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Tiziana Battaglia

Il cinema di Peter Weir


Milano, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 2002, pp. 160, euro 12,00
ISBN 88-7916-190-3
Se negli ultimi anni il cinema australiano ha raggiunto la notorietà e il prestigio che oggi gli vengono universalmente riconosciuti, il merito non è soltanto di star internazionali quali Nicole Kidman e Russel Crowe, o di autori come Bruce Beresford o (nell'ultimo lustro) Baz Luhrmann. Il merito va ascritto anche (e forse soprattutto) al regista australiano probabilmente più celebre all'estero: Peter Weir. The Truman Show, pur snobbato dall'Academy, è diventato un caso cinematografico mondiale, contribuendo da un lato a rafforzare il ruolo di Weir nell'establishment hollywoodiano, dall'altro a marcare una distanza piuttosto netta con l'industria del cinema americano, che gli ha permesso di rivendicare anche le sue origini australiane.

Il cinema di Peter Weir di Tiziana Battaglia, in quest'ottica, vuole analizzare l'intera filmografia del regista, a partire anche dalle sue origini e dal rapporto che Weir ha sempre mantenuto con l'Australia, pur ritagliandosi un ruolo di primo piano negli Stati Uniti. Diviso in tre parti distinte, il saggio ha come obiettivo quello di fornire un approfondimento sull'opera di Weir non già film per film ma, dopo una prima parte dedicata al cinema australiano dalle origini ai giorni nostri, filtrandola attraverso un'analisi dei percorsi tematici e degli aspetti tecnici che la caratterizzano. Ciò allo scopo di dimostrare che Weir, nonostante il passaggio dal cinema australiano a quello americano, si è mantenuto sostanzialmente sempre fedele ai temi a lui cari. Sono numerosi i confronti possibili tra film e film, e anche tra periodo e periodo della carriera di Weir. Il volume ne esamina lucidamente le caratteristiche peculiari, soffermandosi sugli aspetti a prima vista meno evidenti, ma in grado di gettare una luce nuova, e di fornire originali e molteplici chiavi di lettura, sulla filmografia di Peter Weir.

Da The Cars that Ate Paris a The Truman Show, il cinema di Weir sviluppa tematiche via via differenti, ma riconducibili, secondo l'autrice, a percorsi molto chiari e facilmente rintracciabili in ogni opera; legati, soprattutto, ad assunti "universali" (il viaggio, la donna, l'acqua, il tempo, la natura), tali da indurci ad attribuire al regista la capacità non comune di parlare, pur con storie spesso diverse tra loro e incentrate su situazioni particolari, un linguaggio più profondo, sotterraneo, che oltrepassa i codici narrativi e linguistici consueti e sfiora l'ineffabilità del "segno" visivo.

Nello stesso tempo, Peter Weir manifesta la capacità (anche in questo caso non comune) di saper codificare uno stile, che l'autrice rintraccia nell'utilizzo significativo del primo piano come strumento in grado di produrre nel corpus filmico le cosiddette "ferite visive": momenti che spezzano l'unità temporale del film e permettono di introdurre uno stacco netto, potente e in qualche caso fortemente evocativo, che conduce le storie verso altre, meno plausibili, direzioni.

Storie, peraltro, il cui denominatore comune sembra essere quello di possedere una cifra semantica che si palesa fin dal principio. E all'analisi degli inizi (anzi all'"estetica degli inizi") è dedicata l'ultima parte del saggio, in un tentativo di codificare l'impronta registica di Weir fin dai titoli di testa, come a sottolineare il marchio inevitabilmente "personale" di ogni opera del regista australiano.

Se può essere meno esauriente di un'analisi globale della filmografia weiriana, questo lavoro ha però il merito di cercare nuove linee critiche nel lavoro mai pienamente compreso di un regista che si pone idealmente in mezzo a universi e civiltà diverse: America, Australia ed Europa, terra dei suoi antenati. Un tentativo di analisi obliqua e laterale che, proprio in virtù della sua dichiarata marginalità, è in grado di illuminare aspetti che la visione frontale, più salda ed equilibrata ma necessariamente meno innovativa, spesso preclude.

di Fabio Tasso


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