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Tiberia de Matteis

Autori in scena. Sei drammaturgie italiane contemporanee


Roma, Bulzoni, 2005, pp. 213, € 16,00
ISBN 88-8319-988-X

"Il pregiudizio sulla crisi poetica della drammaturgia italiana contemporanea affligge gli autori e costituisce un alibi vantaggioso per il sistema produttivo che non vuole assumersi il rischio di finanziare allestimenti di opere inedite". Così si legge nell’Introduzione di Tiberia de Matteis al suo prezioso volume Autori in scena. Sei drammaturgie italiane contemporanee recentemente pubblicato da Bulzoni. L’attenta ricognizione critica dell’autrice propone un quadro di contributi fecondi. Sei gli autori di teatro campionati, scelti per le differenti modalità di scrittura scenica e per le diverse provenienze geografiche e culturali che li distinguono. A ciascuno è dedicato uno specifico capitolo monografico, in cui si ripercorre la carriera e si analizzano i contenuti dei testi, molti dei quali inediti (si vedano le utili teatrografie).

Apre la rassegna Roberto Cavosi, meranese classe 1959, diplomato presso l’Accademia "Silvio d’Amico": dopo aver debuttato come attore nel teatro e nel cinema con registi come Ronconi, Sequi, Squarzina, Fabbri e Risi, si afferma come intraprendente autore di testi teatrali. Il disagio esistenziale dei suoi personaggi si cala in uno spazio, geografico e sociale, che diventa una prigione asfittica e costante per anime solitarie e completamente smarrite, capaci di riscattarsi solo con il sacrificio della vita. In questa inquietante vetrina si trovano, ad esempio, i protagonisti degli esordi, le prostitute di Lauben, i due fratelli di Luna di miele, l’omosessuale di Viale Europa, il Signore (Giasone) e la Signora (Medea) di Piazza della Vittoria. Questi testi, allestiti dal Teatro Stabile di Bolzano, hanno garantito all’autore successo nazionale. Sono caratterizzati da una forte spiritualità di matrice cattolica condannata alla tragedia, sia in una regione di confine e multietnica come l’Alto Adige, sia nella Palermo mafiosa di Rosanero. Nell’opera di Cavosi occupa un ruolo centrale la figura della donna, "portatrice di un’universalità, di un rapporto intrinseco con la terra e col cosmo impossibile per la sfera sensibile maschile", come spiega lo stesso autore nella postfazione alla Trilogia della luna, il volume che raccoglie i recenti Diario ovulare di Erodiade, Anima errante, Bellissima Maria (introduzione di Luca Doninelli, Milano, Ubulibri, 2003). Questi lavori segnano un nuovo corso creativo in cui l’autore approfondisce la vita interiore dell’uomo, psicologica e morale, esplora la coscienza per cercare di liberarla dai confini dello spazio geografico e del tempo storico e collegarla con il mito.

Diversa si presenta la ricerca drammaturgica avviata da Edoardo Erba, nato a Pavia nel 1954 e formatosi nella Scuola del Piccolo Teatro di Milano. I suoi personaggi, angoscianti e misteriosi alla maniera kafkiana ma anche sospesi nell’attesa secondo la lezione beckettiana, rinunciano allo scontro con i valori assoluti, vivono l’assenza di eroismo propria dell’uomo moderno. Si allontanano dalla tragedia ed entrano in una dimensione umoristica, che li rende uomini comuni in ambienti scontati e squallidi del nostro tempo, dove parlano un linguaggio privo di velleità letterarie con uno stile medio-borghese. L’umorismo ‘nero’ esprime malessere interiore e insoddisfazione perenne a partire dalle opere giovanili (Tessuti umani, Il capodanno del secolo, Buone notizie). Nella rappresentazione dei perdenti Erba ricorre alla metafora sportiva, che si dimostra assai efficace nella convincente Maratona di New York, il testo della notorietà, consacrato da una serie di allestimenti anche all’estero e da diverse traduzioni.

Per lo scrittore milanese l’uomo è la pedina di un ingranaggio che sfugge al suo diretto controllo. I personaggi prendono coscienza e cercano una forma di riscatto immaginario, come in Venditori, Vizio di famiglia e soprattutto in Dejavu, una delle migliori espressioni della drammaturgia di Erba, dramma di una vedova quasi cinquantenne alle prese con un dichiarato trasporto erotico verso un uomo molto più giovane di lei.

