Dal Cunto all’Opera dei pupi. Il teatro di Cuticchio

A cura di Valentina Venturini

Roma, Audino, 2003, pp. 144, euro 14,00
ISBN 88-86350-81-3

Data di pubblicazione su web 21/02/2004

Copertina del volume
Il volume raccoglie alcuni interventi già pubblicati su riviste (Speciale Cuticchio in "Teatro e storia" n.23, 2001, e Dal Cunto al teatro in "Dioniso", n.s., n.1, 2002), affiancati a numeroso altro materiale sul puparo-cuntista siciliano e sulla (o meglio sulle) tradizioni spettacolari a cui appartiene.

Dopo un periodo abbastanza lungo di sostanziale disinteresse, i pupi siciliani sembrano essere tornati a godere il favore degli studiosi di teatro, come dimostrano altre recenti pubblicazioni. L'argomento, nonostante gli sforzi di numerosi e seri studiosi, ha sofferto infatti a lungo a causa delle due opposte visuali "acritiche" che viziavano buona parte della letteratura più facilmente reperibile sull'argomento: da un lato lo stereotipato e bamboleggiante folklorismo nostalgico dei "ricordi d'infanzia"; dall'altro il disordinato velletairismo pseudoantropo-psicologico di un certo tipo di saggistica "di movimento" che concionava di festa, rimosso, imporovvisazione creativa ecc. senza prendersi troppo la briga di studiare il contesto concreto dell'oggetto dei suoi furori dialettici.

In realtà, come emerge bene da questi nuovi e documentati saggi sugli spettacoli siciliani, sia l'Opera dei Pupi che il Cunto sono nate come espressioni teatrali "alte", anche se fruite prevalentemente dai ceti popolari, che si rivolgevano più al pubblico dei maschi adulti che a platee infantili e familiari. Non una "espressione spontanea" del popolo ma un mestiere che presupponeva, per sopravvivere, l'esistenza di un pubblico pagante di appassionati che è venuto a mancare fra gli anni Cinquanta e Sessanta (cfr. p.40 "tutti i ragazzi se ne andavano al cinema e i vecchi venivano al teatro dei pupi"), costringendo i pupari a abbandonare il mestiere o a riqualificarsi per il pubblico meno competente, ma più ricco, dei turisti. Come il padre di Cuticchio, Giacomo, che nel 1967 cessa i giri della sua compagnia per le sale della campagna siciliana e si stabilisce a Cefalù in un teatrino convenzionato con il Club Mediterranée. Una scelta dettata da pure ragioni di convenienza economica ("allora si pagava, mi pare, trecento lire, ma per i turisti quelli dell'albergo davano mille lire", p.39) che determina un radicale cambiamento di repertorio, con l'adozione di uno spettacolo unico continuamente replicato al posto della tradizionale serata organica a ciclo completo ("il teatro dei pupi, prima, si faceva a puntate. […] Però la storia non si riusciva a finirla mai, perché era troppo lunga, allora [mio padre] si fermava a un certo punto, il teatro si spostava in un altro paese, e poi quando […] tornava nel paese […] continuava la storia da dove l'aveva lasciata").

E da questa "resa" di Giacomo Cuticchio ha inizio, per contrasto, la vicenda artistica di Mimmo. Che non è semplicemente l''esponente di una tradizione, ma piuttosto l'erede di due tradizioni (i pupi e il Cunto) che egli ha saputo, senza rinnegare, oltrepassare rinnovando e rendendo personale il proprio linguaggio. Rifiutando la scelta del padre, il giovane Mimmo nel 1967 si trattiene a Parigi (dove la compagnia si è recata per una esibizione) allestendo spettacoli presso l''ambasciata italiana e confrontandosi con un diverso teatro di figura, il Grand Guignol. Tornato in Italia, si separa definitivamente da Giacomo e dopo un breve periodo di formazione come attore a Roma diviene allievo di Peppino Celano, che unisce alla pratica di puparo quella di cuntista.

Il cuntista, termine reso in italiano come contastorie, era una figura specifica dello spettacolo siciliano, diversa per pubblico, repertorio e modalità performative dal cantastorie. Non si esibiva davanti a un pubblico occasionale di passanti che si fermasse ad ascoltarlo, e eventualmente offrisse qualcosa "in pagamento", ma costruiva con panche e tavole un circolo chiuso, vero e proprio "teatro", riservato a un ristretto pubblico pagante. Non proponeva canzoni desunte da fatti di cronaca e di sangue (briganti, delitti d'onore), ma presentava esclusivamente le storie degli antichi cicli cavallereschi medievali. Non cantava accompagnandosi con uno strumento musicale, assistito da un cartellone che illustrava le varie fasi della vicenda, ma drammatizzava il suo racconto recitando "le voci" dei protagonisti, scandendo la vicenda con il gioco degli occhi, dei muscoli facciali, dei piedi battuti sul tavolato, e con una spada (spesso di legno), simbolo del mestiere, che brandiva nei momenti cruciali della narrazione.

