Due pesi e due misure

di Paolo Patrizi

Data di pubblicazione su web 24/08/2024

Ermione

La più sperimentale, audace e incompresa delle opere di Rossini messa faccia a faccia, a quarantott’ore di distanza, con una delle partiture più passatiste e meno arrischiate del compositore. È un percorso stimolante, quello che propone il Rossini Opera Festival di Pesaro, avvantaggiato quest’anno da un surplus di fondi (la città marchigiana è Capitale italiana della cultura) che ha consentito un calendario più ricco del solito: sicché a Ermione e Bianca e Falliero – sono questi i due titoli antitetici – si affiancano opere buffe, musica sacra, concerti vari. Sull’incomprensione di Ermione pesò il giudizio liquidatorio di Stendhal: troppo invischiato nella propria personale esegesi rossiniana per ammettere un Rossini occhieggiante al dramma musicale gluckiano e alla tragédie lyrique d’oltralpe; troppo innamorato dell’opera italiana tradizionalmente intesa, come ogni francese che vuol prendersi il merito d’aver sdoganato qualcosa di forestiero, per accettarne un deragliamento stilistico; forse anche troppo romantico, per lasciarsi soggiogare da un’opera neoclassica nell’involucro e riallacciata ai tragici greci nella sostanza. Eppure, se di quell’aureo gruppo di opere scritte da Rossini per Napoli – tutte caratterizzate da azzardi stilistici e avanguardismi linguistici – solo Ermione non riuscì a sopravvivere, qualcosa che travalicava la scarsa lungimiranza critica mostrata da Stendhal doveva pur esserci.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

La partitura infatti era davvero troppo avanzata, per i contemporanei come per i posteri: una vocalità elusiva di qualsivoglia suggestione belcantistica (motivo, quest’ultimo, che lasciò Ermione ai margini pure della Rossini renaissance nell’ultimo ventennio del secolo scorso), spostata verso un canto declamatorio capace di rievocare accenti e colori della tragedia recitata; strutture spiazzanti (una Sinfonia dove si fa strada un coro) e, comunque, deludenti ogni tradizionale aspettativa (lo spettatore cercherà invano anche un solo duetto d’amore); una drammaticità violentissima, poi mai più tentata dall’illuminista Rossini, che la severità dell’involucro neoclassico non infirma ma esalta. E che in quello stesso 1819 in cui Ermione fu composta vedesse la luce pure l’arcaicizzante Bianca e Falliero è sintomatico dell’eclettismo, piuttosto che della contraddittorietà, di Rossini; ma soprattutto la dice lunga sul suo pragmatismo: consapevole che il pubblico della Scala – destinatario dell’opera – era molto più conservatore di quello del San Carlo, confezionò un melodramma con le lancette dell’orologio rivolte all’indietro, nel belcantismo gravido di abbellimenti come nella stilizzazione quasi archetipica dei personaggi. I risultati, là per là, diedero ragione al lavoro milanese, accolto assai meglio del napoletano. Poi pure su Bianca e Falliero discese l’oblio: forse ingiusto anch’esso, ma certo non così immeritato come quello dell’Ermione.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Lo spettacolo pesarese pone le basi per una rilettura moderna e consapevole, capace di restituire Ermione nel suo ruolo di unicum nel catalogo rossiniano e sottoporla ad angolazioni sfuggite non solo ai nostri nonni, ma anche ai nostri fratelli maggiori. Merito soprattutto della regia di Johannes Erath, che, visibilmente interessato più alla fonte indiretta (Euripide) che a quella diretta (Racine) dell’opera, scava nel profondo dei personaggi scandagliando l’inconscio di Ermione e Andromaca, di Pirro e Oreste: il loro corpo a corpo con le ombre del passato, le devastanti insicurezze o la virulenta hybris che di volta in volta ne deriva, il bisogno d’amore puntualmente disatteso e destinato a convertirsi in epifania dell’odio. Lo stesso slittamento di prospettiva voluto da Rossini, che trasforma Ermione da antagonista a protagonista (Euripide e Racine intitolano le loro tragedie ad Andromaca), sollecita questo tipo di lettura: essere la figlia della donna più bella del mondo – Elena di Troia – è un fardello non da poco per qualunque creatura di sesso femminile ed Ermione, sembra suggerire Erath, ne resterà schiacciata così come Pirro soccomberà al retaggio paterno di Achille. O come vi soccomberà Oreste, destinato a fare i conti con il padre Agamennone fino al parricidio.

