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La regia teatrale. Specchio delle brame della modernità

A cura di Roberto Alonge

Bari, Pagina, 2007, 20 euro
ISBN 978-88-7470-045-5

Il volume curato da Roberto Alonge propone gli atti del convegno organizzato nel 2006 dal Dams di Torino sulla regia, un incontro dal respiro internazionale che aveva raccolto relatori di scuole metodologiche diverse offrendo un articolato panorama sulla problematica e confermando il rinnovato interesse della comunità scientifica verso questo ambito (si pensi anche alle recenti pubblicazioni di Mirella Schino, Franco Perrelli, Roberto Alonge). Il tema scottante sotteso a buona parte degli articoli e sottolineato nell’introduzione di Alonge è la questione delle origini della regia, tradizionalmente ritenuta “un’invenzione artistica” dei Meininger, mentre si fa strada l’ipotesi di una precedente embrionale costituzione in ambito parigino non per ragioni artistiche ideali,  ma in risposta alle esigenze della nascente industria dello spettacolo.

I primi due interventi contenuti nel volume partono dal versante tedesco. Alla ricerca delle origini della professione del regista, Giovanna Zanlonghi rilegge le Regeln für Schauspieler di Goethe, frutto della sua intensa stagione teatrale a Weimer dove, operando in qualità di direttore e organizzatore, aveva avuto modo di  fare esperienza diretta dalla lotta tra “mestiere” e “arte” ovvero del conflitto tra la prassi corrente e le aspirazioni ideali di chi avrebbe voluto ricondurre le diverse componenti dello spettacolo a una visione artistica unitaria. La riflessione di Cristina Grazioli prende invece avvio dalle pagine dell’opera di Hans Doerry sul sistema dei ruoli nel teatro tedesco, pubblicata a Berlino nel 1926 nella programmatica volontà di contribuire a fondare la Theaterwissenschaft come disciplina autonoma da filologia e letteratura. La nascita della figura registica viene messa in relazione con il consolidarsi della “scienza del teatro” e la situazione tedesca della prima metà dell’Ottocento è riletta alla luce delle acquisizioni della storiografia di inizio Novecento.

Spostando l’attenzione sull’ambito francese, Elena Randi ricostruisce le circostanze dell’allestimento alla Comédie-Française di Angelo, tyran de Padoue di Victor Hugo nel 1835 e gli aspetti salienti dello spettacolo. La funzione dell’autore si spinse in questa circostanza ben oltre i limiti della stesura del testo drammatico. Hugo diresse infatti la messinscena occupandosi di molti aspetti di primaria importanza quali la distribuzione delle parti (che lo vide operare in modo non conforme alle convenzioni correnti affidando le parti femminili principali a due premiers rôles), la scenografia, l’illuminazione, le prove degli attori.

Franco Perrelli si inserisce nella querelle Meininger vs Parigi a partire dalle ricerche condotte in ambito svedese. Lo studioso riporta alcune considerazioni di William Sauter secondo il quale la storiografia teatrale svedese, assumendo il punto di vista di Gösta M. Bergman, si sarebbe occupata esclusivamente della linea dei registi descrivendo programmaticamente i fenomeni del secondo Ottocento esclusi dalle temperie più innovative come episodi di decadenza. Perrelli, pur non negando la legittimità dei dubbi posti da Sauter, rifiuta di considerare il teatro svedese ottocentesco esclusivamente come l’epoca del grande attore e constata l’emergere di una nuova prassi scenica in direzione registica. In particolare si sofferma sull’attività di Ludvig Josephson (1832-1899), förste regissör delle règie scene di Stoccolma, che in un’autointervista pubblicata nel 1866 dopo aver ricordato la qualità degli spettacoli dei Meiningen, che aveva avuto modo di vedere in Germania prima della loro tournée a Stoccolma, e la loro influenza sul proprio operato, spostava l’attenzione su Parigi alla quale riconosceva il primato cronologico circa la pratica «dell’arte della messinscena».

Jean Chothia mette in relazione la nascita della regia con la necessità di gestire sul palco la presenza delle folle. In particolare si sofferma su alcuni allestimenti del Julius Caesar di Shakespeare (celebre quello dei Meininger), un’opera in cui la scena del Foro, per il ruolo di primo piano assegnato al popolo, richiede un’accurata orchestrazione degli elementi.

Claudio Longhi dedica un denso contributo alle prospettive filosofiche connesse alla nascita della regia. L’adozione di un punto di vista marxiano nella critica alla regia richiama l’attenzione sulle contingenze economico-industriali che hanno portato al suo sviluppo, ma anche le visioni del mondo sottese a questa pratica. Con Squarzina, Longhi rintraccia nelle pagine dell’Estetica di Hegel dedicate alla riflessione teatrologica «l’editio princeps di ogni poetica registica occidentale». In particolare vi ritrova il desiderio di riscatto dalla letteratura e l’idea di teatro come istanza totalizzante. Del fallimento di questa seconda aspirazione (di cui già Squarzina intravedeva la crisi) si è preso atto negli ultimi anni in cui il teatro non sembra più alla ricerca di Maestri in grado di uniformare ogni elemento dello spettacolo al proprio pensiero.

