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Rossella Mazzaglia

Trisha Brown


Palermo, L'Epos, 2007, pp. 268, € 28,30
ISBN 978-88-8302-329-3

Il nuovo volume della collana "Danza d'Autore", diretta da Eugenia Casini Ropa e Roberto Giambrone, è dedicato a una delle figure più rappresentative del panorama coreutico contemporaneo, Trisha Brown (1936), alla quale l'autrice Rossella Mazzaglia dedica una monografia esauriente e approfondita; un lavoro che ripercorre, a partire dagli anni della formazione, tutte le fasi creative della poetica e della pratica coreutica della Brown, attraverso l'eredità del vissuto personale e i contesti culturali ed estetici che nel tempo si sono incontrati, o scontrati, con la ricerca artistica della danzatrice americana. Nel lungo processo di invenzione e re-invenzione della sua arte - "cambiamento" è la parola chiave del suo lavoro - Trisha Brown è passata attraverso esperienze multiformi e avanguardistiche, cercando di indagare tutti gli ambiti in cui la danza si potesse confrontare e intersecare, dalla pratica danzante vera e propria, al teatro e alle arti figurative, fino alle azioni eclatanti su muri o pareti di edifici urbani, sempre alla ricerca di spazi extra-teatrali che negli ultimi anni l'ha ricondotta paradossalmente, ma non a caso, alla coreografia di balletti per il repertorio operistico del teatro all'italiana.

Dopo le prime esperienze formative presso i seminari estivi dell'American Dance Festival, al Connecticut College, durante i quali la giovane Brown si avvicina al lavoro di Louis Hort, di José Limon e soprattutto di Merce Cunningham, e i successivi studi a Berkeley, anni in cui approfondisce la tecnica Dunham con Ruth Beckford, Trisha si trasferisce finalmente a New York nei primi anni Sessanta: una tappa a lungo desiderata che la metterà in contatto con il clima avanguardistico dei quartieri di Manhattan, del Greenwich e dell'East Village,  in particolare con le danze sociali afro-americane alle quali si riconoscerà sempre debitrice e che concorreranno alla definizione del suo credo estetico, volto ad accettare ogni possibile azione umana come danza. Fondamentale sarà l'incontro con Anna Halprin, danzatrice e coreografa che promuove la reintroduzione e la diffusione dell'improvvisazione non solo a livello formativo ma anche come pratica scenica, nella cui scuola Trisha Brown ha la possibilità di conoscere alcuni dei più brillanti esponenti della sperimentazione coreutica del momento, fra cui Simone Forti e Yvonne Reiner, con le quali collaborerà a lungo e condividerà la comune battaglia estetica contro la narrazione, la spettacolarità e la teatralità della danza a favore di una pratica spoglia ed essenziale.

Il volume ricostruisce  dettagliatamente il percorso artistico e la produzione della grande coreografa americana, dalle esperienze di più ardita sperimentazione contro l'edificio teatrale a favore dei multiformi luoghi della spazialità quotidiana e urbana - quella degli Equipment pieces (dal 1968 al 1973), fra cui il leggendario Man Walking Down the Side of a Building del 1970 - allo studio sulle potenzialità scientifiche della danza, considerata riconducibile a precisi cicli matematici ripetitivi e amplificabili, che trova la sua espressione artistica negli Accumulation pieces, cui si dedica a riprese per tutti gli anni Settanta. Un percorso sperimentale e ardito che condurrà la Brown verso un ripensamento e una re-interpretazione delle forme classiche da lei strenuamante rinnegate, tanto da approdare sulle scene teatrali nel 1979 con Glacial Decoy, la sua prima coreografia pensata appositamente per il teatro, che si avvale di scene e costumi veri e propri e che le aprirà le porte all'apprezzamento del grande pubblico.

Dalla fine degli anni '80 Trisha Brown, in una sorta di percorso inverso, comincia a confrontarsi con la musica classica, nel dialogo con compositori come Monteverdi, Bach e Webern, impostato secondo criteri di assoluta libertà creatività e di non-dipendenza, tanto che nel 1987 approda, sotto la regia di Lina Wertmüller, alla coreografia teatrale per le danze della Carmen di Bizet. Un'esperienza incisiva che porterà la coreografa americana a sviluppare un profondo interesse, tuttora perseguito, per il mondo dell'opera, una passione 'riscoperta' dopo anni di allontanamento volontario e culminata il 13 maggio del 1998 con la regia per L'Orfeo di Monteverdi al Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles.



Caterina Pagnini


copertina

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