Patriottico, familiare, equino

di Paolo Patrizi

Data di pubblicazione su web 24/10/2024

La battaglia di Legnano
Da quando è stato trasformato da precetto mazziniano a slogan all’ombra di un’altra ideologia e un’altra temperie, c’è un certo pudore nel lasciarsi andare al fatidico tris “Dio, Patria e Famiglia”. Sta di fatto, però, che proprio di questo parla La battaglia di Legnano («Digli ch’è sangue italico, / Digli ch’è sangue mio, / Che dei mortali è giudice / La terra no, ma Dio! / E dopo Dio, la Patria / Gli apprendi a rispettar», canta il prode Rolando alla sua sposa indicandole il pargoletto): e forse ciò motiva l’attuale impopolarità di quest’opera di Verdi mai entrata definitivamente in repertorio dopo i grandi successi risorgimentali, ma che incontrò un certo favore del pubblico novecentesco tra la fine degli anni Cinquanta e i due decenni successivi. Un favore che, d’altronde, passò attraverso le letture di direttori come Vittorio Gui e Gianandrea Gavazzeni, e il canto di Leyla Gencer, Giuseppe Taddei, Ettore Bastianini, Franco Corelli, José Carreras, Katia Ricciarelli. Sostituire tali bacchette con direttori precisi e corretti ma carenti nell’approfondimento drammatico e nel senso storicistico, rinunciare a voci capaci di restituire l’enfasi del Verdi patriottico preferendo dei levigati stilisti, mettere il versante canoro ai margini di quell’epos in favore di letture registiche estranee all’eloquenza risorgimentale: tutto questo significa rimodellare La battaglia di Legnano, di volta in volta, in cimelio d’antiquariato o esperimento da laboratorio. In un melodramma ancor vivo e vitale, proprio no.

Certamente è un’opera in cui manca qualcosa: un senso d’incompletezza si avverte, e non è un caso se il direttore che negli ultimi decenni ha offerto i contributi più significativo alla causa del Verdi quarantottesco – Riccardo Muti – si sia finora tenuto lontano dalla Battaglia. Forse, qui, quello che è uno dei proverbiali pregi verdiani (la sintesi incalzante, la capacità di sfrondare il superfluo per arrivare dritto al cuore dell’effetto teatrale) si è trasformato in limite: con almeno un’altra scena, il materiale drammatico si sarebbe sviluppato più compiutamente. D’altronde è proprio la drammaturgia del libretto di Salvadore Cammarano ad apparire bifasica, con un versante storico-politico e uno intimo-privato che non si fondono (e forse neppure intendono farlo), accompagnando di volta in volta lo spettatore ora nelle lotte della Lega Lombarda contro l’invasore Federico Barbarossa, ora nei meandri del triangolo amoroso dove affetto coniugale, amicizia virile e passione ineludibile si scontrano romanticissimamente. Qui dovrebbe entrare in gioco il regista: ma Valentina Carrasco, che qualche anno fa a Roma offrì una lettura esemplare di quel tardivo Verdi patriottico che sono I vespri siciliani, nella Battaglia di Legnano che ha concluso il Festival Verdi di Parma non trova spunti altrettanto ermeneutici.



Un momento dello spettacolo
© Teatro Regio di Parma


In entrambi gli spettacoli, resta chiara la volontà della Carrasco di raccontare senza retorica la Storia e il dolore, la politica e i sentimenti. Ma mentre quei Vespri si traducevano in un racconto decontestualizzato e un’ambientazione mentale, questa Battaglia gioca più banalmente – anche sul fronte dei costumi di Silvia Aymonino – la carta diacronica (la guerra come orrore perenne), concentrandosi peraltro su un momento storico preciso che, tuttavia, non è né il dodicesimo secolo del Barbarossa né il ’48 verdiano. Siamo nella Prima Guerra Mondiale (conflitto, per inciso, con cui l’Italia tentò di risolvere molte delle questioni lasciate aperte dal Risorgimento a cominciare da quella dalmata, ma tale liaison metastorica non viene sviluppata dalla regia) e il sipario si alza sul filmato del primo piano di una pupilla umida su un muso bianco. È quella di un cavallo: animale, notoriamente, oltremodo impiegato sui fronti del ’15-’18. Ed è un’autentica mattanza equina quella cui assistiamo in questa messinscena: involontari collaboratori militari (ma gioverà ricordare che pure i muli vennero assai utilizzati nel traino di carri e cannoni), màrtiri inconsapevoli, i cavalli – sembra volerci dire la Carrasco – sono le vere vittime di guerra al pari dei bambini e delle donne. Anche perché storicamente (e dopo la Grande Guerra, con il progredire della tecnologia, non sarebbe più accaduto) sono i cavalli ad avere accompagnato l’uomo nelle sue imprese belliche, a partire dalle grandi battaglie equestri dell’antichità.