Elena aleggia dunque come una lontananza sempre presente: assente sul palco, ma evocata da una silhouette in riva al mare proiettata sugli schermi ai lati della scena. Così come destinato a rivivere in proiezione è l’altro grande fantasma, quello di Ettore: già ucciso all’alzarsi del sipario e sempre vivo nel ricordo di Andromaca; ed è struggente il suo dileguarsi nel momento in cui la moglie sembrerebbe tradirne la memoria, cedendo alle profferte di Pirro. Che si tratti in realtà d’uno stratagemma per salvare il figlio Astianatte, è noto allo spettatore: e proprio Astianatte fanciullo è il terzo personaggio restituito sullo schermo, mentre si balocca con un cavallo a dondolo. Salvo scagliare lontano quello stesso giocattolo quando esso si rivela – idealmente – un ordigno bellico. Il cavallo di Troia, appunto.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Sulla scena, però, quel bambino non lo vediamo, giacché l’infanzia gli è stata rubata dalla guerra: in palcoscenico agisce – incappucciato come un prigioniero dei tanti conflitti mediorientali di oggi – un uomo, ancorché giovane. Così come la guerra, e il lutto che ne è derivato, ha depredato la gioventù di Andromaca, che qui appare sfioritissima: improponibile, all’apparenza, come rivale di Ermione, a conferma che in quest’opera ogni apparenza viene delusa. Infine, un Cupido la cui freccia non va mai a segno, e destinato nell’epilogo a fare da vera vittima sacrificale della vicenda, completa l’ampliamento delle dramatis personae escogitato da Erath; e tutto questo è incastonato in una serie di tableaux vivant al contempo astratti (luci al neon di Fabio Antoci) e dark (costumi di Jorge Jara), tra tavole imbandite e proiezioni di una sala teatrale: evocazioni d’una sfrenatezza quasi bulimica e d’una civiltà dell’apparire, che attanagliano soprattutto i due protagonisti maschili.

La direzione di Michele Mariotti appare meditata, ma meno sperimentale ed estrema – meno “ermioniana”, verrebbe da dire – rispetto alla lettura registica. Ci troviamo indubbiamente di fronte a una bacchetta con una sua consolidata idiomaticità rossiniana: è però un Rossini, quello di Mariotti, incline più al fraseggio orchestrale limpido e disteso che a sottolineare le spigolosità della partitura, e propenso a valorizzare il canto spiegato anziché quel “recitar cantando” ai confini del “cantar parlando” che infastidì Stendhal. Il cast, comunque, trae indubbi vantaggi dal suo accompagnamento: il Pirro di Enea Scala resta l’anello debole per l’emissione scompaginata e certe incontrollate disomogeneità (fisiologiche in una scrittura baritenorile, ma un baritenore che ripiega sul falsetto non rientra nelle regole del gioco), fermo restando però che con un direttore meno vigile avrebbe rischiato un autentico naufragio. E anche Juan Diego Flórez – latore d’una prova di ben altra saldezza musicale, ma ormai lontano dagli anni in cui era un tenore fenomenale e prodigioso – risolve Oreste grazie a qualche assennato accomodamento proveniente dal podio.


Un momento dello spettacolo
© Amati Bacciardi

Ottimo stile e grande tecnica abbinate a un certo appannamento dei mezzi caratterizza pure l’Andromaca di Victoria Yarovaya, mentre Anastasia Bartoli cattura lo spettatore grazie a un canto voluminoso e risonante, un’emissione tagliente e stilettata, una femminilità oscura e pervasiva. Per essere un’Ermione ideale le manca quella dizione perfetta che restituisce ogni sillaba d’un melodramma dove musica e parola convivono in simbiosi, ma anche così domina incontrastata il palcoscenico. Meglio ancora – se possibile – fanno solo i comprimari: Pilade, Fenicio e Cleone qui diventano una sorta di alter ego, o cattiva coscienza, dei protagonisti e Antonio Mandrillo (ottimo “terzo tenore”, che in Rossini vuol dire spesso tenore non di secondo piano), Michael Mofidian (basso di gran talento istrionico) e Martiniana Antonie (voce con i crismi del vero contralto rossiniano) si prestano al disegno registico con la duttilità degli autentici artisti.

La più convenzionale Bianca e Falliero avrebbe necessitato invece d’uno spettacolo che puntellasse, magari aprendo una finestra nuova, certe debolezze dell’opera. Roberto Abbado, al contrario, vi ha talmente creduto da renderle un cattivo servizio: una direzione che, restituendo compitamente ogni paratattico ingrediente della partitura, risulta calligrafica, esornativa, talvolta perfino maccheronica nel sottolineare – in tutt’altro contesto – certe reminiscenze del Rossini buffo. Jean-Louis Grinda appronta una regia fintamente moderna, con qualche azzardo simbolico, in realtà del tutto prevedibile e innocua. Aya Wakizono manca dei desiderata vocali per sostenere un rutilante ruolo di contralto en travesti e pure due fuoriclasse come Jessica Pratt e Dmitry Korchak non appaiono, qui, utilizzati al meglio.

