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Cineforum
Rivista mensile di cultura cinematografica

anno 46, n. 7, agosto-settembre 2006, euro 7,20
Il cinema è vivo però è vecchio, il numero 457 di Cineforum si apre con questo acuto articolo sulla sclerotizzazione delle forme di gran parte della produzione cinematografica contemporanea. Giacomo Manzoli dichiara senza mezzi termini la bruttezza di The Sentinel (Clark Johnson, 2006), ennesimo intrigo internazionale all’ombra della Casa Bianca. Secondo Manzoli neanche la presenza di grandi nomi come quello di Michael Douglas e Kim Basinger riescono a salvare il film. La partecipazione di Eva Longoria, che da casalinga disperata del piccolo schermo è passata alle luci del grande (e disperato in questo caso) schermo, dà lo spunto all’autore della recensione per approfondire un’azzeccata analisi su come il cinema, a volte (sempre più spesso), mostri tutta la propria senescenza quando cerca di (cito) "confrontarsi con il suo parente più prossimo e più giovane". Insomma, la massima aspirazione di The Sentinel è quella di svecchiarsi acquisendo situazioni e volti televisivi, da Eva Longoria in poi. Il problema è che quelle situazioni e quei volti nella bluastra luce domestica di un televisore risplendono di originalità e brillano per la vivacità dei dialoghi e della recitazione, sullo schermo molto più biancastro di un cinema diventano delle pallide imitazioni di un modello che non vuole essere tale. Eloquente Manzoli: "The Sentinel è come certi paesi della Florida, come Palm Spring o Palm Desert, luoghi dal clima surreale, isolati, asettici, progettati per un trascorrere del tempo che non produca sussulti".

Un vero sussulto lo procura invece, a parere di Matteo Bitanti, Silent Hill, film di Cristophe Gans ispirato all’omonimo videogame della fine degli anni Novanta. Silent Hill riesce a sfruttare a suo vantaggio i collegamenti intertestuali che lo spettatore ha la possibilità di attivare, circostanza che non sempre si verifica nelle pellicole che nascono sulla scia del successo di un videogioco. Nel game come nel film ciò che conta non è l’obiettivo, ma il viaggio, il percorso da compiere. È grazie a questo che la città può diventare personaggio ed assumere il fascino e la bellezza di un luogo da incubo, un incubo che diverte. Scrive Bitanti: "la città di Silent Hill è dunque una metafora della friuzione ludica: interagendo con ambienti immaginari, l’identità e l’esistenza stessa del giocatore vengono distribuite in più dimensioni – quella reale, quella virtuale e quella interstiziale che lega le prime due". Bitanti sottolinea come i percorsi intertestuali sono realizzabili grazie al rispetto delle norme linguistiche da videogame, il regista tiene infatti a costruire un racconto in terza persona, le soggettive sono pochissime, il codice sorgente viene mantenuto fino in fondo.

Se le sezioni Schede e Filmese rispettano la forma classica in cui la rivista le ha presentate fino a questo momento, una novità può sorprendere e deliziare i lettori più (o meno) appassionati: dal numero 457 nasce Cineforumbook, un ricco approfondimento su film che hanno fatto la storia del cinema.

A inaugurare la nuova sezione Sfida Infernale di John Ford (1946), che la Fox ha fatto uscire in un doppio dvd con due versioni, una più lunga del regista e un’altra epurata voluta dal produttore Zanuck. Bruno Fornara con What kind of person am I? apre la serie dei sette intensi saggi collocando storicamente My Darling Clementine e precisando alcuni fatti realmente accaduti che sono stati trasfigurati e rielaborati dal cinema. L’autore si domanda poi se sia fondata l’idea di Bazin: la sur-westernizzazione del genere è iniziata con questo film? Dall’analisi che ne fa Fornara parrebbe di no (cito): "Ford parte da quanto di più tradizionale c’è nel western. Wilderness contro civilization. Comunità debole ed eroe salvatore. Poi comincia a storcere questo schema". L’energia che sconvolge il sistema si trova nelle tensioni messe in atto dalla figura del doppio. L’oscillazione tra personaggi che sembrano l’uno l’opposto dell’altro diventa ancora più inquietante e capace di far uscire la storia fuori dagli schemi quando tocca territori oscuri e aspetti caratteriali contraddittori di un solo personaggio. Anche Wyatt, che un tempo forse sarebbe stato un eroe granitico privo di dubbi e incertezze, non è sicuro che il sacrificio dei fratelli sancisca l’instaurarsi della civilization a Tombstone. Lui va via, non sa se tornerà, non sa neanche se conosce bene se stesso.

