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Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori

A cura di Paolo Bertetto

Roma, Minimum Fax, 2007, € 16.00
ISBN 978-88-7521-150-9
La Festa del Cinema di Roma prosegue la sua attività di interesse culturale verso lo studio dell’attore cinematografico proponendo una corposa raccolta di saggi, curata da Paolo Bertetto, che si propone di interpretare la centralità del lavoro dei registi con gli attori nella realizzazione del film. L’ambiziosa operazione ha chiamato a raccolta una serie di studiosi italiani e internazionali con l’obiettivo di delineare i diversi modelli di direzione degli attori sviluppati da alcuni grandi maestri del cinema (Antonioni, Fellini, Ford, Godard, Hitchcock, Kazan, Kubrick, Lang, Ophuls, Penn, Renoir, Sirk, Tarantino e Welles).

L’attore dunque di nuovo (e finalmente!) al centro della scena, come mai in questo periodo sotto i riflettori degli studiosi di storia del cinema: un campo di ricerca che comincia a muovere i suoi passi in ormai molte direzioni, sebbene gli strumenti metodologici siano ancora in fase di costruzione e di verifica. Crescono anche in Italia le pubblicazioni sul tema e a tal proposito il volume curato da Bertetto può essere un altro utile strumento da aggiungere al cantiere del lavoro sull’attore.

Sebbene il libro abbia l’inevitabile limite di non essere, data la sua composizione e nonostante i lodevoli sforzi, un prodotto unitario, offre alcuni interessanti spunti di riflessione, a cominciare proprio dal saggio in apertura di Bertetto, che compie una breve, ma esaustiva panoramica di carattere storico sui possibili diversi modi di direzione dell’attore, intesi come veicoli di creazione di senso e, più in generale, come inscrizione funzionale del profilmico nell’immagine filmica. Sono cinque, secondo lo studioso, i termini costanti che caratterizzano gli stili attoriali: "in relazione alla tradizione recitativa dello spettacolo, in rapporto al linguaggio filmico, alle tecniche di produzione del film e alle opzioni di regia, e infine nel quadro dei meccanismi di attesa del pubblico".

In base a questi termini si può dunque tentare per Bertetto una storicizzazione della recitazione nel film: ad esempio, dentro l’autorialità del cinema, tra muto e classico e oltre il classico, prima Ejzenstein e Pudovkin, poi Lang e Hitchcock definiscono un modello essenziale di messa in scena, che viene pensata come una rigorosa costruzione della forma artificiale, in cui l’attore diventa uno dei tanti elementi compositivi definiti a priori: "una maschera totalmente spossessata di ogni possibile soggettività e ridisegnata all’interno del lavoro del set", tanto che per Hitchcock l’attore ideale è quello che «non sa fare bene nulla» e quindi garantisce una medietà interpretativa equilibrata.

Sulla sponda opposta il maestro del realismo francese Jean Renoir, che lavora con gli attori alla costruzione dei personaggi, nell’ottica di una messinscena concepita come qualcosa di plasmabile, sempre aperta ad accogliere le eventualità del caso, e in questo Renoir sembra precedere Rossellini e il suo fondamentale metodo di direzione degli attori, la cui assenza dal libro è una grave pecca, insieme a quella degli altri due imprescindibili maestri del neorealismo, Visconti e De Sica. E’ infatti il neorealismo che supera il modello codificato di recitazione classica, insieme, ma su fronti opposti, all’Actors Studio, tanto che la direzione di Kazan rappresenta insieme "un lavoro di prospettiva e una sorta di pratica maieutica".

Le esperienze del cinema moderno europeo vanno dalla parte opposta rispetto all’esperienza americana dell’Actors Studio. Bergman affonda la sua ricerca nello psicologismo, privilegiando soluzioni retoriche come il primo piano; Bresson punta alla disincarnazione del personaggio dalla soggettività dell’attore, che diventa una mera entità schermica; la Nouvelle Vague, con i suoi attori- personaggi immediatamente riconoscibili come nuovi soggetti metropolitani, costruisce un modello di recitazione fortemente sbilanciato sul vissuto dell’atto interpretativo: l’idea di cinema, insomma, si sostanzia anche nella direzione dell’attore. E’ doveroso ammettere che però è proprio Godard a scoprire il vaso di Pandora: "i comportamenti, i gesti apparentemente più autentici che segnano la recitazione delle Nouvelle Vagues internazionali sono invero produzioni di maschere di tipo nuovo, più aderenti al vissuto metropolitano delle nuove generazioni, ma anche segnate da una nuova capacità di disegnare un gesto".

Per il cinema italiano vengono proposti solo Fellini e Antonioni; il primo, nel suo periodo più maturo (dopo La dolce vita, per intenderci) tende a sottrarre l’attore al mero sviluppo di una catena narrativa e a inscriverlo nell’orizzonte delle tipologie anomale, del grottesco, del visionario, del pittoresco, mentre il secondo costruisce l’attore come forme del visibile, una sorta di scultura dinamica all’interno di una precisa figurazione estetica.

Alla fine, restano sul tappeto delle domande precise, a cui forse il libro non può rispondere, e cui fa riferimento lo scritto introduttivo di Bertetto: che cos’è il lavoro dell’attore? E come si inscrive nella configurazione dell’immagine? E’ possibile – o consigliabile - adottare un criterio di metodo unitario nell’analisi della retorica dell’attore nel film? E’ poi così vero che "nel cinema non si da’ direzione d’attori se non in funzionamento nell’inserimento dell’inquadratura"? Il cantiere è aperto.

Marco Luceri


Coperina del libro

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