Ermione

Cast & Credits

Trama



Un momento dello spettacolo visto il 9 agosto 2024 al Vitrifrigo Arena di Pesaro 
© Amati Bacciardi



Cast & credits

Titolo 
Ermione
Origine 
Italia
Anno 
2024
Durata 
I Atto: 1 h 25; Intervallo: 20 min; II Atto: 1 h
Data rappresentazione 
9 agosto 2024
Città rappresentazione 
Pesaro
Luogo rappresentazione 
Vitrifrigo Arena
Prima rappresentazione 
9 agosto 2024
Evento 
Rossini Opera Festival 2024
Titolo testo d'origine 
Andromaque
Libretto 
Andrea Leone Tottola
Autori testo d'origine 
Jean Racine
Regia 
Johannes Erath
Interpreti 
Martiniana Antonie (Cleone)
Anastasia Bartoli (Ermione)
Juan Diego Flrez (Oreste)
Paola Leguizamn (Cefisa)
Antonio Mandrillo (Pilade)
Michael Mofidian (Fenicio)
Enea Scala (Pirro)
Tianxuefei Sun (Attalo)
Victoria Yarovaya (Andromaca)
Scenografia 
Heike Scheele
Costumi 
Jorge Jara
Luci 
Fabio Antoci
Musiche 
Gioachino Rossini
Orchestra 
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Direzione d'orchestra 
Michele Mariotti
Coro 
Coro del Teatro Ventidio Basso
Maestro del coro 
Giovanni Farina
Note 
Video: Bibi Abel

Trama

Atto primo

Pirro, figlio di Achille e re dell’Epiro, malgrado abbia promesso la propria mano ad Ermione, figlia di Menelao, si è invaghito della prigioniera troiana Adromaca, vedova di Ettore. All’inizio dell’opera, in un sotterraneo, i prigionieri troiani rammentano la grandezza della patria e lamentano la loro sventura. Giunge Andromaca, accompagnata da Attalo e Fenicio. Le è concesso trascorrere qualche istante col figlio Astianatte. Attalo le consiglia di deporre il lutto e di pensare ora all’avvenire del figlio, ma è interrotto da Fenicio che ha ben compreso che Attalo intende secondare l’amore di Pirro per Andromaca, un amore inviso ai Greci e dal quale non potrà derivare altro che una nuova guerra. 

All’esterno della reggia le donzelle invitano Ermione a godere della caccia, tuttavia la Principessa è in preda alla gelosia. Quando giunge Pirro gli rimprovera il suo amore per Andromaca e minaccia vendetta. Ma Pirro non è avvezzo a tremare, anche se è turbato dall’annuncio dell’arrivo di Oreste, messaggero dei Re di Grecia. Nella reggia Oreste ha un solo desiderio: rivedere Ermione, che ama invano da tempo, ma Pilade lo invita a frenarsi e a pensare piuttosto al compito che la Grecia gli ha affidato. Entra Pirro col suo seguito e con grande ira di Ermione invita Andromaca a sedere tra i Grandi. Oreste espone l’ambasciata: i Re della Grecia vogliono la morte del piccolo Astianatte perché da quel virgulto non risorga la potenza di Troia. Pirro respinge la richiesta e manifesta anzi pubblicamente il suo amore per Andromaca e l’intenzione di sposarla. All’esterno della reggia Cleone consiglia a Ermione di affidare a Oreste la vendetta. Quando Oreste le esprime il suo amore, Ermione non sa ancora decidersi, eppure lo accoglie benevolmente. Rientra Pirro col suo seguito. Poiché Andromaca, fedele alla memoria di Ettore, rifiuta la sua mano, ha deciso di consegnare Astianatte ad Oreste e di riconciliarsi con Ermione. Ma quando le guardie conducono Astianatte, l’amore materno ha il sopravvento su Andromaca che supplica Pirro di concederle un ripensamento. Pirro ne è felice, mentre costernazione e furore dominano gli animi di Ermione e di Oreste.

Atto secondo

Nell’atrio della reggia Pirro accoglie con gioia l’annuncio che Andromaca acconsente finalmente a divenire sua sposa e ordina che si appresti il rito. In realtà Andromaca vuole che Pirro giuri sull’ara la salvezza di Astianatte, poi si darà la morte. Intanto Ermione è preda di opposti sentimenti: l’amore per Pirro, il desiderio di morire, quello della vendetta. Quando passa il corteo nuziale di Pirro ed Andromaca, in preda all’ira, invita Oreste ad uccidere il traditore. Subito si pente e il suo animo si piega ancora al perdono. Invano, perché Oreste le si presenta col pugnale intriso del sangue di Pirro. Sconvolta, Ermione lo rimprovera di non aver compreso i suoi veri sentimenti e prima di accasciarsi al suolo svenuta, invoca le Erinni che puniscano l’autore del misfatto, mentre Pilade e i suoi trascinano Oreste verso la nave per sottrarlo all’ira del popolo.