Pioniere nel portare uno spicchio
dEuropa nella vita culturale degli States (poi arriveranno Stravinsky, Schönberg, Weill e tanti
altri, compreso Thomas Mann), Puccini non vi giunse né da
colonizzatore né da “condannato al paradiso”, per usare lespressione con cui,
un quarto di secolo dopo, sindicheranno gli intellettuali e gli artisti che
per motivi politici o razziali sinstallarono oltreatlantico, accolti da un Nuovo
Mondo che sapeva ben ripagarli pure finanziariamente. Si limitò a visitare
lAmerica e riproporla con i propri occhi: come poi fece Vittorini in letteratura, o Sergio
Leone nel cinema. Su questultimo punto insiste Valentina Carrasco nel
portare in scena a Torino La fanciulla del West, opera con cui
Puccini avviò, musicalmente parlando, il suo “viaggio americano” (première a New York, 1910: quando, otto
anni dopo, vi tornerà con il Trittico
non sarà più per raccontare la “sua” America, ma per ricostruire la Senna del Tabarro e la Firenze dantesca dello Schicchi). Anzi, la matrice
cinematografica viene sottolineata dalla regista argentina con tale
didascalismo che lambientazione della Fanciulla
– la California negli anni della febbre delloro – qui viene trasformata in un set dove, attorniato da tecnici zelanti
e una segretaria di edizione un po isterica, si aggira un cineasta occhialuto
e corpulento che sembra proprio il sosia dellautore di Per un pugno di dollari.
Nello spettacolo torinese, questa
sorta di equazione tra Puccini e Leone (luno sdoganatore del western quando il genere,
cinematograficamente parlando, era ancora agli incunaboli, laltro suo
rigeneratore “allitaliana” nel momento in cui il filone andava esaurendosi) è
portata avanti con tale acribia da essere preannunciata prima ancora che
lopera cominci: le note che ascoltiamo allalzarsi del sipario non sono quelle
pucciniane, ma dellarmonica a bocca suonata in Cera una volta il West, i cui fotogrammi scorrono su un grande
schermo – che nel corso dello spettacolo restituirà poi molti primi piani dei
cantanti – campeggiante nella parte alta della scatola scenica disegnata da Carles Berga e Peter van Praet.
Daltronde, sembra suggerire la Carrasco, chi è stato il più pucciniano dei
musicisti cinematografici se non Ennio
Morricone, autore delle colonne sonore di tutti i film di Leone? La storia,
dunque, viene filmata lungo tutto il suo divenire: e dalla troupe cinematografica scaturisce una sorta di vicenda parallela,
comprese divagazioni ora politicamente impegnate ora caricaturali (quando è di
scena la squaw Wowkle viene alzato il
cartello “Native lives matter”), che raffredda lazione e rende un po
cerebrale limpianto.
Una scena dello spettacolo © Daniele Ratti
Tuttavia, al netto di questo, è
proprio lassunto cinematografico di base – in sé talmente ovvio da apparire
scontato – a convincere solo in parte: del vero western Puccini conserva (o anticipa) la sensibilità
coloristico-paesaggistica, il tema della ribellione e quello della natura, ma
la mano e locchio sono tuttaltri. Resta fermo, infatti, che nelle opere
pucciniane lo scenario geografico – dal Giappone di Butterfly alla Cina di Turandot
– non diventa un reale soggetto drammaturgico e si trasforma in pura “chiave di
lettura”, oltretutto in senso assai più trasfigurato che veristico. Puccini,
insomma, ha bisogno di rileggere i luoghi piuttosto che raccontarli, la sua è
una capacità dosservazione formidabile ma tuttaltro che oggettiva; e il Far
West da lui messo in musica è quello letto con gli occhi dun benestante
europeo, che ha appena fatto il proprio Viaggio Americano. Del realismo
cinematografico non cè nulla.
