Il lavoro non è una merce

di Giuseppe Gario

Data di pubblicazione su web 10/09/2024

Il lavoro non è una merce


Dal 1958 Johnny Hart pubblicò sul «New York Times» la striscia satirica B.C. (Before Christ) nel suo mondo primitivo dove, inventata rotonda, la ruota di pietra diventa quadrata (parcheggi in pendenza), poi triangolare (un sobbalzo in meno). «Forse altrettanto importante della ruota», così nel 2023 sulla IA Richard Hofstadter (Gödel Escher Bach). Lo ricorda Paul Jorion (L'avènement de la Singularité, Paris, Textuel, 2024, p. 88) che cita anche il film distopico They Live di John Carpenter (1988), in cui sette giovani a passeggio, a ogni battito di ciglia degli spettatori, incarnano la parola OBEY. «Deve essere intelligenza artificiale – dice un esperto – gioco da bambini. Si chiede “raffigura la parola OBEY in forma di fila di giovani” e “semplicemente” lo fa, combinando due immagini con i giovani sovrapposti alla parola» (ivi, p. 75). ChatGPT invece elabora «sintesi di qualità eccellente. Tanto superiori a ogni altra da far dubitare che davvero non vi sia in esse nulla di nuovo come, disarmante, ChatGPT stesso ripete» (ivi, p. 21). Come le ruote di pietra di B.C., OBEY e ChatGPT coesistono.

 

Le recenti elezioni francesi ricordano a Daniel Lacerda, ricercatore di organizzazione, gli anni di lavoro in Brasile. «Sfruttando il deficit di governo democratico in occidente, in politica i movimenti di estrema destra sono emersi negando la politica» (ibid.). Il lavoro di centinaia professori su Facebook era inefficace, per due ragioni. «In primo luogo, col suo approccio metodico alle reti sociali, l'estrema destra ha finito col rendere inudibili i nostri argomenti fondati sulla costruzione logica. In secondo luogo, combattendo sul terreno delle idee abbiamo costatato che l'estrema destra acquisiva potere agendo sull'affettività, tecnica nota in filosofia politica. Costruire discorsi sulle reti sociali è un importante motore di cambiamento: la vittoria politica si decide ben prima di quella elettorale». (Les réseaux sociaux sont une arme politique de destruction massive, in «Le Monde», 2 agosto 2024, on line). «Perciò la risposta politica deve comunicare la passione della eguaglianza, la fierezza della realizzazione di base, la gratitudine per il sistema sanitario pubblico universale e il fondamentale bisogno di rispetto dell'altro» (ibid.). Altrimenti prevale l'influencer politico. Come constatiamo.

 

È l'innovazione che le destre stanno importando in Europa con la stessa tecnica, il richiamo della foresta: la «sensazione di vedere il mondo dall'alto, nel suo insieme; ma questo dà anche un senso di solitudine e insicurezza» (E. Detti, London Jack, in Enciclopedia dei ragazzi, Roma, Treccani, on line). Solitudine e insicurezza che la politica può produrre svilendo istruzione, salute, sicurezza, giustizia. La parola d'ordine – “Vendere! (e venderemo!)” – è la stessa dei grandi gruppi economici che oggi «si indebitano per pagare buy back e maxi dividendi. Per tener fede alle promesse fatte agli azionisti, decine di grandi gruppi devono far ricorso ai prestiti» (A. Cicognani in «la Repubblica», “A&F”, 5 agosto 2024, p. 8). Di più: «siamo proprio sicuri che l'intelligenza artificiale ce la possiamo permettere? Rischia di bruciare centinaia di miliardi di investimenti per ottenere risultati tutto sommato modesti. E le aziende elettriche di tutto il mondo non sono in grado di moltiplicare le infrastrutture per produrre l'energia necessaria» (M. Ricci, ivi, p. 12). Vendere, a tutti i costi, altrui.

 

Storicamente e politicamente, tuttavia, in Europa «la giustizia sociale non è un di più d'anima per idealisti di buon cuore, ma garanzia di stabilità per politici realisti. Per dirla nei termini maleodoranti usati da Francis Bacon nel XVII secolo nel capitolo degli Essay consacrati a tumulti e sedizioni: “Il governo deve soprattutto prendere misure atte a impedire che tutto il denaro di un paese si accumuli in un piccolo numero di mani: […] il denaro e il concime non danno frutto se non quando si ha cura di spargerli”, ci ricorda Alain Supiot, professore emerito al Collège de France (La justice au travail, Paris, Seuil, 2022, p. 14). Due guerre mondiali in una generazione hanno ricondotto l'Europa su questa via di civiltà con il mercato unico e l'Unione Europea, unico governo di scala globale intento a disciplinare fiscalmente le imprese multinazionali e politicamente gli influencer globali, eredi dei think-tank neoliberali dopo la fine della fine della storia.