Celano non fu un maestro facile, ma piuttosto un enigmatico exemplum a cui con molto impegno Mimmo "rubò" il mestiere, imitando e emulando le sue tecniche (da lui non poteva sperare altro che risposte verbali vaghe e spesso monosillabiche). E per molti anni, dopo la morte del cuntista nel 1973, Cuticchio si limitò a proporre spettacoli di pupi, senza dare espressione alla seconda e più importante eredità ricevuta dal vecchio. Fu solo nel 1980, nel corso di un seminario con l'Odin Teatret che Ferdinando Taviani spinse il teatrante sicilano a "cuntare". E da allora il Cunto è diventato parte integrante del lavoro di Cuticchio, alternandosi agli spettacoli di pupi e più spesso integrandosi con questi in nuove forme più complete.

E la partecipazione di Cuticchio a quel seminario dell'Odin è in un certo senso il simbolo della vittoria finale di questo teatrante, che gode oggi della stima di studiosi come Taviani e altri che hanno fornito contributi a questo libro. Così è diventato l'alfiere della rinascita del teatro dei pupi, che ricomincia a "fare pubblico" e a proporsi come forma vitale, e non più vuota attrazione turistica. In questo modo è anche riuscito a trovare una collocazione, lui che nei primi anni Settanta appariva uno "straniero", un figlio d'arte "rinnegato", guardato con sospetto dalle vestali della tradizione perché troppo innovativo e dalle vestali dell'avanguardia perché legato al lavoro dei padri. È diventato un ponte tra due mondi separati. Un percorso che per certi versi ricorda, certo più in piccolo (ma più che la scala contano le modalità) quello dell''attrice più grande del nostro teatro, una figlia di "guitti" diventata la musa del teatro "d'arte": Eleonora Duse.

di Paolo Albonetti

Indice


Mimmo Cuticchio durante un Cunto
Mimmo Cuticchio durante un Cunto

 

 

 

 

 


 

Mimmo Cuticchio e i Pupi del suo teatrino
Mimmo Cuticchio e i Pupi del suo teatrino




 

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Introduzione
Valentina Venturini
Dal Cunto all’Opera dei pupi

I. Franco Ruffini e Mimmo Cuticchio
Lettere a voce, lettere scritte, racconti, viaggi, da 'una' tradizione a 'la' tradizione del teatro (colloquio)
- Guerra e dopoguerra
- Malazeni, carrette e macchine Balilla
- Nascono i figli
- La casa-teatro
- Il lavoro del teatro
- Il pubblico
- Figli e pupi
- Spettatori e turisti
- In lotta contro il cinema
- Prima uscita: Parigi
- Ritorno a Parigi
- Teatri che viaggiano
- Parigi-Palermo-Roma
- Un Cunto di canti
- Mostrarsi per dire
- Per il mondo dei teatri
- Tutte le strade si possono incontrare
- So chi era mio padre
- Le ali e il volo
- Silenzi, occhiate storte e stare attenti

II. Valentina Venturini
Di padre in figlio. Le ali della tradizione

III. Nicola Savarese
Lettera a un burattinaio indiano

IV. Mimmo Cuticchio
Dal Cunto al teatro

V. Franco Ruffini
Lontane vicinanze

VI. Franco Ruffini
Il posto di Mimmo Cuticchio
- Via Bara all’Olivella
- Tra dentro e fuori
- Quando gli spettacoli non ci entrano più
- Delfini che volano, fantasmi

VII. Valentina Venturini
Una legge per l’Opera dei pupi

VIII. Ferdinando Taviani
Sul rispetto

IX. Mimmo Cuticchio
Avanguardia e tradizione

Postfazione
Ferdinando Taviani
Un maestro del teatro italiano

Appendici
Valentina Venturini (a cura di)
- Figli d’Arte Cuticchio
- Teatrografia di Mimmo Cuticchio
- Scuola per pupari e cuntisti
- Il ''mestiere'' del puparo

Albero genealogico della famiglia d’arte Cuticchio