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George Tabori

I Cannibali

Traduzione di Laura Forti. Presentazione di Giorgio Pressburger

Torino, Einaudi, 2004, pp. 75, euro 9,00
ISBN 88 - 06 - 16778 - 4
Die Kannibalen di George Tabori debuttò all'American Place Theatre di New York verso la fine del 1968 e il «New York Times» definì il testo ''duro, implacabile, istericamente determinato a provocare il dolore''. L'anno successivo fu rappresentato allo Schillertheater di Berlino, dove ottenne un enorme successo. ''Quelli che lo hanno odiato, adesso lo amano'', commentò la prima moglie di Tabori, l'attrice americana Viveva Lindfors. In Italia l'opera di questo drammaturgo novantenne di origine ungherese, residente a Berlino dopo aver abitato in Inghilterra, Francia, Stati Uniti e Israele, considerato uno dei maggiori innovatori del teatro contemporaneo almeno tedesco, è arrivata tardi, troppo tardi, solo due anni fa, quando il gruppo di ricerca Centrale dell'Arte lo trasferì sul palcoscenico del Teatro Metastasio di Prato, il 27 gennaio 2002, in occasione della Giornata Nazionale della Memoria della Shoa. La regia de I Cannibali fu firmata da Teo Paoli e da Laura Forti, anche traduttrice del testo ora pubblicato da Einaudi e arricchito da una preziosa presentazione di Giorgio Pressburger dal titolo La grandezza di Tabori.

È dalla scomparsa del padre dello scrittore, deportato ad Auschwitz, che prende origine il dramma, che Tabori ricavò da un suo racconto di discreto successo editoriale, The Cannibals. Il protagonista è definito di ''scarso appetito'' in quanto si rifiuta di mangiare la carne di un compagno da poco morto, come invece fecero altri due reclusi nella stessa baracca. Per fuggire la tentazione dell'evocazione realistica e del coinvolgimento emotivo da parte degli spettatori, ma mantenendo vivo l'orrore della memoria, nella versione teatrale Tabori si affidò alla lezione brechtiana, alla tecnica dello straniamento in una versione non lontana dal Marat-Sade di Peter Weiss, altro autore tedesco che da giovane conobbe la persecuzione nazista. 

Un gruppo di figli di deportati ripercorre attraverso un esplicito gioco teatrale quella vicenda, la preparazione dell'incredibile e drammatica cena per la sopravvivenza. I figli interpretano i loro padri, per rivivere sulla propria pelle il senso della fame, il terrore psicologico, la violenza, il degrado fisico e morale, il contatto con la morte, ma anche la resistenza manifestata dalla scelta di non voler somigliare ai persecutori. Durante la rappresentazione gli attori si scambiano spesso il personaggio, escono continuamente dalla parte. Ne emerge una narrazione cruda e spietata, con la parola imbevuta di violenza senza pietà e senza lacrime, piuttosto filtrata nell'umorismo ebraico più estremo.

Nel respingere la condanna morale dell'uomo che si oppone al quel terribile pasto, uno dei personaggi cita dalla Bibbia l'elenco delle cose abominevoli che Dio stesso ha vietato di mangiare. Nella lista sono compresi gli animali che strisciano per terra e quelli con lo zoccolo fesso, ogni essere che si arrampichi e voli. Non è menzionato l'uomo grasso, cioè il Dio della Bibbia non ha proibito di mangiare l'uomo grasso. Potrebbe sembrare un elegante motto di spirito condito di macabro umorismo mitteleuropeo. È l'invito a guardare oltre le formule di comodo, alle visioni preconfezionate dell'olocausto, per cercare un nuovo linguaggio interpretativo e ridare alla parola il suono e il sapore della verità.

Massimo Bertoldi


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