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Revue d’Histoire du Théâtre


a. LIX, 2007, n. 3 (235)
ISSN 1291-2530

L’ultimo numero della rivista della Société d’Histoire du Théâtre si apre con un saggio di Jean-Pierre Triffaux sulla funzione e sull’uso del coro nel teatro contemporaneo. Partendo da un laboratorio condotto dagli studenti dell’Università di Nizza sulla Lisistrata di Aristofane, Triffaux giunge alla conclusione che, pur essendo il concetto di coro inteso come gruppo omogeneo di danzatori, cantanti e attori ormai scomparso dalle scene, il teatro di ricerca non può tuttavia farne a meno come strumento organizzativo e produttivo.

Jean-Yves Guérin
si interroga sulla possibilità che il drame sia un genere teatrale ancora vivo dopo la Seconda Guerra Mondiale o se piuttosto si sia dissolto a favore di testi meno ibridi e sfumati. Analizzando i repertori delle compagnie francesi del Dopoguerra Guérin rileva che solo le opere di Victor Hugo e l’adattamento di Jean Vilar al Lorenzaccio di Alfred de Musset sono sopravvissuti come ultimi argini alla scomparsa del genere. Allo stesso tempo però autori come Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Jean Anouilh sono riusciti a dare nuova linfa al teatro grazie alla varietà formale e all’impegno civile dei loro testi, due caratteristiche che fanno parte del canone del drame.

Il saggio di Roger Klotz è dedicato alla cultura ebraica e in particolare all’importanza di un testo teatrale, La tragédie de la Reine Esther, all’interno della festività di Purim. Il dramma, scritto in Provenzale nel corso del XVIII secolo, appartiene al teatro popolare (ma si possono notare forti influenze di Molière e Racine) ed è stato ripreso nel corso del Novecento da Armand Lunel, che lo usato come fonte d’ispirazione per il libretto di Esther de Carpentras, musicato da Darius Milhaud.

Emmanuelle Hénin
dedica una lungo saggio alle reciproche influenze tra pittura e scenografia, analizzando il dibattito sviluppatosi tra artisti e teorici intorno all’illusione prospettica. Partendo dalle affermazioni contenute nell’Ars poetica di Orazio, Hénin rileva come le scene rinascimentali si rifacciano a modelli pittorici, pur essendo i loro costruttori coscienti delle problematiche teatrali della tridimensionalità e della moltiplicazione dei punti di vista. Anche quando il gioco della prospettiva viene meno a causa dell’eccessiva vicinanza degli spettatori, lo sguardo può comunque essere catturato dalla bellezza della pittura e, contraddicendo i precetti oraziani, fare a meno del realismo della performance.

Chiude la rivista uno studio di Normand Doiron su Les Visionnaires, commedia in versi di Jean Desmarets de Saint-Sorlin nel 1637. Il dramma, come altre opere dell’epoca scritte da Jean Rodrou, Pierre Corneille, Charles Beys e Raymond Poisson, rappresenta scenicamente la follia attraverso la descrizione degli Inferi. Doiron nota come lungo tutto il corso del XVII secolo l’elemento della follia e quello degli inferi vadano di pari passo al tema del teatro nel teatro. Se sul piano semantico la stravaganza delle visioni si esprime mediante il ricorso a equivoci e doppi sensi, la struttura metateatrale dei drammi trasferisce infatti nello spazio l’ambiguità linguistica e offre la possibilità di creare personaggi privi di identità marcate e di certezze incrollabili.

Lorenzo Colavecchia


Revue d’Histoire du Théâtre

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