Poi, certo, in unopera così
densa di personaggi e ricca di dettagli che nella visione a distanza imposta
dal palcoscenico rischiano di perdersi, è un vantaggio poter contare su uno
schermo: restituisce le espressioni stupefatte dei minatori, il volto
sofferente di Johnson ferito, il mazzo di carte sostituito artatamente da
Minnie durante la partita a poker (lode al lavoro di Gianluca Mamino,
direttore della fotografia). Tuttavia, rimane il divario tra licasticità
filmica della Carrasco e la drammaturgia musicale di Puccini, che lambiente western lo utilizza solo come esercizio
di stile; e se a tale discrasia di fondo aggiungiamo alcune incongruenze
(perché, in tale messinscena incanalata su binari cinematografici, quei cavalli
di legno che suonano come un omaggio alla finzione teatrale?), alla fine
lunico tassello incondizionatamente apprezzabile dellallestimento restano i
costumi di Silvia Aymonino. Una scena dello spettacolo © Daniele Ratti
In questopera dove è lorchestra
– intesa non solo come evocazione paesaggistica, ma personaggio collettivo – a
raccontare, descrivere, dialogare perfino (nella partita a poker il canto cede
al parlato e lansia, la tensione, la paura sono tutte nelloboe e nei
contrabbassi), il ruolo della bacchetta è risolutivo come non mai. La scarsa
fortuna esecutiva della Fanciulla del
West sta anche nello sparutissimo numero dei grandi direttori che lhanno
affrontata (Toscanini, De Sabata,
Mitropoulos, Maazel, Mehta, Chailly, davvero pochi altri) e Francesco Ivan Ciampa non ha la pretesa
di entrare in tal novero: tuttavia si dimostra narratore scorrevole, forse
sensibile più al versante drammatico che a quello lirico – le voci talvolta
risultano un po sovrastate dagli strumenti – ma consapevole nel dipanare un
tessuto sinfonico-vocale, prima che operistico. Lorchestra del Teatro Regio
risponde bene, così come puntuale è il coro, e pure i circoscritti involi
melodici che Puccini concede vengono onorati con giusta flessibilità. Dispiace
invece qualche taglio (ma in passato si sono date Fanciulle ben più sforbiciate), dovuto probabilmente a ragioni di budget: utilizzare lo stesso interprete
per il baro Sid e lindiano Billy ha imposto, nel primo atto, la soppressione
di questultimo personaggio. Ne ha scapitato quella dialettica
tensione-distensione che è uno degli ingredienti primari della plasticità di
questopera, nonché la possibilità di un più pieno utilizzo di quel grande
schermo che serviva proprio a enfatizzare le tante “microstorie” incastonate
allinterno della vicenda principale.
Una certa frettolosità nel dare
giusto rilievo a ciascun comprimario – Puccini li pennella ad arte tutti, dai
minori ai minimi – è invece un limite del Ciampa concertatore. Peccato, perché Gustavo Castillo si dimostra voce baritonale interessante nel canto
nostalgico di Wallace; Paolo Battaglia intuisce, nei panni
dellagente assicurativo Ashby, come imprimere un tocco di affettazione in
quellambiente rude di minatori; Francesco
Pittari restituisce tutta la premurosità e la discrezione di Nick; Tyler Zimmerman dà voce alla crisi isterica di Larkens senza bisogno di
eccedere in sottolineature. Convince meno, per un personaggio generoso e
violento qual è Sonora, lutilizzo di un baritono buffo come il pur talentoso Filippo Morace (anche se certi suoi primi piani restano impagabili), mentre
Eduardo Martinez figura meglio nelle vesti di Sid che in quelle di Billy. I
ruoli di Bello e Harry – altro accorpamento – vengono qui entrambi sostenuti da
Alessio Verna, ottimo artista che in tali fugaci apparizioni ha poco modo
di figurare, così come non lascia grandi tracce Ksenia Chubunova
nellunico comprimariato femminile, quello dellindiana Wowkle.
Una scena dello spettacolo © Daniele Ratti
Restano i tre protagonisti. Il
bandito buono Johnson e lo sceriffo cattivo Rance trovano incarnazione
piuttosto convenzionale da un lato nella tenorilità generosa e un po
disordinata di Roberto Aronica, dallaltro nelleccessiva
truculenza – peraltro supportata da una salda timbratura – di Gabriele Viviani, imbrigliato in un cliché
da baritono malvagio che non rende giustizia fino in fondo al personaggio. Di
più sorvegliata civiltà vocale la Minnie di Jennifer Rowley: in
affanno nelle puntature siderali – non a caso previste sulle parole «stelle» e
«cielo» – imposte dalla scrittura pucciniana, nonché talvolta schiacciata
dallorchestra quando la voce deve scendere, ma con tutte le carte in regola
quanto a ritmo, intonazione, fraseggio (unefficace sintesi di femminilità e
ardimento). Insomma «fieramente verginale», come prescrive il libretto. Quasi
una Brunilde uscita dalla penna di Puccini.
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