nel parlare del finale, infatti, cè un pregiudizio principe che ci perseguita, quello di riferirci quasi esclusivamente al suo contenuto […] La domanda sul ‘come va a finire prende il sopravvento sui rilievi di carattere formale e retorico e ci si ritrova a fare considerazioni critiche a partire da semplici contenuti, che in sé poco indicano della complessa architettura dei finali"(p.11). La chiusa, che a partire dalla Poetica di Aristotele è stata considerata "la sequenza di maggior rilievo", o più genericamente "il banco di prova dellabilità di scrittura", richiede dunque nella "scelta di assumere la centralità del finale" un supplemento di analisi e di lettura critica dei testi. Giacché, come precisa lautrice nella Premessa, "anche la lettura del finale è un atto interpretativo, un esercizio di ermeneutica critica" (p.7).
Non sembrando esaustivo circoscrivere il finale alle ultime battute di un testo, sarà lecito, anzi necessario porsi, come fa lautrice, la domanda: "Dove inizia il finale?" La proposta che ne consegue è di adottare per la tragedia, dove fine e morte in fondo si equivalgono, uno schema tripartito, per poter distinguere così il finale incipitario – adottato da Euripide e in uso nella drammaturgia cinquecentesca, che con "il racconto dellantefatto, lanticipazione del finale istituisce così un ponte fra inizio e fine dellazione" (p.17) – da quello circolare, nel quale il chiudersi del cerchio con delle morti tragiche, sul modello della Medea di Seneca, diventerà una prassi ricorrente nel Seicento; per diversificarlo infine dal settecentesco finale inaspettato, più vario negli esiti, che abolendo lintervento divino e il prodursi dellazione "sul piano strettamente "storico" cioè umano (Maffei)" (p.29), ha sostituito i prologhi e i cori, cioè "il codice oratorio e narrativo con quello dialogico" (p.29).
Ma esiste anche un lieto fine nella favola tragica, e ad esso lAlfonzetti dedica un intero capitolo per motivarne le finalità: le quali possono essere ad esempio di ordine religioso o morale, quando a trionfare è la "virtù ricompensata o lodata" (p.41); oppure di natura politica, poiché "generalmente legate a committenze di corte" (p.36), o perché adombrano nobilmente, nel gesto definitivo di un personaggio, la figura di un regnante o di un potente. E qui entra in gioco unaltra delle questioni nodali di cui lautrice si è occupata in passato fornendo contributi eccellenti sia sul piano teorico-estetico sia su quello storico: il divieto della morte in scena. Divieto concernente la rappresentazione della catastrofe – esempi sono i duelli allultimo sangue, la vista del matricidio, del patricidio, del tirannicidio – cui si può ovviare ricorrendo al racconto nel quale viene a inscriversi lapice tragico, che in tal modo contribuisce a mitigare o a occultare il gesto ("In un senso molto generale si può affermare che alla narrazione della catastrofe è consentito ciò che alla visione è interdetto", p.51). Non del tutto tabuizzata è invece la morte volontaria, il cui accesso alla scena è consentito, seppure con qualche limitazione normativa: la sua ammissione deve comportare "il corredo della parola, lassenza di sangue cioè la morte per veleno e limmediato allontanamento del corpo estinto" (p. 63). Grato a un talento ribelle come quello dellAlfieri, è il finale tragico da lui inaugurato nella sua nuova veste, che procede a testa alta recuperando "la morte visiva, per secoli consumatasi dietro la scena", ora non più interdetta, ma che "anzi sembra richiedere la scena persino in nome di ragioni estetiche" (p.71).
La contrazione del dramma nellatto unico, verso la fine del diciannovesimo secolo, interviene sulle sue componenti strutturali assegnando un valore diverso allepilogo. Qui "scioglimento e catastrofe si sono dilatati a tal punto da occupare tutto lo spazio drammatico" (p.93). Ai paraventi e alla nuova convenzione che non propone più "lillusione di realtà, ma quella di irrealtà (p.108); a coltelli e rivoltelle quali oggetti micidiali sul cui uso nel finale viene focalizzata lattenzione; alle risate e alle interruzioni, alle attese e alle sparizioni che intervengono drammaturgicamente marcando o dilatando lepilogo del dramma, e alla circolarità del continuare/ricominciare, caratteristica di tanto teatro italiano ed europeo del dopoguerra, sono intitolati altrettanti capitoli di questo studio magistralmente condotto, che unisce alla sapienza e alla compiutezza dellanalisi leleganza di una prosa che anche nelle argomentazioni più complesse non perde mai il suo smalto. Tanto più vogliamo scusarci, sia con lautrice che con il lettore, per aver colpevolmente sacrificato, in questa nostra breve e schematica segnalazione, la ricchezza di suggestioni labirinticamente suscitate dal testo. di Franco Sepe
|
|