Scala barocca
Un’opera del Seicento alla Scala non fa più nemmeno notizia. Anche se con il ritardo che contraddistingue la cultura musicale italiana degli ultimi decenni rispetto a quella di altri paesi europei, l’opera barocca è adesso parte degli appuntamenti stabili almeno del teatro milanese. Le opere di Händel, Vinci, e ancor di più quelle di Monteverdi e Cavalli delle passate stagioni, sembravano una mossa audace da parte della direzione artistica; con questa Orontea di Antonio Cesti si ha adesso l’impressione di una breccia aperta in via definitiva. Quanto solo quindi anni fa sembrava un miraggio è ora realtà: l’opera del Sei- Settecento alla Scala si può fare. Si dà L’Orontea, un’opera del 1656; la sala è gremita, ed è un successo di pubblico e di critica. Ora i tempi sono maturi per una mossa ancora più audace: l’opera barocca francese, da sempre la grande assente dalle scene milanesi, anzi, d’Italia.
Al successo ha contribuito in modo particolare lo spettacolo di Robert Carsen (regia). Non che la parte musicale non abbia avuto la sua importanza, ma la meraviglia dell’opera del Seicento, per citare uno spettatore dell’epoca, sta nell’essere un dramma in cui «i personaggi parlano musicalmente». L’azione, il dialogo vi hanno un peso maggiore che nelle opere anche solo del secolo successivo, e i brani cantati, di cui L’Orontea è per l’epoca sorprendentemente generosa ma che non hanno certo le dimensioni delle arie di Händel, si godono al meglio solo se li si riesce a comprendere per come sono incastonati nello sviluppo della vicenda, cogliendo le motivazioni drammatiche che giustificano il loro arrivo in quel punto specifico della storia.
L’allestimento è di una semplicità cartesiana, nonostante l’intrico delle storie e degli antefatti che sono caratteristici di Orontea e di tutte le opere del tempo. Carsen sposta la storia nell’epoca attuale: Orontea non è la regina d’Egitto, bensì una gallerista di successo della Milano contemporanea. La costellazione dei personaggi conserva i rapporti del libretto (di Giacinto Andrea Cicognini e Giovanni Filippo Apolloni), ma l’azione si svolge tra gli spazi espositivi e il modernissimo ufficio della protagonista con vista sui grattacieli e il bosco verticale di City life, con qualche escursione nei locali di disbrigo (per le scene buffe) o nella biblioteca-deposito: gli ambienti si alternano grazie alla scena rotante (scene Gideon Davey). I costumi (anch’essi di Davey) e gli atteggiamenti di oggi rendono tutto immediatamente accessibile, anche perché Carsen ha puntato moltissimo sulla direzione attoriale degli interpreti, rendendoli credibili come i protagonisti di uno spettacolo molto ben recitato, nel quale la musica è uno strumento a servizio della recitazione e non un intralcio.
Un momento dello spettacolo
Una delle principali difficoltà nel riproporre opere del Seicento in un teatro come la Scala sta nel decidere che cosa fare con l’orchestra. Quelle dell’epoca erano pensate per spazi diversi, e, con le dovute eccezioni, prevedevano l’uso di piccoli ensembles. Inoltre, le partiture a nostra disposizione riportano poco più che le linee del canto e del basso continuo, dimodoché chi dirige deve stabilire quanti e quali strumenti avere in buca, e come e quando farli intervenire. Giovanni Antonini (direzione) ha optato per un ensemble contenuto, ma non ridotto al minimo, adatto quindi a una sala grande come l’auditorium del Piermarini. Ne facevano parte alcuni orchestrali della Scala (che da qualche anno praticano anche gli strumenti “antichi”) affiancati da specialisti del barocco, soprattutto per la parte del continuo. Non è facile creare amalgami del genere, e qualche difetto di intonazione c’è stato soprattutto all’inizio, ma in seguito le cose si sono assestate, e il risultato è stato migliore rispetto alle prove precedenti. La direzione di Antonini non si è messa in particolare evidenza per fraseggi o idee sorprendenti, ma ha trovato i giusti tempi drammatici, funzionali all’azione sulla scena.
