Liniziativa è importante: fornire al lettore italiano – con ottime traduzioni e un editing che, oltre a offrire i necessari aggiornamenti rispetto alla pubblicazione originaria, tenga conto delle specificità del melomane italico – la possibilità di accedere a una collana di culto come i Cambridge Opera Handbooks. Ribattezzata Dentrolopera dalleditore Rugginenti, tale collana non ha bisogno di presentazioni per i musicofili: si tratta di studi su opere liriche capaci di unire – obiettivo che la musicologia italiana si è posta di rado – concettosità e chiarezza espositiva, analisi rigorosa e intenti divulgativi; e in cui alla parte più strettamente tecnica si affiancano capitoli interdisciplinari che affrontano i rapporti e le ascendenze dellopera in oggetto con la letteratura, il cinema o, eventualmente, anche altre forme musicali estranee al melodramma.
Se gli Opera Handbooks sono diventati “di culto”, un cult per eccellenza – magari anche solo per prendere le distanze dal testo – è il volume che apre questa serie di traduzioni italiane: lo studio sulla Carmen di Bizet realizzato, ormai quasi ventanni or sono, dallamericana Susan McClary. Pioniera di una visione “femminista” dellinterpretazione musicale, convinta che le politiche sessuali dei differenti contesti culturali abbiano ricadute ben precise nella storia della musica (fu la sua conferenza Sexual Politics in Classical Music, 1987, ad aprire un dibattito che dopo di allora non si è potuto più ignorare), la McClary trovò in unopera come Carmen un terreno estremamente fertile per le proprie ricognizioni. Unendo alla tematica femminista una discussione più strettamente politica (la Carmen come opera “postcoloniale”, che scompagina le scale gerarchiche di etnie e classi sociali mettendo in crisi lidentità borghese) realizzò un testo oggi per certi aspetti datato, ma per altri ancora sorprendentemente attuale: tanto più che vis polemica e sovrastrutture ideologiche non sottraggono al testo quella lucidità talvolta latitante in altre analisi della musicologa americana; e valga per tutte la sua celebre – almeno tra gli addetti ai lavori – retrolettura del primo movimento della Nona di Beethoven, intesa dalla McClary come una fantasia di stupro.
Forse i momenti più interessanti del libro sono quelli apparentemente periferici: dallanalisi dei rapporti tra lopera di Bizet e la novella di Mérimée che ne è alla radice (qui però curatore del capitolo è Peter Robinson) alla disamina delle varie Carmen realizzate per il grande schermo (quella di Rosi, la Carmen Jones di Preminger...), che rivela nella McClary acute doti pure come critica cinematografica. Anche il versante più tradizionalmente musicologico offre ricchi spunti di riflessione – la partitura viene capillarmente anatomizzata – e semmai è proprio la polemica sessual-ideologica, che pure costituisce il cuore del volume, a risultare la parte meno godibile della lettura. Dispiace invece che unanalisi attenta a scandagliare così tanti aspetti mostri totale disattenzione per la storia interpretativa della Carmen: direttori e cantanti (sebbene la copertina ci mostri Célestine Galli-Marié, prima interprete di questopera) non trovano spazio nello studio della McClary; ed è sintomatico che il volume alleghi una “sitografia” dove cercare on line altre notizie, ma non abbia a corredo alcuna discografia.
Lappendice alledizione italiana mostra qualche lacuna: si sarebbe potuto dire che ladattamento di Peter Brook (Tragédie de Carmen, 1981), su cui lautrice insiste molto, ha avuto una traduzione per i nostri palcoscenici, e che la messinscena del regista Keith Warner alla Minnesota Opera – citata dalla McClary come spettacolo esemplare – è stata ripresa nel 1996 dal Regio di Torino. Infine, si nota un refuso tipografico nellesergo (“in mermoria”, anziché “in memoria”) che, per quanto veniale, è un cattivo biglietto da visita. Resta però – ed è lessenziale – la possibilità di usufruire anche nella nostra lingua di un testo che ha rappresentato una sorta di spartiacque, e che non a caso la curatrice Annamaria Cecconi definisce non un saggio, ma un “esercizio di stile”.
di Paolo Patrizi
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