Un momento dello spettacolo
© Teatro Regio di Parma


Ne scaturisce uno spettacolo pacifista, animalista, suggestivo nella dialettica tra immagini filmate (molte le riproduzioni di quadri a soggetto guerresco-equino) e finzione teatrale (i tanti cavalli di legno, o le loro teste mozzate, schierati sul palco), all’occasione perfino ironico e aggraziato (le chiome delle ancelle di Lida che fanno da pendant alle code dei quadrupedi): ma anche pretestuoso, fondamentalmente, e dal Konzept debole. Né vale scomodare, per le scene, un nome illustre come Margherita Palli quando di scenografia in senso stretto – con un allestimento siffatto – non è il caso di parlare, il palcoscenico restando quasi nudo, cantanti e cavalli esclusi. Poco approfondita nella gestualità degli interpreti, con scontate citazioni cinematografiche – La corazzata Potëmkin, Il padrino – e un momento francamente prosaico e spoetizzante (Arrigo imprigionato che, per raggiungere i compagni di battaglia, anziché gettarsi dalla finestra rompe la cancellata con un martello), la regia della Carrasco dà insomma l’idea di non credere fino in fondo a quest’opera: preferendo affidarsi ora alla trovata momentanea, ora all’ombrello della political correctness.



Un momento dello spettacolo
© Teatro Regio di Parma


Per differenti motivi anche Diego Ceretta, direttore tra i più quotati dell’ultimissima generazione, non addiviene a una lettura del tutto convincente. Ceretta ha ventotto anni, dunque non gli si può richiedere quella profondità drammatica e quel senso storicistico – la capacità di storicizzare il melodramma che si affronta, di evidenziarne la cultura e il momento “politico” da cui deriva – che avevano consentito a Gui e Gavazzeni di (ri)sdoganare La battaglia di Legnano. Semmai, dimostra un certo scavo stilistico: è una concertazione, la sua, che sottolinea l’influenza dell’opera francese (Verdi in quel periodo viveva a Parigi), il tentativo di creare un grand-opéra – lo “storico” e il “privato”, appunto – in formato Bignami, certi sviluppi sinfonici e certe meticolosità (i temi spesso riproposti, ma sempre con qualche modifica melodica o armonica) che non erano ancora moneta corrente per il Verdi di quegli anni.

 

Gli mancano però sia la capacità di valorizzare adeguatamente la parola scenica (sebbene potesse contare su un terzetto protagonistico esemplare o per accento, nel caso di soprano e baritono, o per dizione, nel caso di baritono e tenore) sia quel senso di fusione ininterrotta di pezzi concatenati che per Verdi non era wagnerismo ante litteram, ma il modo di esprimere musicalmente la sovrapposizione dei diversi stati d’animo. Stando così le cose, cadono quasi completamente i due atti più “compattati” (il secondo e il quarto); non risulta troppo avvertibile, sempre nel secondo atto, l’innovazione verdiana di aver fatto del duetto tra Arrigo e Rolando una pagina dove i due personaggi non dialogano tra loro, ma si rivolgono agli astanti; e la natura esaltata, piuttosto che dimessa, di Lida – forse il più caleidoscopico ruolo femminile di Verdi prima della Trilogia – emerge grazie al fraseggio di Marina Rebeka, ma non all’accompagnamento del direttore, che si lascia sfuggire quanto di morbosamente cantilenante, quasi chopiniano, viene racchiuso in questo personaggio.


