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Elena Adriani

Medea. Fortuna e metamorfosi di un archetipo


Padova, Esedra, 2006, pp. 265, 20,00 euro
ISBN 88-6058-012-9

Sorte fausta renda merito - intendiamo anzitutto proclamare a gran voce - a chi, come l'autrice del libro in questione, Elena Adriani, non solo un bel giorno ha deciso di avventurarsi, facendo mostra di un mirabile sprezzo del pericolo, nel cosiddetto «Pianeta Medea», irto d'insidie quant'altri mai, ma anche di concedersi la libertà di connettere fra loro, in virtù di una analisi che, a sua immensa lode, non perde mai di vista la sintesi, le diverse Medee cui hanno dato vita drammaturghi, scrittori e attrici che, onorandolo con la propria presenza, hanno fatto parte dell'umano consesso lungo un arco di tempo che va dal V sec. a.C. al XX sec. d. C.

Anche se desta qualche perplessità il fatto che l'autrice, senza citare neppure il nome del tragediografo Neofrone come probabile inventore di una Medea assassina dei propri figli, sostenga con una certa disinvoltura che «l'omicidio consapevole e premeditato per mano della madre non sembra attestato prima di Euripide», il volume pare essersi non solo abbondantemente nutrito ma aver anche metabolizzato tutto lo scibile esistito ed esistente relativo alla propria materia.

Dopo aver raccontato, descritto e analizzato nei minimi dettagli la Medea euripidea, la Adriani, nel paragrafo Pregiudizi e stereotipi, spiega come, secondo i critici tradizionali e tradizionalisti di cui lei intende smontare le principali convinzioni, il movente che avrebbe indotto la regina colca a distruggere la famiglia reale di Corinto e ad annientare la sua stessa prole sarebbe stata una «frustrazione sentimentale ed erotica» esplosa in una forma di «gelosia distruttiva». Inchiodati al vetusto pregiudizio in base al quale una donna senza sesso è come una ciliegina senza torta, anche Giasone e Creonte pensano, a loro volta, che l'astio dimostrato da Medea nei loro confronti sia dovuto esclusivamente al fatto di «essere stata privata del letto» del suo uomo.

Ed ecco allora che l'autrice, suonata a pieni polmoni la carica, nel capitolo Medea, l'eroe: Euripide, Corneille, Dolce, dimostra come l'intera vicenda esposta dal drammaturgo ateniese, anche alla luce di una frase pronunciata dalla protagonista dinanzi al coro («Nessuno deve considerarmi un'incapace o una debole o una persona mite. Altro è il mio carattere: violenta con i nemici e con gli amici buona. Quelli che si comportano così, hanno la vita più gloriosa»), vada riconsiderata «attraverso la griglia della categoria dell'eroico». Riconsiderata attraverso tale griglia, la vicenda di Giasone e Medea è quella di due individui dotati del medesimo prestigio che, concordato un patto, diventano soci e si ritrovano legati da reciproci diritti e doveri. Venendo meno al patto, l'uomo non solo tradisce la moglie ma anche, e soprattutto, le manca di rispetto e offende il suo onore: «Giasone - scrive la Adriani - non si macchia semplicemente di adulterio, colpa inaccettabile solo agli occhi di una donna, ma di tradimento di un patto sacro». A scandire la tragedia, incubo che nelle battute della protagonista affiora con una frequenza sempre crescente fino a divenire ricorrente e ossessivo, è il timore di essere derisa dai suoi nemici, ovvero l'orrore, in cui fra l'altro si incarna «la quintessenza del carattere eroico», nei confronti del ghélos

Come la Medea euripidea, anche quella delineata da Corneille nella sua tragedia scritta nel 1634, a dispetto di quanti - la solita corrente tradizionale - hanno sempre insistito sulla sua filiazione dal prototipo senecano, si vendica dei nemici e sopprime la prole non in preda alle smanie di una gelosia erotica incontrollabile, ma in nome di un codice etico e comportamentale superiore. Maga esperta e abile incantatrice solo a una prima e approssimativa lettura, la Medea di Corneille, in effetti, abiura quella fede nei sortilegi e nelle stregonerie che l'ha resa famosa tra tutti i popoli e si tramuta nel tipico protagonista cornelliano, apostolo del classicismo contro il barocco e  dell'ordine contro il disordine, integerrimo nel carattere e inflessibile nella volontà, coraggioso, sprezzante della sorte e fieramente solitario.

