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Leonardo Lugaresi

Il teatro di Dio

Il problema degli spettacoli nel cristianesimo antico (II-IV secolo)

Morcelliana, Brescia 2008, pp. 895, 40,00 euro.
ISBN 978-88-372-2257-4

La trattatistica cristiana medievale in materia di spettacoli costituisce senza dubbio un corpus di documenti di fondamentale importanza storica, non solo poiché contiene le ragioni teoriche della radicale contrapposizione tra Chiesa e teatro, ma anche e soprattutto perché offre una diversa impostazione del problema della rappresentazione, che pone in causa sia il complesso rapporto tra verità e finzione, sia l’attenzione a qualità dello sguardo e intenzione del “vedere”, segnando un radicale slittamento semantico delle nozioni stesse di dramma e teatro.

L’importanza di un’analisi approfondita di queste fonti è sempre stata intuita dagli studi teatrologici. Ma una loro lettura parziale, raramente accompagnata da una mappatura esaustiva e da uno studio sistematico delle medesime e spesso fatta su citazioni di seconda mano, ha portato ad una interpretazione del problema degli spettacoli quasi esclusivamente in chiave etica e idolatrica: essendo falsi, gli spettacoli sono vani ed educano alla menzogna corrompendo gli animi. Inoltre, basandosi su un sistema di valori pagano, altro non sono che idolatria.

Questo paradigma storiografico è stato elaborato anche e soprattutto al di fuori degli studi teatrologici, in seno allo studio della storia del cristianesimo, dove l’argomento ha riscosso un certo interesse nel corso degli anni Settanta del Novecento. Ne risulta un’esegesi che coglie piuttosto la pars denstruens della trattatistica del periodo, tutta volta a denunciare la negatività e l’illegittimità degli spettacoli del mondo antico, radicalmente condannati ed esclusi dalla vita cristiana. Va da sé che partendo da tali premesse teoriche il problema sembra marginale o prodromico ad altro contesto, quasi un antefatto della genesi del teatro sacro medievale: come se l’impatto con la società tardo antica avesse provocato una forma ‘altra’ di spettacolo, ambigua ancorché contraddittoria e comunque tutta interna al sistema rituale e celebrativo proprio dei cristiani. A questa linea interpretativa vanno ascritte le aporie rilevabili nel pensiero di pressoché tutti i maggiori teorici del teatro medievale da Chambers a Young, sino a Hardison, che sfocia in modo evidente nell’impossibilità di definire con i termini propri tanto della cultura teatrale antica quanto di quella moderna la messa in azione del dramma di salvezza.

La discussione va invece inquadrata all’interno di quella perspicuità dell’indagine storica che le discipline del teatro hanno fatto loro sin dal magistero di Molinari e Zorzi (sulla scia delle considerazioni di Zumthor e Le Goff, in primis), ammonendo lo studioso a cogliere le istanze del contesto culturale nel quale si pone il fenomeno analizzato. L’idea del “documento-monumento” è allora importante come sfondo alle considerazioni di Drumbl (Quem Quaeritis. Teatro sacro dell’alto Medioevo, Roma 1981) sulla peculiarità delle fonti cristiane e sulla necessità, conseguente, di una loro lettura alla luce dei principi strutturali propri della teologia dell’incarnazione. Sono queste le considerazioni che muovono oggi gli studi sul dramma cristiano che hanno certamente nella Theodrammatca di Von Balthasar un caposaldo teorico di eccellenza.