Il cast ha messo insieme alcuni barocchisti di lunga data e nuove acquisizioni a questo repertorio, ma le differenze tra gli uni e gli altri sono ormai poco significative. Col fatto che l’opera del Sei-Settecento è ora nell’orizzonte dei grandi teatri, la cantano bene in molti, sia le voci più importanti che fino a qualche anno fa non erano disponibili per Cesti, Cavalli o Monteverdi, sia gli specialisti della musica antica, che devono adesso saper farsi sentire in sale più grandi rispetto al passato. La scrittura di Cesti (e in generale dell’opera del Seicento) è tutto fuorché semplice per i cantanti, soprattutto a causa di tessiture non di rado ingrate, che pongono anche gli interpreti più esperti di fronte a insidiose difficoltà: in queste opere bisogna non solo cantare bene, ma anche far capire bene il testo ed essere credibili come attori.
Un momento dello spettacolo
In questa Orontea tutti recitano con grande partecipazione. Stéphanie d’Oustrac ha il piglio della grande diva, ed è scenicamente perfetta per il ruolo di questa Orontea giovane gran dama dell’upper class milanese; la tessitura non è però quella per lei ideale, e in qualche punto il legato delle arie ne soffre – l’interprete dà sicuramente il meglio nelle sezioni di declamato. Splendido Carlo Vistoli: la voce è sonora, ricca di armonici e omogenea, il fraseggio duttile e la recitazione spigliata in questo ruolo, quello di Alidoro, ricco di sfaccettature, che richiede di passare dal registro lamentoso del primo atto, a quello amoroso del secondo a quello del superbo bellimbusto del terzo. Splendida Francesca Pia Vitale (Silandra), uno di quei felicissimi casi di cui sopra: un’interprete non specializzata nell’opera barocca e al contempo assolutamente sorprendente in questo repertorio per lei non caratteristico e che sembra aver frequentato da sempre (si pensi che nello scorso giugno alla Scala è stata Sophie nel Werther di Massenet).
Luca Tittoto mette stavolta la sua arte al servizio di un personaggio buffo (Gelone) che disegna con voce potente e bel colore scuro. Mirco Palazzi è un imperioso (Creonte), ma non sempre a suo agio nelle escursioni all’acuto che il ruolo gli riserva. Anche le parti secondarie sono assortite benissimo, cosa davvero notevole, dato che L’Orontea ne prevede alcune che, diversamente da quanto accade nell’opera ottocentesca, sono protagoniste di intere scene. È un po’ un peccato, perché si sarebbe volentieri ascoltato di più anche Hugh Cutting (Corindo), un controtenore dalla voce di colore caldo e ben proiettata, oltre che attore spigliatissimo, così come Sarah Blanch (Tibrino), soprano agile e dal timbro argentino. Completano ottimamente il cast Marcela Rahal (Aristea) e Maria Nazarova (Giacinta).
Grande successo in una sala gremita e con pochissimi abbandoni dopo il primo atto. Gli applausi più calorosi sono andati a Francesca Pia Vitale e Carlo Vistoli.
Cast & credits
Titolo
L'Orontea |
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Sotto titolo
Dramma per musica |
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Data rappresentazione
5 ottobre 2024 |
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Città rappresentazione
Milano |
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Luogo rappresentazione
Teatro alla Scala |
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Prima rappresentazione
25 settembre 2024 |
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Libretto
Giacinto Andrea Cicognini e Giovanni Filippo Apolloni |
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Regia
Robert Carsen |
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Interpreti
Stphanie d'Oustrac (Orontea) Mirco Palazzi (Creonte) Francesca Pia Vitale (Silandra) Hugh Cutting (Corindo) Luca Tittoto (Gelone) Marcela Rahal (Aristea) Sara Blanch (Tibrino) |
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Scenografia
Gideon Davey |
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Costumi
Gideon Davey |
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Luci
Robert Carsen e Peter van Praet |
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Musiche
Antonio Cesti |
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Orchestra
Orchestra del Teatro alla Scala |
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Direzione d'orchestra
Giovanni Antonini |