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Matteo Galli

Edgar Reitz


Milano, Il Castoro Cinema, 2006, € 15,50
E’ davvero una pregevolissima monografia quella scritta da Matteo Galli su Edgar Reitz. Il libro, che è uscito nel 2006 nella celebre collana de "Il Castoro" dedicata ai registi che hanno fatto la storia del cinema, colma una lacuna che da troppo tempo ormai affliggeva gli studi di cinema in Italia, e cioè non solo l’assenza di una dettagliata monografia su uno dei registi tedeschi più importanti e versatili del secondo Novecento, ma anche la mancanza di una panoramica sistematica sui movimenti della neoavanguardia nati in Germania dopo la fine della seconda guerra mondiale e protrattisi fino agli anni Settanta.

Il volume riesce a cogliere in maniera completa ed avvincente ambedue gli aspetti, seguendo il percorso artistico di Reitz all’interno di un quadro di forte fermento culturale, in cui convogliano e si compenetrano diverse discipline, dalla letteratura al cinema, dal teatro alle arti visive, fino alla televisione. La figura del regista tedesco viene così ad essere ricostruita attraverso una pluralità di sguardi che ci restituisce in maniera completa anche il Reitz meno conosciuto, ma altrettanto importante, quello cioè antecedente alla titanica realizzazione del ciclo di Heimat. Tra i ventisei firmatari dell’importantissimo Manifesto di Hoberhausen (1962), Reitz, classe 1932, è stato infatti l’autore di importanti documentari avanguardistici, riuscendo anche a vincere nel 1967 il premio opera prima alla Mostra di Venezia per Pasti.

Un cineasta complesso dunque, e Galli ci tiene nel libro a precisare la volontà di approfondire, di far uscire fuori la figura di Reitz dalla campana di vetro costruita da chi ormai lo identifica solamente con Heimat. E’ una posizione metodologica e analitica, quella dell’autore, culturalmente molto importante, perché è probabilmente attraverso la rielaborazione di un percorso artistico-biografico-storico che Reitz arriva a concepire il grande affresco storico del ciclo di Heimat, il film più lungo della storia del cinema, una trilogia composta di trenta episodi che racconta con il respiro epico delle grandi narrazioni romanzesche la tormentata storia della Germania nel Secolo Breve e le vicende di un’intera generazione di artisti colti e appassionati.

Reitz nel solco di Goethe (la trilogia di Meister), dei Meininger, di Wagner, di Mann e di tutto quel filone artistico-letterario che ha segnato la cultura tedesca dalla fine del Settecento a oggi, ma anche un Reitz profondamente figlio del Novecento, dei suoi tumultuosi e repentini cambiamenti, delle sue avanguardie, delle sue tragedie e delle sue rivincite.

Il volume è diviso in due grandi blocchi, grosso modo coincidenti (come precisa Galli nell’introduzione) – sul piano quantitativo, densi di fili che si intrecciano, di rimandi interni, volti a rimarcare i fitti e intricati legami intertestuali presenti nell’opera di Reitz: il primo grande blocco che comprende tutte le opere che vanno dal primo cortometraggio del 1958 fino a Il sarto di Ulm (1978), l’ultimo film girato da Reitz prima di Heimat, e un secondo blocco, comprendente l’intera trilogia di Heimat, analizzata soprattutto per la seconda e per la terza parte, con necessarie abbreviazioni, sintesi ed ellissi.

Il percorso che si snoda dalla terra natale di Morbach a Schwabing (cha saranno sublimati in Schabbach e nello Hunsrück di Heimat), alla formazione di Monaco (come il personaggio di Hermann in Heimat 2) con la riconnessione al Trümmerfilm negli anni Cinquanta, che porterà poi alla Neoavanguardia, alla nascita cioè, con la presentazione nel 1962 del Manifesto di Oberhausen, del nuovo cinema tedesco. Prosegue poi con la costruzione di un itinerario artistico originale che va dal successo di Pasti alle importanti prove di Cardillac, de Il sarto di Ulm, e del Viaggio a Vienna (forse il vero antecedente di Heimat), prima di arrivare al grande affresco epocale di Heimat, su cui Galli fa una puntualissima analisi, episodio per episodio, sulla genesi, la drammaturgia, l’uso del colore e del b/n, le genealogie e le lingue, nonché sugli aspetti complessivi dell’opera, attinenti alle caratteristiche strutturali e formali dell’intera serie.

Una monografia preziosa dunque, se non altro anche per la bellissima e commovente intervista rilasciata dallo stesso Reitz all’autore a Firenze il 14 luglio del 2006. E’ un colloquio che spazia su tutto: il cinema, naturalmente (la regia, la direzione degli attori, la scrittura, ecc.) ma anche la storia, la letteratura, la Germania di oggi, la religione, gli affetti familiari e l’inesorabile bilancio di un lungo cammino artistico ed umano, riassumibile forse nel senso della ricerca inesauribile di nuova Heimat: "In Heimat viene presentata l’immagine di un paradiso perduto: la vita in campagna, i rapporti umani all’interno della famiglia così stabili e sicuri, il ruolo della nonna come il centro della vita di paese, il mondo dei bambini e il senso di protezione in un questo universo matriarcale e le tradizioni che esentano le persone dal prendere tante importanti decisioni. Il mondo che viene descritto in Heimat è per molte persone una specie di età dell’oro. Molti personaggi descritti nella famiglia Simon sono archetipi, numerosi eventi ricordano storie che ognuno ha vissuto o riportano alla memoria un passato perduto per sempre. Girando queste storie ci siamo enormemente sforzati di produrre immagini in bianco e nero, la cui bellezza costituisse un risarcimento per la perdita che noi tutti abbiamo subito […]. Penso che Heimat abbia suscitato in molte persone una certa nostalgia. Grazie al film è stato possibile rivivere qualcosa che ci era parso perduto per sempre" (p. 12).

Marco Luceri


Copertina del libro

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