Ed è proprio a partire dal concetto della veritas cristiana che si articola il recentissimo saggio di Leonardo Lugaresi, Il teatro di Dio, ampiamente documentato per fonti e studi di riferimento, che ricostruisce i confini teorici del discorso cristiano sugli spettacoli attraverso le maggiori opere della patristica latina – da Tertulliano, il vero fondatore e ordinatore della materia, a Novaziano, Cipriano e Arnobio, per concludere con Agostino – e di quella greca – dagli alessandrini Filone e Clemente a Giovannni Crisostomo, passando per Origene. Grazie allo studio di Lugaresi si pone definitivamente in luce quanto nel discorso cristiano sugli spettacoli siano contenuti elementi di una teoria del teatro originale e meritevole di nuova considerazione, che ha fondamenti non in primo luogo etici, ma ontologici ed epistemologici. Infatti, non sono i contenuti ad essere presi di mira, ma la forma e la funzione dello spettacolo. La condanna assoluta e inappellabile del pensiero cristiano agli spettacoli è piuttosto una condanna alla spettacolarità intesa come atteggiamento de responsabile e sostanzialmente basato sulla vanitas (vista sia come inutilità che come menzognera spettacolarizzazione anche del sé) contrapposta alla veritas. Proprio il non aver insistito sull’argomentazione contro la ratio veritatis ha messo la critica storica nell’imbarazzo di non avere compreso la peculiarità del discorso sugli spettacoli, puntando altresì su ragioni superficialmente contenutistiche e morali. Il saggio prende avvio dalla considerazione di un dato di fatto e cioè che la Chiesa tra il II e il V secolo seguì la linea dell’assoluto rifiuto di tutte le forme di spettacolo praticate nell’età tardo antica: dato che negli spettacoli non c’è nulla di positivo, i cristiani devono astenersi dal frequentarli.

Una condanna massiccia e compatta, nel segno di una drastica esclusione, senza alcun tentativo di istituire forme alternative di spettacolo cristiano, che però non sembra una condanna scontata. Perché, mentre la Chiesa cercò sempre di mediare con altri aspetti della cultura pagana secondo una linea inclusiva, non fece lo stesso con gli spettacoli? Perché questa inappellabile contrapposizione verso una pratica della città tardo antica di primaria importanza come fattore di integrazione culturale, quando, cioè, i cristiani erano impegnati a difendere l’opportunità e la legittimità della loro appartenenza al sistema sociale e non frequentare gli spettacoli significa isolarsi dalla vita civile? Perché, inoltre, se una tale condanna entrava manifestamente in collisione con gli interessi del potere imperiale, il quale, anche dopo la svolta cristiana e dopo averne attutito o del tutto eliminato il carattere religioso pagano, si serviva dei ludi a fini politici? Perché, infine, se la richiesta di astensione andava contro l’effettiva pratica dei cristiani, assidui frequentatori degli spettacoli, e se la Chiesa stessa avrebbe potuto convenientemente servirsi di essi come strumento di comunicazione e propaganda cristiana? Articolato in sette capitoli, preceduti da una corposa introduzione molto utile per orientare il lettore nella vasta e complessa materia, il saggio di Lugaresi indaga il sistema di pensiero - che definisce una vera “macchina ideologica” - sotteso alla condanna degli spettacoli propria del cristianesimo e si propone di studiare la dottrina elaborata dagli autori cristiani come risposta a tali interrogativi.

Sin da Tertulliano, i cardini del discorso sono sostanzialmente due: da un lato il loro essere simulatio (e non mimesi) di una realtà irreale, menzognera e vana (fatta di storie immaginarie o di personaggi della fantasia), che contraddice l’unicità della verità del mondo (creato da un unico Dio) e che, per di più, porta con sé l’ambiguità della realtà della performance – ambiguità che aveva anche caratterizzato le perplessità addotte dai pagani attorno alla bontà degli spettacoli -, la quale accade realmente ed è agita da uomini reali. Il conflitto, o meglio l’irrisolvibile cortocircuito tra essere e sembrare, vero e falso, realtà e finzione si risolve per il cristiano nel mistero dell’incarnazione, che rendendo visibile l’invisibile fonda la necessità di un’unica verità: per il cristiano c’è un unico tempo, l’ora, in cui si agisce un’unica azione drammatica, la redenzione, in un unico luogo, il mondo. Di questa azione drammatica agita nel theatrum mundi, l’uomo è sempre attore. L’unico spettatore, amorevolmente partecipe, è Dio. Ogni spettacolarità, allora, è estranea allo sguardo cristiano che, al contrario, è considerato una vera e propria azione al pari delle altre. Questo è il secondo cardine teorico del discorso: l’uomo, guardando, agisce e partecipa della realtà che guarda, ne è responsabile. Anche sotto questo aspetto, dunque, l’uomo non può essere spettatore distaccato e distante rispetto all’oggetto dello sguardo, ma è attore, performer, implicato in prima persona in un’esperienza concreta e reale alla quale è chiamato a rispondere con azioni. È proprio la dimensione performativa dello sguardo che rende il cristiano responsabile di ciò che vede ed esclude totalmente la dimensione spettacolare, che si fonda sulla possibilità di considerare ciò che accade sulla scena come appartenente ad una realtà altra, diversa dalla verità, unica. Dopo la pars denstruens, però, esiste una pars construens? Esiste, cioè, una teoria cristiana della rappresentazione scenica? A tal proposito è molto esaustivo Agostino che, sulla scia di quanto aveva già intuito Tertulliano, definisce tre possibili scene cristiane: 1) lo spettacolo della natura creata 2) la scena mentale della preghiera e della meditazione – memoria dei fatti scritturali e delle vite dei santi o dei martiri 3) il teatro della vita cristiana, fatto di azioni di carità. In altre parole, il ‘teatro della misericordia’ nel quale l’uomo si fa attore del dramma della salvezza seguendo Cristo, cioè imitandolo.

