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César Brie e il Teatro de los Andes

A cura di Fernando Marchiori

Milano, Ubulibri, 2003, p. 223, euro 19,50
ISBN 887748232-X
Questo libro, che raccoglie svariati materiali sull'attore argentino e una breve antologia di suoi scritti, è un valido strumento per avvicinarsi all'esperienza del Teatro de los Andes evitando facili paraocchi critici, entusiastici quanto deleteri. Infatti Brie e la sua compagnia, che stanno incontrando un crescente interesse di pubblico e critica, vengono presentati come emblemi della riscossa dei fautori di un "teatro povero" centrato sull'attore contro il predominio (fra gli anni Ottanta e i primi Novanta) degli spettacoli-allestimento dai sofisticati dispositivi scenotecnici. A mio giudizio sarebbe meglio non azzardare definizioni "epocali" (gruppi "tecnologici" come i Motus incontrano oggi altrettanto favore di Brie, e dalle esperienze "new-wave" dei primi anni Ottanta sono venuti fuori attori come Sandro Lombardi, Marion D'Amburgo, Toni Servillo ecc.). Occorre tenere conto delle reali proporzioni dei fenomeni (a livello di "cartellone", non si può sperare che una rappresentazione italiana di Brie e dei suoi attori abbia la stessa risonanza di una regia di Brook, di Stein o di Nekrosius) e cercare di capire, analizzando l'oggetto specifico "César Brie e Teatro de los Andes", quali sono gli elementi di forza di questa compagnia.

Il "segreto" di questi attori è molto semplice e allo stesso tempo difficilmente riproducibile. Il dato di partenza, per Brie come per altri, è una dolorisissima (e, per noi europei, inimmaginabile) biografia personale e collettiva. Sudamericani, testimoni dei massacri delle varie giunte militari che hanno insanguinato il loro continente, comunque già piagato dalla povertà e dallo sfruttamento, sono potenzialmente in grado (purtroppo) di esprimere un vissuto di ben altra consistenza di quello del nostro attore e regista medio. Ma questa potenzialità rimarrebbe tale, o si esprimerebbe in forme retoriche e ingenue, se non fosse accoppiata a due grandi doti, essenziali per ogni spettacolo. Il rigore drammaturgico e quello registico-attoriale.

Gli spettacoli di questi attori andini, così intrinsecamente politici, non vogliono essere "pamphlets": sono creazioni poetiche, dal cui testo di partenza vengono sviluppati temi, immagini, situazioni, che toccano la sensibilità del pubblico evitando vuoti comizi; creazioni organiche in cui il registro comico e quello tragico si alternano con sapienza evitando l'assuefazione emotiva che spesso rovina messinscene anche pregevoli. Ciò è possibile grazie alla disciplina del complesso e alla volontà collettiva di ricercare, provare, correggere e riprovare soluzioni per ogni singolo elemento dello spettacolo, ripetendo e ripetendo il processo fino ad arrivare a una soluzione che finalmente appare quella giusta.

Solo grazie a questo impegno faticosissimo diventa possibile allestire spettacoli "poveri" in grado di coinvolgere il pubblico. Un segreto di Pulcinella che però spesso viene ignorato. D'altronde, l'austerità di Brie e del suo gruppo non è dovuta semplicemente a snobismo, al rifiuto polemico di servirsi di dispositivi scenotecnici. È determinata innanzitutto dalla difficoltà di disporre di simili attrezzature in Bolivia e dalla impossibilità, comunque, di poterle trasportare indenni nelle remote località andine dove la compagnia si reca a recitare. Una necessità diventata virtù, insomma, che Brie aveva imparato a praticare già negli anni del suo esilio italiano, allestendo spettacoli negli stanzoni dei primi centri sociali milanesi. Accanto a questo, vi è la volontà di costruire lo spettacolo partendo da una scena vuota, che equivale alla tela bianca di un quadro, inserendovi mano a mano gli elementi che producono senso e evitando un'affollamento inutile. Gli accessori utilzzati negli spettacoli sono infatti studiati con minuziosa attenzione: aldilà della povertà dei materiali trasmettono un senso di vera e propria ricercatezza. Una povertà "strategica" e non "dogmatica", quindi, che consente così di produrre spettacoli esteticamente "ricchi".
di Paolo Albonetti


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