 

«Giustizia presuppone terzietà. Non ha dunque posto nell'immaginario numerico contemporaneo che è binario e al regno della legge tende a sostituire la governance tramite i numeri» (ivi, p. 20). «Orizzonte del politico, la giustizia è al contempo un limite da osservare e il segno di un oltre, di un dover-essere al quale tendere. V'è in questo senso un impegno costante e perpetuo: è in questo senso che la giustizia è sempre al lavoro. Una delle novità dello Stato sociale inventato nei paesi democratici nel XX secolo è averne preso atto» (ivi, p. 21). «Libertà sindacale, diritto di sciopero e negoziazione collettiva sono altrettanti meccanismi che consentono di convertire rapporti di forza in rapporti di diritto, nella ricerca per tentativi e mai conclusa della giustizia. Sono i tre pilastri della democrazia economica e sociale senza i quali la democrazia politica non può che deperire. I regimi totalitari hanno in comune di proscrivere queste libertà collettive, come altrettanti ostacoli allo stabilirsi di un ordine reso spontaneamente giusto dalla lotta di classe o di razza. Questo miraggio di una giustizia spontanea, che l'esperienza delle atrocità della Seconda Guerra mondiale aveva dissipato, è riapparso dopo quarant'anni con la globalizzazione neoliberale» (ivi, pp. 21-22). È cronaca.

 

Che le regole vadano fatte rispettare lo ricordava già negli anni Settanta BC, steso da una randellata mentre, vittorioso in un duello preistorico, urla Touché!. Col miraggio di una giustizia spontanea, «nel 2015, tutte le nazioni del mondo si sono accordate su una Agenda 2000 che assegna loro 17 obiettivi di sviluppo durevole, declinati in 169 realizzazioni, la cui misura è affidata a una batteria di 244 indicatori di performance» (ivi, p. 23). «Sparisce così tutto l'orizzonte politico rimpiazzato da una concezione puramente manageriale di conduzione degli affari umani. Si realizza la profezia millenarista di “fine della storia” e “scomparsa del miraggio della giustizia sociale£, a favore di un ordinamento gestionale, spontaneamente giusto e senza alternative» (ivi, p. 24). Touché!

 

«Il rap è l'unico ascensore sociale che funziona bene in Italia» spiega infatti Paola Zukar a Paolo Bricco. «Non esiste un altro settore economico o culturale in cui arrivi in cima con la semplicità del mercato e il riconoscimento generale che ha oggi chi fa rap» (in «Il Sole 24 ore», 11 agosto 2024, p. 10). Il dato positivo nell'Italia delle piccole e medie imprese familiari, è che «non si possono infatti avere imprese di successo senza prima avere imprenditori di successo» (F. Sattin, Più search funds per le imprese, in «Il Sole 24 ore», 25 agosto 2024, p. 12). Conta il fattore umano, nel rap in particolare.

 

Fattore umano fondamentale anche per l'esperto di IA Paul Jorion, già citato, che ripropone la «“tassa Sismondi” sul lavoro delle macchine, dal nome del filosofo svizzero Jean Charles Léonard de Sismondi (1773-1842), che nei primi anni del XIX secolo propose che ogni lavoratrice o lavoratore rimpiazzato da una macchina beneficiasse a vita di una rendita ricavata dalla sua produzione» (La machine à concentrer la richesse, in «Le Monde», 6 febbraio 2012). Chiave di volta del nostro futuro personale e globale, il lavoro non è una merce.

 

 

 

«Il lavoro non è una merce», ribadisce Alain Supiot (Le travail n'est pas une marchandise. Contenu et sense du travail au XXI siècle, Paris, Éditions du Collège de France, 2019). «Facendosi progressivamente carico dei compiti calcolabili e programmabili, l'informatica ci obbliga a ripensare l'articolazione del lavoro di uomini e macchine. Se le utilizziamo invece di identificarci in esse, le macchine possono permetterci di concentrare il nostro lavoro umano sull'incalcolabile e in-programmabile, vale a dire sulla parte propriamente poietica del lavoro, che suppone una libertà, una creatività e un'attenzione all'altro di cui nessuna macchina è capace. Nell'impresa informatizzata, il lavoro mentale non è più monopolio dei dirigenti. È distribuito fra tutti i lavoratori, da cui ci si attende responsabilità e iniziativa, e possono e devono direttamente collaborare quale che sia il loro posto nella catena di comando» (ivi, pp. 18-19). È «accoppiamento tra capacità inventive e organizzative di tutti i collaboratori aziendali». «Questo accoppiamento richiede che la funzione dirigente non sia più una funzione di potere, ma diventi una funzione di autorità. Mentre il potere si esprime dando ordini, l'autorità si manifesta conferendo legittimità all'azione. A differenza di un rapporto di dominazione, un rapporto di autorità suppone da parte di chi lo esercita che sia lui stesso a servizio di un'opera che trascende il suo interesse individuale e in cui si possano identificare tutti coloro che vi lavorano» (ivi, p. 19).

 

È «un'occasione storica per stabilire, al di là del lavoro salariato, ciò che la Costituzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, nella sua versione francese, denomina, “un regime di lavoro realmente umano”. Tutto il contrario dunque di un'altra profezia millenaristica neoliberale, quella della “fine del lavoro”» (ivi, p. 20).