Un momento dello spettacolo
© Teatro Regio di Parma


La Rebeka è, appunto, il fiore all’occhiello del cast: impeccabilmente fluida nelle agilità del primo atto, mobilissima nel “recitar cantando” del terzo (quei conati melodici che non riescono a sfociare in alcun arioso, replicando così l’impotenza del personaggio) e di un’ossimorica eterea severità nella preghiera che precede il finale. Appena un gradino sotto – l’ormai lunga carriera ha un po’ sfocato il suo organo vocale – si pone il Rolando di Vladimir Stoyanov, comunque sempre di gran classe per eleganza della linea e arte del porgere: un esemplare confluenza tra la civiltà vocale del baritono donizettiano e il cipiglio di quello verdiano. Antonio Poli sfoggia dizione netta e colore limpido, ma la parte di Arrigo – pur declinata in chiave lirica alla Carreras, anziché eroica alla Corelli – resta comunque troppo infuocata e pesante per lui. Sul fronte dei cattivi, il malvagio della vicenda privata (ossia l’innamorato respinto Marcovaldo) è ben tratteggiato da Alessio Verna, mentre il malvagio dell’affresco storico (Barbarossa, ovviamente) viene incarnato da Riccardo Fassi con cipiglio scenico, ma sostanziale anonimato vocale. Ora consolatrice e ora corruttibile, Arlene Miatto Albeldas ritaglia un’ancella Imelda graziosa e ambigua quanto basta, mentre il coro – in continuo primo piano e proveniente, come l’orchestra, dal Comunale di Bologna – è ben istruito da Gea Garatti Ansini.

La battaglia di Legnano

Cast & Credits

Trama



Un momento dello spettacolo visto il 20 ottobre 2024 al Teatro Regio di Parma
© Teatro Regio di Parma



Cast & credits

Titolo 
La battaglia di Legnano
Sotto titolo 
Opera in quattro atti
Anno 
2024
Data rappresentazione 
20 ottobre 2024
Città rappresentazione 
Parma
Luogo rappresentazione 
Teatro Regio di Parma
Evento 
Festival Verdi 2024
Titolo testo d'origine 
La bataille de Toulouse di Joseph Méry
Libretto 
Salvatore Cammarano
Regia 
Valentina Carrasco
Interpreti 
Riccardo Fassi (Federico Barbarossa)
Marina Rebeka (Lida)
Antonio Poli (Arrigo)
Vladimir Stoyanov (Rolando)
Alessio Verna (Marcovaldo)
Emil Abdullaiev* (Il podestā di Como / I Console di Milano)
Bo Yang (II Console)
Arlene Miatto Albeldas* (Imelda)
Anzor Pilia* (Uno Scudiero di Arrigo / Un Araldo)
* Allievi e giā allievi dell'Accademia Verdiana
Produzione 
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
Scenografia 
Margherita Palli
Costumi 
Silvia Aymonino
Luci 
Marco Filibeck
Musiche 
Giuseppe Verdi
Orchestra 
Orchestra del Teatro comunale di Bologna
Direzione d'orchestra 
Diego Ceretta
Coro 
Coro del Teatro comunale di Bologna
Maestro del coro 
Gea Garatti Ansini

Trama

Atto primo. Egli vive!

A Milano, nel 1176. Arrigo e Rolando, guerrieri della Lega Lombarda, si ritrovano per difendere la cittā dal Barbarossa. Lida, un tempo amante di Arrigo, da lei creduto morto, e ora moglie di Rolando, teme Marcovaldo, un prigioniero germanico che tenta di insidiarla. La gioia e la commozione della donna nel rivedere insieme al marito l?amante di un tempo si mutano presto in dolore quando Arrigo, sordo a ogni spiegazione, la accusa segretamente di averlo tradito.

Atto secondo. Barbarossa

Rolando e Arrigo, ambasciatori della Lega a Como, tentano inutilmente di convincere i cittadini a unirsi a loro. Alle sprezzanti minacce del Barbarossa, i due non replicano: solo la guerra farā valere le ragioni dei contendenti.

Atto terzo. L'infamia

Marcovaldo intercetta una lettera di Lida ad Arrigo (nella quale ella gli chiede, in nome dell?antico amore, di non unirsi ai Cavalieri della Morte e di vivere per affetto verso la madre) e la consegna a Rolando, che accusa la moglie e l?amico di tradimento. Quando Rolando si allontana chiudendo a chiave la porta, Arrigo, per non patire l?infamia della diserzione, č costretto a fuggire saltando dalla finestra per potersi unire ai soldati.

Atto quarto. Morire per la patria!

La battaglia č vinta e Barbarossa stesso č caduto per mano di Arrigo. Mentre il popolo esulta, giunge Arrigo morente scortato da Rolando e dai cavalieri. In punto di morte, l?uomo proclama l?innocenza di Lida e chiede all?amico di un tempo di riavere la sua stima; di fronte alla sinceritā di Arrigo e alle preghiere della moglie, Rolando, commosso, porge la destra all?amico, che spira baciando il Carroccio.