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Luca Bandirali, Stefano D'Amodio

Buongiorno, notte. Le ragioni e le immagini


Argo, Lecce, 2004, pp. 236, Euro 30,00
ISBN 88-8234-321-9

Chiunque voglia affrontare il cinema di Marco Bellocchio, e in particolare Buongiorno, notte, non potrà prescindere da questo libro: più di una monografia, assai più di un volume fotografico, un affondo a più mani dentro la materia del farsi di un film: il set, il progetto, la concezione, la composizione e – infine – la ricezione. Dalle fasi realizzative al consumo, passando attraverso la Storia (il sequestro di Aldo Moro) e l’Ideologia (nel film terreno di scontro fra diversi punti di vista – Moro, i terroristi, la televisione, l’Italia politica).


Il volume di Luca Bandirali (critico cinematografico) e Stefano D’Amadio (fotografo di scena, fra i più interessanti del panorama italiano contemporaneo) esplora il film di Marco Bellocchio attraverso le immagini scattate sul set e si compone di un ricco apparato testuale. La prefazione di Flavio De Bernardinis introduce la nota dominante dell’analisi che diviene “metodo” nel saggio a seguire di Luca Bandirali: «Qui siamo – scrive De Bernardinis - nello spazio kubrickiano degli eyes wide shut, ovvero degli “occhi aperti chiusi”. Attraverso la figura del sogno/risveglio che fa accedere nuovamente a un ulteriore livello del sogno, il cinema del materialista dialettico Marco Bellocchio ci invita a chiudere gli occhi per vedere meglio»). Vedere meglio, incalza Bandirali, significa analizzare, e l’analisi non uccide il piacere estetico, anzitutto perché anche comprendere è un piacere. Così la lunga conversazione con il regista si rivela un’intervista anomala, furiosamente concentrata sulle opzioni formali della regia. Un’intervista “conoscitiva” a cui lo stesso regista sembra volersi sottrarre, nel tentativo di dimostrare come ogni scelta non sia in sé necessaria ma frutto di una costante messa a punto nel corso della realizzazione del film, che raggiunge solo in sede di post-produzione il suo assetto definitivo. Anche in questo senso Buongiorno, notte si mostra attraverso l’antitesi kubrickiana aperto/chiuso: il critico analizza il testo “chiuso” mentre il regista vuole riportarlo alla sua dimensione di apertura sui significati possibili. Intanto scorre sotto gli occhi del lettore un testo parallelo, quello costituito dal corpus degli scatti “rubati” da Stefano D’Amadio sul set: immagini fisse, in bianco e nero, perfetto rovescio delle immagini in movimento e a colori che costituiscono il testo-film (fra le fotografie più significative il ritratto di Bellocchio che esce dall’ombra per contemplare il muro di gomma della prigione di Moro). E il libro, che qui sembrerebbe concluso, ricomincia.


Ricomincia da una conversazione con la montatrice Francesca Calvelli, moglie di Bellocchio, che lascia entrare il critico in sala di montaggio, davanti all’apparecchiatura digitale responsabile del final cut. Così si ritorna al tema dell’opera che si chiude dopo aver contemplato tutte le aperture possibili: «Vuoi sapere – chiede Francesca Calvelli - le differenze fra digitale e pellicola? L’Avid ti permette di vedere più possibilità, di sperimentare di più (…) Questo è un pregio ma è anche un difetto, perché comunque se non sei molto attento e concentrato, a un certo punto ti perdi e non sai più che strada prendere (…). E’ necessario essere sereni e consapevoli per tenere sotto controllo la possibile dissociazione che questo sistema può creare, e fatto questo se ne tirano fuori i pregi». Ospitato nella collana dal titolo “Ascoltare lo sguardo”, il volume include una conversazione con il compositore Riccardo Giagni, già autore delle musiche de L’ora di religione: altro affondo nella fucina del film. Ma non è ancora la fine. Nell’ultimo capitolo, dal titolo “Lo statista in prigione e le parole in libertà”, Enrico Terrone chiama a raccolta i testi secondari, affrontando con ironia e una punta di perfidia il cicaleggio mediatico che ha accompagnato in Italia, fino dalla presentazione al Festival di Venezia 2003, il film. È qui che, paradossalmente, il testo ritrova dal sua forma più indefinita e transitoria, aprendosi alle interpretazioni più disparate, tutte accomunate da una logica inversa a quella che ha guidato gli autori del libro: al posto della metodologia cristallina approntata per guardare dentro al film, negli articoli pubblicati su giornali e riviste opacizza la visione la lente ingombrante e ottusa dell’Ideologia applicata alla Storia, e incurante del cinema. È la fine.





Cristina Jandelli


La copertina

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