Esattamente a partire da tale snodo si possono comprendere la peculiarità del “teatro cristiano”, la sua distanza dalla concezione del teatro antico e moderno (come mimesi della realtà e meraviglia) e la sua attualità. Infatti vengono stabilite sostanzialmente due tipologie di “messa in scena”: la prima, prevalentemente atta alla costituzione di un teatro mentale, è la modalità memorativa, nella quale agisce una rappresentazione come ri-presentazione del passato che si ri-attua, qui ed ora, nella mente dell’uomo, il quale è presente in modo vivido alle scene sino ad “entrare” in esse. Tale modalità (che ha una matrice retorica e deriva dalla lezione pseudo ciceroniana) è propria della preghiera personale e collettiva, ossia della meditazione e della pratica eucologica. È stata studiata da Mary Carruthers (Machina memorialis. Meditazione, retorica e costruzione delle immagini (400-1200), Pisa 2006.) che, sulla base di un approfondito esame dei meccanismi mnemotecnici, ha spiegato le caratteristiche della ‘macchina memoriale’ e del suo funzionamento per loci/mansiones ed imagines agentes. È proprio la modalità memorativa che interviene a strutturare l’esegesi scritturale prima e la predicazione poi, dando origine a forme di esegesi drammatica e di drammatizzazione omiletica come pratiche della messa in scena interiore, suscitate quali esercizi di pietà ed efficaci strumenti per la conoscenza. La seconda modalità della scena cristiana è quella mimetica, che non rimanda però alla mimesi di tipo platonico prima ed aristotelico poi, le cui caratteristiche sono quelle proprie della poetica antica, bensì all’idea che lega incarnazione e creazione, laddove il Figlio rivela all’uomo il suo essere fatto ad imaginem del Padre. Imitare, allora, è praticare la sequela e diviene “fare come” Cristo, per cui l’uomo, agendo la carità, foggia se stesso secondo l’immagine del Padre incarnata nel Figlio. Tale modalità si attua in modo manifesto nella cultura medievale a partire dall’XI secolo, grazie alla teologia di Anselmo, per approfondirsi con la teologia dell’amore cistercense e compiersi nell’antropologia francescana. Lì si realizza quell’identificazione mimetica (della quale ha recentemente scritto Michel Camille, Mimetic Identification and Passion Devotion in the Later Middle Ages, in The Broken Body Passion Devotion in Late Medieval Culture, Groningen 1998, pp. 183-210) che è alla base del realismo antispettacolare della rappresentazione tardo medievale, fatta di azioni devote, laiche e corali, che costituiscono l’ampio capitolo del “teatro della misericordia”.

Potremmo concludere, dunque, che la chiave di volta impressa dal pensiero cristiano è il concetto di “guardare” come “partecipare”, con la consapevolezza di esser parte di una realtà unica nella quale si è responsabilmente attori. Ce que nous voyons, se qui nous regarde dice George Didi-Huberman riferendosi alla capacità di coinvolgimento emotivo dell’arte (Paris 1995). Ed allora se lo sguardo è azione, concreta ed efficace, il teatro è concepibile solo come esperienza. Reale e relazionale.

 













di Carla Bino

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