Il teatro del toscano Ugo Chiti, nato nel 1943 nella provincia fiorentina, guida alla riscoperta e rivalutazione della storia culturale e sociale della regione attraverso il recupero assai originale del mondo ancestrale di contadini e borghesi, libero da suggestioni patetiche e vernacolari, per approdare ad una visione cruda e grottesca. La maturazione di un linguaggio espressivo diretto, senza fronzoli accademici, deriva dalla pratica professionale quotidiana (il lavoro con gli attori e la necessaria mediazione con le assillanti difficoltà produttive). L’affinamento stilistico passa attraverso la rivisitazione di testi shakespeariani e pirandelliani, per culminare in Fedra e in Clizia (da Machiavelli): in quest’ultimo lavoro la trama è rovesciata e osservata dal basso: sono i due servi Eustachio e Pirro a raccontare in dialetto il comune innamoramento del padre Nicodemo e del figlio Oleandro per una fanciulla.

Chiti ha anche affrontato altri temi, come il confronto con un irraggiungibile sogno americano (La provincia di Jimmy) e l’approfondimento della drammaturgia popolare fondata sul patrimonio ereditato (si veda il progetto della trilogia La recita del popolo fantastico). Le fonti della tradizione orale aprono lo sguardo al filone narrativo dedicato alla passione civile: Quattro bombe in tasca e il recente I ragazzi della Via della Scala costituiscono le espressioni più convincenti di tale operazione.

Giuseppe Manfridi, nato a Roma nel 1956, ha prodotto un abbondante repertorio di commedie e di atti unici. In Ti amo, Maria!, testo fra i più noti, una passione mai sopita diventa ossessiva negazione dell’essere. Altro percorso seguito dallo scrittore romano è l’attualizzazione dei modelli tragici greci, riconoscibile in Elettra e negli Ultimi passi verso la salvezza di Edipo. Lo scavo nei segreti interiori dei personaggi spinge l’autore ad osservarli dal buco della serratura. Il poeta Leopardi in Giacomo, il prepotente si muove in tre diverse camere da letto, in un interno domestico si svolge Il fazzoletto di Dostoevskij.

Il teatro napoletano è rappresentato da Ruggero Cappuccio, nato a Torre del Greco nel 1964. A partire dal 1988 l’autore ha attivato a Napoli un progetto che considera la drammaturgia il prodotto dell’incontro di attori, musicisti, scenografi, costumisti e pittori con lo scrittore e il regista. Questa sinergia creativa si è ben definita nel 1996 con la nascita di Teatro Segreto. Delirio marginale, il testo pluripremiato e della consacrazione, è concepito come una partitura musicale in cui napoletano e veneziano, le due lingue della tradizione teatrale italiana, si intrecciano in armonia dialettica e artistica. Anche in Shakespea Re di Napoli la scrittura scenica risulta un crocevia di lingue, un labirinto di suoni e sensi. Il proposito di annullare il tempo e lo spazio per approdare ad un teatro ambientato nell’altrove, induce Cappuccio a confrontarsi con gli arcaici stilemi della classicità di area mediterranea, come in Edipo a Colono o nella riscrittura de Le Bacchidi plautine. La predilezione per atmosfere sospese tra sogno e memoria è la chiave di lettura per avvicinarsi al teatro di Cappuccio e per interpretare i lavori più recenti, come Lignea. I silenzi della memoria.

Il viaggio nella drammaturgia italiana contemporanea si conclude nella Sicilia di Spiro Scimone, nato a Messina nel 1964, autore e attore formatosi presso l’Accademia dei Filodrammatici di Milano. La sua attività professionale subisce una importante svolta grazie al sodalizio artistico con Francesco Sframeli, poi con la vittoria alla selezione IDI Nuovi Autori ottenuta da Nunzio, suo primo copione affidato alla regia di Carlo Cecchi. Il dramma è scritto in dialetto messinese come quello successivo, Bar, mentre il terzo, La festa, si presenta in lingua. Elemento ricorrente è l’ambientazione della vicenda in un luogo chiuso in cui giungono echi di un mondo esterno, inquietante e pericoloso. In uno spazio mentale pinteriano si consumano gli squallidi riti dell’emarginazione e del disagio patiti dall’emigrato meridionale.

La drammaturgia di Scimone, che si alimenta di rapporti umani piuttosto che di azioni, evita la trappola del resoconto cronachistico e del bozzetto oleografico per approdare alla poetica del ‘non detto’ nascosto nei discorsi scontati e prevedibili ma strutturati con il ricorso a fondamentali pause e silenzi, sulle orme degli insegnamenti di Beckett, Pinter e Mrozek.


Massimo Bertoldi


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