 

La nuova rivoluzione tecnologica, “senza precedenti” come le precedenti, conferma la centralità del lavoro, incluso quello istituzionale di garantire la terzietà di governo secondo giustizia degli affari umani. Oggi in particolare, dovendo constatare con Nicola Gratteri e Antonio Nicaso (magistrato e storico delle organizzazioni criminali), come «spesso a plasmare l'agire mafioso sia la criminalità economica e non il contrario», mentre, «senza le collusioni con la politica, l'imprenditoria e la finanza, a cui offrono continuamente servizi e da cui ottengono consenso e legittimità, le mafie sarebbero come pesci fuor dall'acqua» (Il grifone. Come la tecnologia sta cambiando il volto della 'ndrangheta, Milano, Mondadori, 2023, p. 146).

 

Lavoro, tecnologia e politica cambiano, sempre. Mentre il trasporto aereo dava letteralmente ali alla globalizzazione, nel 1965 a Vienna lo storico della Sorbona Alphonse Dupront rifletteva sul nostro percorso di permanente apprendimento nel XII Congresso internazionale di scienze storiche (L'acculturazione, Torino, Einaudi, 1966). «La nozione di “acculturazione” si sviluppa in America ai margini della letteratura etnologica negli anni difficili in cui va preannunziandosi la crisi mondiale del 1929» (ivi, p. 33). «Due culture o due civiltà sono presenti. La loro interreazione – tutto ciò che esprime il prefisso ad – è acculturazione. Fenomeno bruto, “esistenziale” e quasi elementare dell'acculturazione» (ivi, pp. 35-36). Anche allora, come oggi e sempre, «non meno della smisuratezza può turbarci il campo chiuso dello scontro: c'è il forte e c'è il debole» (ivi, p. 37).

 

«Nel momento di un tempo storico che si esprime innanzitutto nella diversità babelica del mondo e nel quale va affermandosi il potere dominante dell'elettronica, quando dunque proliferano lingue storiche o naturali e lingue artificiali, intermediarie fra la macchina e l'uomo, la nostra disciplina della comunicazione – essa stessa un'ascesi – dev'essere la probità del significato» (ivi, p. 86) perché, «tanto le forme di acculturazione che procedono dall'attrezzatura tecnica sono silenziose, come imperiose e rapide» (ivi, p. 105). «Frutto di acculturazione per esempio sono gli stereotipi nazionali, questi clichés mediante i quali, in un'Europa ancora molto nazionale, ci proibiamo l'approccio con l'altro» (ivi, p. 106). «È in verità diabolico e fonte di tanti mali che il commercio fra popoli e nazioni sia fatto più di contrazioni sclerotizzate che di aperture» (ivi, p. 107). Infatti.

 

«Né certamente vanno confusi mezzi di comunicazione – tutti attualmente strumenti condizionatori – e comunicazione, che è coscienza di comunità e prescienza di comunione. E che la comunicazione sia nel cuore stesso dei nostri problemi vitali può illustrarlo l'esempio del Vaticano II, in cui candidamente, con mentalità da chierici romani, il latino fu posto fin dal principio come unica lingua nell'aula conciliare e fu necessario ben presto riconoscere, senza riuscire a portarvi completamente rimedio, che l'episcopato universale non era capace di intendere nel corso delle sedute sui problemi più ardui della teologia e del nostro tempo, la lingua della sua liturgia». (ivi, p. 129) «Come una lingua veicolare può servire soltanto da comunicazione superficiale, per fraintendere, la realtà di culture radicate, veementi e irradianti, non permette la fruizione di una media. Per la ricchezza del domani, ci sia risparmiato un homo basicus, ma si esplorino instancabilmente tutte le vie per intendere, per far passare all'altro e per ricevere da lui» (ivi, pp. 129-130).

 

L'homo basicus oggi bersaglio degli influencer di stato e mercato, mentre, «oggi come ieri la chiave di volta di questa architettura è lo statuto accordato al lavoro» (Il lavoro non è una merce, cit., p. 22). «Mi vergogno quasi di dover ricordare questi dati elementari». «La nozione di “capitale umano” è così divenuta, con quella di impiego, il paradigma a partire dal quale si affronta la questione del lavoro. La presunta scientificità di questo concetto è stata consacrata dal premio “Nobel d'economia” Gary Becker, ma si dimentica che il suo primo inventore fu Stalin e che il solo significato rigoroso che si possa dare al capitale umano si trova all'attivo del libro dei conti dei proprietari di schiavi» (ivi, pp. 23-24). Al contrario, «l'oggetto proprio delle scienze umane è l'enorme apparato simbolico, tecnico e linguistico di cui si è dotata la specie umana» (ivi, p. 55).

 

«Di fronte al fallimento morale, sociale, ecologico e finanziario del neoliberalismo, l'orizzonte del lavoro al XXI secolo è quello dell'emancipazione dal regno esclusivo della merce. La via dell'avvenire non è asservire il lavoro degli uomini alle macchine sopposte intelligenti, ma di stimolare e coordinare le loro capacità inventive e organizzatrici, vale a dire accordare loro una libertà nel lavoro» (ivi, p. 57).