L’articolo di Paolo Gallarati è dedicato alla regia operistica, ambito in cui la libertà d’azione del regista sembra limitata dalla partitura, testo fisso invariabile. Un frequente errore dei registi è quello di proporre allestimenti del tutto “scollati” dall’andamento musicale, non recependo i gesti e i moti emotivi suggeriti dalla musica. Questa considerazione riguarda in particolare gli allestimenti di opere italiane in cui tempo della rappresentazione e tempo rappresentato non coincidono e la vicenda è sospesa continuamente dai numeri chiusi. Gallarati conclude il suo intervento suggerendo ai registi di fare una scelta netta: o si aderisce con fedeltà alla partitura, oppure, come già aveva fatto Peter Brook con Tragedie da Carmen, si cessa di guardare la partitura come testo immutabile e ci si appropria della facoltà di modificarlo per confezionare un testo “tratto da”, creazione autonoma dall’originale.

Alla base del contributo di Armando Petrini c’è la distinzione tra il regista tout court e l’attore- regista, per il quale l’attore non è uno dei tanti tasselli dello spettacolo, ma continua ad essere il fulcro della rappresentazione. L’attore-regista, come il regista, ha una visione unitaria dello spettacolo, ma la mette a servizio dell’arte attorica. Essendo al contempo fuori e dentro l’opera il regista-attore rifiuta il concetto di “replica” e vive invece il tempo del teatro, cioè il momento dell’incontro con il pubblico, come acme del proprio lavoro. In questa declinazione la concezione dello spettacolo come opera unitaria e autonoma non è estranea al teatro ottocentesco italiano. Petrini ripercorre l’attività artistica di Gustavo Modena rintracciando nel suo operato i segni di una via d’attore verso la regia.

Roberta Gandolfi si interroga circa lo sviluppo novecentesco della regia come fatto d’arte e rintraccia le radici di questo fenomeno nei piccoli teatri e nei teatri d’arte che si diffondono a macchia d’olio in Europa e America a cavallo tra Otto e Novecento. Si trattava di realtà diverse, ma accomunate dalla contrapposizione al business del teatro dalla scala ridotta delle loro pratiche. I primi piccoli teatri europei furono imprese collettive, a differenza delle compagnie rette da impresari o capocomici, determinate a salvaguardare l’arte e discapito del guadagno. Pur condividendo ricerche artistiche dalla portata internazionale stabilivano un legame elettivo con il proprio luogo d’azione, anche nel tentativo di dare stabilità e permanza al proprio operato. Le loro produzioni si muovevano su scala artigianale, ed è proprio in questo contesto che si formarono i primi registi, leader carismatici di una comunità più ampia che condivideva la stessa spinta etico-artistica.

Franco Ruffini propone una riflessione sul rapporto tra attore e regia oggi a partire da quanto proposto in merito da Stanislavskij nei suoi scritti teorici. Secondo Stanislavskij all’attore spetta il compito di dare vita al personaggio, mentre il regista che ha il dominio sulla parte, testo scritto relativo a un personaggio, deve incanalare nelle strettoie del dramma “la vita” ri-creata dall’attore. Nella mappa tracciata da Stanislavskji la relazione tra regista e attore si configura come una «pratica delle migrazioni»: l’attore è in transito verso il territorio del regista e viceversa. Nell’opinione di Ruffini, nel teatro attuale i confini tra i due territori sono alquanto sbilanciati, e quello del regista si è arricchito a totale svantaggio di quello dell’attore.

Mirella Schino, chiamata a rappresentare al convegno l’asse interpretativo che vede nella regia una peculiarità novecentesca, affronta il problema attraverso lo sguardo degli spettatori contemporanei. Una vasta costellazione di testimonianze attesta l’emergere nel primo Novecento di fenomeni teatrali dalla natura variegata raccolti sotto l’insegna della diversità: critici, intellettuali, spettatori e appassionati individuano un raggruppamento che per quanto disomogeneo è accomunato dal segno della discontinuità rispetto alla tradizione teatrale. L’interrogativo che la Schino si pone non è quindi quando sia nata la regia, ma cosa sia stata la nascita della regia teatrale, e cosa si intenda oggi con questo termine.

Gli ultimi tre articoli del volume, riconducono alla contemporaneità. Attraverso l’esposizione di alcuni rilevanti episodi della sua carriera, Bent Holm svela i retroscena del “mestiere” di Dramaturg, professione che richiede da una parte le competenze “filologiche” per coprendere il testo, dall’altra la progettualità in termini di messinscena che permette di traghettarlo dal passato al contesto contemporaneo. Svee Heed si chiede in che termini si possa parlare oggi di “interpretazione” in teatro, e rileva la grande varietà di strategie di interpretazione, compreso il rifiuto di “interpretare”, portando come esempi alcuni allestimenti delle opere di Henrik Ibsen in particolare Spettri nella versione di Bergman e Peer Gynt di Robert Wilson.

Concludono il volume gli interrogativi di Jorge Silva Melo, drammaturgo e regista che, dopo aver ripercorso il suo intinerario artistico offrendo uno spaccato sulle tensioni del teatro portoghese degli ultimi decenni, si chiede se il futuro non possa vedere l’emerge di nuove personalità di attori svincolati sia dagli eccessi “del grande attore”, sia dal potere del regista, capaci di superare la condizione di interpreti. 


Emanuela Agostini


copertina

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