Alla tragedia di Seneca, e alle sue sorprendenti derivazioni, è invece dedicata la seconda metà del saggio: dalla Medea euripidea non più innamorata del marito, l'autrice passa a occuparsi di quella che, non ancora immune dalla violenta passione che, giovinetta, la indusse ad abbandonare la casa per fuggire con Giasone, continua ad amarlo moltissimo. Pieno di attenzioni nel diagnosticare i turbamenti della ragazzina colca di fronte a un sentimento prepotente da cui si sente travolgere, Apollonio Rodio, nelle sue Argonautiche, si immagina il passato della futura eroina tragica. Una Medea che, in un secondo momento, presa al balzo da Ovidio, ricompare, già tradita ma ancora innamorata, nelle Eroidi e che, nelle Metamorfosi, viene seguita, ora fanciulla infiammata di passione e ora maga svuotata di qualsiasi sentimento nei riguardi di Giasone, nel corso della sua intera fenomenologia caratteriale.
 

Nel periodo nero degli ultimi anni della dittatura di Nerone, Seneca, data un'occhiata alla Medea rodiana e a quella ovidiana, concilia i due «scomposti frammenti del carattere in un unico, coerente personaggio di donna innamorata e maga» e rende protagonista questa sua creatura di una sorta di dramma didattico: «furibonda ma inerme», esasperata dall'ira, sempre nell'atto di «autoincitarsi a imprese ardite e sanguinarie, evocando il fantasma» dell'altra se stessa descritta da Euripide, ovvero «di un'eroina mitica e vittoriosa di cui l'io parlante si presenta soltanto come una pallida controfigura», sconvolta da quelle passioni di cui Seneca desidera mostrare il carattere pernicioso, questa Medea, che si disinteressa bellamente di essere derisa dai nemici o disprezzata da parte della società, «immola i figli sull'altare della sua collera smisurata e accecante». Ad uscire vittoriosa dalla tragedia è solo quell'ira, estremo effetto di una emozione amorosa vista come un fattore assolutamente destabilizzante, che è il principale bersaglio polemico del filosofo. 

Sulle tracce di Seneca, si pongono quindi sia il giovane drammaturgo austriaco Franz Grillparzer, che, nel primo Ottocento, scrive una intera trilogia volta a ripercorrere tutto il mito di Medea, dalla Colchide alla fuga da Corinto dopo l'infanticidio, e, nel secondo dopoguerra, il francese Jean Anouilh. Anche se al centro della sua trilogia è l'antinomia fra grecità e barbarie, i passi più congeniali alla sensibilità di Grillparzer sono, nel secondo dramma, quelli che mostrano lo smarrimento della giovane Medea nel momento in cui, dalla vita contemplativa condotta fino ad allora nei boschi, si trova coinvolta, quasi contro la sua stessa volontà, ma mossa da un imperativo inevitabile, nel drammatico meccanismo della vita attiva e, nel terzo, quelli in cui la protagonista, ormai matura e tradita, rivede se stessa, come era qualche anno prima, nella virginale Creusa.

Col suo serrato atto unico, anch'esso più che mai ispirato all'opera latina, Anouilh, invece, che sembra prendere le posizioni di Giasone, intende ritrarre Medea come una «grottesca iperbole» della protagonista senecana, destinata a suicidarsi e a essere frettolosamente dimenticata da tutti. L'estremo addio di Giasone a Medea non sarebbe dunque altro che l'addio del drammaturgo alla sue eroine, ovvero «a quelle anime in perpetua rivolta, irretite dal fascino della morte, che hanno fino ad allora rappresentato i suoi personaggi preferiti».  
  

A chiudere il libro, dulcis in fundo, è un capitolo dedicato a due grandi attrici italiane dell'Ottocento, Adelaide Ristori e Laura Bon che, disinteressandosi discretamente delle mediocri Medee messe a loro completa disposizione da Ernest Legouvé e Giambattista Niccolini, hanno incarnato - esempi più o meno illustri di una vera e propria «drammaturgia d'attore» che si accompagna e non raramente si sovrappone alla «drammaturgia d'autore» - il personaggio della madre infanticida. Personaggio che, al contrario del dramma in cui è inserito,  paradossalmente liquidabile come «variabile indifferente», rappresenta l'interesse esclusivo della loro rielaborazione artistica.

Ci venga quindi rimesso, in conclusione, il vezzo di segnalare una piccola imprecisione a pagina 242, eccezione utile a confermare la regola di un libro che - cornucopia dei saperi su Medea e ammirevole nell'accezione più vasta del termine per rigore, solidità e metodo - non ha bisogno di rettifiche: nella tragedia di Legouvé i due figli di Medea sono gemelli ed è quindi improprio definire Melanto «il minore» e Licaone «il maggiore». Vezzi a parte, all'autrice, anche solo per il fatto di essersi imbarcata in una impresa, brillantemente portata a termine, tanto perigliosa e imponente, non possono andare altro che ringraziamenti ed elogi.    




Giulia Tellini


copertina

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