Sullo stesso tono si mantiene Francesco Cattaneo. In Wyatt, Doc e i paradossi del western analizzando il dualismo Clanton/Earp sottolinea come l’esistenza monolitica della banda di delinquenti (i Clanton) sia contrapponibile sì alla famiglia degli Earp, ma non in maniera perfettamente simmetrica. Il gruppo di Wyatt rappresenta un modo di aggregazione democratico che non si basa sul terrore o l’imposizione. Questa imperfezione sulla simmetria immette nella struttura duale del film un inizio di rottura che poi esploderà nello sfrangiamento effettivo della figura di Doc Holliday. Doc è un vero paradosso, personaggio modernissimo, diviso e tormentato, problematico e negativo. Significativa una frase di Cattaneo: "Per Doc Holliday non si tratta di trasferire la civiltà dell’Est all’Ovest (magari esercitando la sua professione di medico); si tratta invece di voltare le spalle all’Est per gettarsi nella sregolatezza dell’Ovest".

Nei seguenti cinque interventi Adriano Piccardi, Fabrizio Tassi, Francesco Cattaneo, Angelo Signorelli e Bruno Fornara si divertono ad analizzare i diversi giorni in cui è diviso il racconto della storia di Wyatt Earp, dai primi sedici minuti in cui nascono le linee portanti della vicenda allo scontro finale, decisivo e indimenticabile.

Riflettori accesi sul cinema argentino contemporaneo e su quello giapponese di ultima generazione.

Za 05. lo viejo y lo nuevo di Fernando Birri per tracciare il panorama attuale della produzione argentina. Masoni sintezizza gli ultimi anni in una frase: "I giovani autori argentini, noti e apprezzati anche per la loro vivacità di produttori indipendenti, parrebbero infatti dibattersi fra spinte contraddittorie: da una parte il bisogno di rafforzare il credito guadagnato con la prima ondata (Trapero, Martel, Alonso, Burman, nati artisticamente dopo la dittatura e " virtuosi dell’oblio", in certo qual modo), dall’altra quello di cercare fra le macerie di un disastro – la dittatura militare, appunto – che ha seminato nel paese orrori e ingiustizie mai sanate". Ciò che accomuna gli autori emergenti è l’esigenza di ritrovare e rimettere insieme i pezzi di una memoria caduta nell’oblio. Anche se questa è la memoria della dittatura perché, continua Masoni, "la colpa agisce anche sugli innocenti come un torbido miasma, e la coscienza può riabilitare se stessa solo attraverso una fatica errabonda".

Per Dario Tomasi il Far East Festival conferma, nelle preferenze accordate dall’Audience Award, il fermento che attraversa il cinema giapponese degli ultimi anni. Tre dei film premiati al Far East sono di origine nipponica. Always, Nana e Linda, Linda, Linda. Ad avvicinarli l’ispirazione ai fumetti manga e i temi dell’amicizia fra giovani e della formazione di una band. La carrellata continua con i nomi di Mitani Koki o di Ichikawa Jun, nome emerso negli anni Ottanta. Negli anni Novanta un’intera generazione di registi riesce a dare una grande visibilità al cinema nipponico. Tra le personalità emerse in quel decennio Shiota Akihiko ha mostrato con Kanaria (2005) che la propria vena creativa non si è affatto esaurita, così come per altri registi che hanno avuto successo nell’ultimo scorcio del secolo scorso.

Giorgio Cremonini chiude con un Tivutargets tutto dedicato alle volgarità e/o assurdità della nostra sempre più incomprensibile, e nel senso peggiore, televisione.





Lucia Di Girolamo


Cineforum 457

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