Il numero di novembre/dicembre 2008 di «Segnocinema» è davvero molto interessante e non solo per il bellissimo ed illuminante speciale sul cinema digitale, ma anche per gli scritti di Giovanni Bottiroli sulla necessità di educare le nuove generazioni allanalisi dellimmagine in movimento, di Paolo Cherchi Usai sul cinema di Hong-Kong, nonché per i resoconti sul Festival di Locarno, la Mostra del Cinema di Venezia e sulle giornate del Cinema muto di Pordenone, ai quali vanno, ovviamente, aggiunte le consuete rubriche di recensioni cine-televisive, esemplari come sempre.
Lintervento di Bottiroli, dal sottotitolo A scuola con Tom & Jerry, è una proposta di confronto dialettico con Vincenzo Buccheri e con quanto da questi scritto nellarticolo Goodbye cinema? nel numero 152 di «Segnocinema», sulle trasformazioni (e le crisi) che larte cinematografica sta attraversando in questo periodo, da tutti i punti di vista: produttivo, teorico-estetico-critico ed anche nelle modalità stesse di fruizione da parte del pubblico. Bottiroli contesta laffermazione che la critica in generale, e quella cinematografica in particolare, sia vittima di un eccesso di teoria, evidenziando come, in assenza di novità importanti, sia proprio linsegnamento teorico ad essere sacrificato o eccessivamente semplificato. Ciò accade a tutti i livelli, soprattutto a quello universitario, ed è in questo deficit che lautore vede la causa di questa crisi. Bottiroli indica una possibile via duscita nel "rapporto positivo tra la complessità della teoria e la vita quotidiana", che può essere frutto solo di una "buona educazione" e che dovrebbe diventare unabitudine fin dai primi anni di scuola. Insomma spiegare lestetica e le forme retoriche ai bambini è possibile e doveroso, visto che cè un immenso patrimonio da sfruttare che sono, appunto, i cartoni animati, i quali, nelle loro, spesso iperboliche, rappresentazioni, sono una vera e propria miniera di forme retoriche esplicitate e, per questo, facilmente (e piacevolmente) spiegabili. Lo scritto di Paolo Cherchi Usai sul fenomeno del cinema kung fu che, nato ad Hong-Kong alla metà degli anni sessanta, per quasi un ventennio ha spopolato anche in Occidente, è una lucida analisi di un genere che, pur essendo il prodotto di una cultura ben precisa, è riuscito non solo a diffondersi in tutto il mondo, ma ad essere attualmente oggetto di nobilitazione autoriale da parte di registi quali Zang Yimou, Ang Lee e Tarantino. Larticolo è corredato da una intrigante filmografia essenziale del genere dal 1965 al 1991.
Lo speciale di questo numero che si intitola Il moviemaking digitale è il vero piatto forte di questo numero. Gli autori dei vari interventi, ognuno dal loro punto di vista, aprono porte sulle diverse problematiche teorico-pratiche che il digitale porta nel cinema; la particolarità di questo speciale sta proprio nel fatto che questi punti di vista sono profondamente differenti tra loro (a volte anche opposti), il che permette di avere un quadro tuttaltro che parziale dellargomento, facendo vedere come sia possibile (e perfettamente ammissibile) un approccio plurimo a questa materia. Si passa dalle fosche previsioni di Cherchi Usai, che finisce per preconizzare, tra breve, la fine dello stesso digitale, prima che si sia riusciti a comprenderlo veramente, allexcursus storico di Carlo Montanaro che invece sembra non vedere questa fine imminente. Se Simone Arcagni cerca una nuova definizione di cinema che comprenda tutto ciò che viene prodotto in digitale (quindi non solo i film per le sale ma anche i filmati di YouTube), Enrico Terrone si concentra su quali siano gli scritti teorici più significativi per "ridefinire" lidea stessa di cinema alla luce del cambio di supporto di registrazione, elaborazione ed anche riproduzione delle immagini portato dal digitale. Più pragmatici sono gli approcci di Mauro Resmini, che vede nel digitale un valore sopratutto duso, e di Mauro Antonini, che vede nel digitale ancora grandi possibilità per costruire quegli immaginari irrapresentabili in analogico.
Un discorso a parte lo merita larticolo di Flavio De Bernardinis sul performance capture dal geniale titolo Le psichique du rôle. Questa tecnica innovativa ha permesso a registi come Robert Zemeckis, di realizzare film quali Polar Express e Beowulf, dove lanimazione dei personaggi è ottenuta digitalizzando i movimenti di un attore che indossa una tuta rivestita di sensori. Tutto ciò permette di ridefinire il ruolo stesso dellattore, che non solo si trova ad agire in uno studio cinematografico molto simile ad un palcoscenico teatrale, ma anche dovrà recitare come se si trovasse in teatro; senza doversi preoccupare né dellilluminazione né dellinquadratura né di altri accorgimenti cinematografici visto che le macchine da presa sono disposte a 360° gradi intorno a lui e tutto il resto sarà elaborato in fase post-produttiva. Il fatto che questa tecnica permetta di modellare le caratteristiche fisiche dellattore apre scenari davvero impensabili: non cè più bisogno che lattore abbia il "fisico giusto", ma dovrà saper esprimere la profonda natura della "maschera" che è chiamato ad interpretare, ciò può portare ad unestrema libertà nel selezionare il cast, senza più barriere preconcette, nemmeno di genere.
Per quanto riguarda le rubriche e le recensioni oltre ai resoconti delle tre importanti manifestazioni ricordate allinizio si segnala: una bella analisi del film Due uomini e una dote di Mike Nichols fatta da Mario Molinari per Segni Infranti; una riflessione decisamente interessante sullattore-autore fatta da Cristina Jandelli in ActorSegno per il film Lascia perder, Johnny! di Fabrizio Bentivoglio; mentre in SegnoSound Paola Valentini fa una disamina molto precisa e puntuale sullimportanza che il suono ha nella costruzione di un film particolare come Cloverfield di Matt Reeves. Unultima segnalazione va alla ficcante stroncatura che, allinterno di SegnoFilm, Roy Menarini riserva allultimo film dei fratelli Coen, Burn After Reading.
Luigi Nepi
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