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La Bibbia del Risorgimento

di Paolo Patrizi
  Nabucco
Data di pubblicazione su web 22/12/2023  

Tassello centrale di una Trilogia d’autunno sotto il segno di Riccardo Muti (aperta con il Bellini di Norma, chiusa da un nazionalpopolare Gala Verdiano), il Nabucco presentato al Teatro Alighieri di Ravenna delinea una volta per tutte l’evoluzione del rapporto di questo grandissimo direttore con il primo capolavoro di Verdi: rapporto che dura ormai da quasi mezzo secolo – già le recite fiorentine del 1977, tra l’altro coincidenti con la più illuminante regia operistica di Luca Ronconi, rappresentarono un punto di svolta nell’interpretazione di questa partitura – e probabilmente giunto ora ad un’esaustività non più oltrepassabile, che l’ascolto ravvicinato con Norma consente anche allo spettatore di scandagliare ulteriormente. Giacché se Muti, oggi, del melodramma di Bellini sottolinea soprattutto quella “melodia infinita” che ne fa un poema per voci e orchestra più che un caposaldo del belcanto, del Nabucco adesso scorge soprattutto la dimensione oratoriale: che entrambi i titoli siano stati rappresentati in forma semiscenica (proiezioni in luogo di scenografie, cantanti al leggìo, solo i coristi in costume) non è eloquente soltanto del cattivo rapporto che Muti, da qualche tempo, ha con i registi, ma è la naturale conseguenza di una lettura sempre più “strumentale” e sempre meno “teatral-vocale” delle due opere. 


Una scena dello spettacolo
© Zani-Casadio

Certo, è naturale che il Muti ottantenne di Ravenna concepisca un Verdi più pensoso e meno barricadero, più disteso e meno fremente rispetto al Muti trentenne di Firenze. Resta tuttavia, allora come ora, un punto fermo: del Nabucco (o Nabucodonosor che dir si voglia, e già la doppia dizione è sintomatica di una natura bifronte) la storia dell’interpretazione ci dà conto di due possibili punti di vista, incanalabili – a prezzo di una relativa semplificazione, ovvio – l’uno nel filone biblico, l’altro in quello risorgimentale. Il che, come corollario, implica da una parte concertazioni sensibili soprattutto alla fisionomia del dramma corale e al peso determinante delle masse; mentre dall’altra troviamo letture musicali che concedono di più ai singoli personaggi o, comunque, alla dimensione vocalistica. Non c’è dubbio che Muti si schieri con i primi; e non solo perché, al pari del Toscanini della vecchiaia, adesso preferisce aver a che fare con cantanti giovani – magari acerbi, ma ligi nel farsi plasmare – anziché con divi dello star-system. A imporre una precisa scelta di campo (o, in alternativa, un salomonico bilanciamento) è la stessa dialettica canora sottesa da Verdi: incline alla dimensione declamatoria quando sono di scena il “sacro” e il “politico”, più propensa invece ad adagiarsi sull’arioso – non senza qualche affondo tardobelcantistico – quando i personaggi si aprono i sentimenti. E Muti resta attratto soprattutto dal primo dei due versanti.


Una scena dello spettacolo
© Zani-Casadio

Poi, nel corso dei decenni, il suo Nabucco si è fatto via via più severo, forse anche più statico: oratoriale, appunto. E per i legami con gli altri Verdi “risorgimentali” cari a Muti (Ernani e Attila, dei quali comunque oggi propone letture storicistico-aristocratiche, niente affatto quarantottesche) non sembra esserci più spazio. Piuttosto che un «dramma lirico», come recita il frontespizio del libretto di Temistocle Solera, questo Nabucco ravennate appare un’«azione tragico-sacra», per usare la dicitura scelta da Rossini nel comporre Mosè, caposaldo di tutte le opere a soggetto biblico. Il neoclassicismo del Rossini serio, con il suo alto tasso di oggettività strutturale, unita a quel mix di classico e romantico che è proprio soltanto di Bellini, sono appunto le bussole più inequivocabili. Ma sottotraccia è possibile scorgere perfino qualche suggestione beethoveniana. Il grande concertato che chiude il secondo atto – S’apprestan gl’istanti – è sempre stato una delle vette di Muti: come rincorrendosi, e mai raggiungendosi, i personaggi delineano il loro sbigottimento con la tecnica del canone, che fa esporre a una voce dopo l’altra la medesima idea musicale. Trattandosi di un procedimento caro a Rossini, l’omaggio al Mosè perdura: ma Muti sembra guardare pure più indietro, a quel quartetto del Fidelio in cui Beethoven trasformò il canone in una cristallizzazione dell’incanto e dello stupore. D’altronde – sembra suggerirci il direttore – anche questa è un’opera che, al pari del Nabucco, racconta di una libertà perduta e poi riconquistata.


Una scena dello spettacolo
© Zani-Casadio

La dialettica più fruttuosa – per tutto ciò che si è detto prima – scaturisce tra la bacchetta e gli orchestrali (i ragazzi dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini non sono mai apparsi tanto pronti e malleabili, con primo violino e primo flauto addirittura fuoriclasse), nonché tra la bacchetta e il coro (del Teatro Municipale di Piacenza istruito da Corrado Casati, che finalmente ci ricorda che Va’, pensiero sarà, sì, il momento topico, ma le grandi pagine corali del primo e ultimo atto non sono da meno); tuttavia, pure con i solisti Muti ottiene risultati degni di nota. Lontani i tempi in cui nei suoi Nabucchi cantavano Cristina Deutekom o Ghena Dimitrova (in disco anche Renata Scotto), Renato Bruson o Leo Nucci (però, non a caso, i risultati migliori li ottenne con baritoni meno mattatori come Matteo Manuguerra e Giorgio Zancanaro), può contare comunque su due artisti interessanti come Lidia Fridman e Serban Vasile. Quest’ultimo è un protagonista di vocalità un po’ fosca e inchiostrosa ma duttile, scolpito nella dizione, robusto nella declamazione, fluido quanto basta nel cantabile. La Friedman sfoggia mezzi ancor più cospicui e al momento – non è agevole tenere a bada edifici vocali di tale entità – ben governati: un registro di petto capace di risonanze scurissime e quasi contraltili convive con acuti di penetrante fosforescenza, dando vita a un canto stilettato, dall’espressiva disomogeneità sonora. Insomma due voci in una (come si conviene a un personaggio dall’anima profondamente scissa qual è Abigaille), ed entrambe impressionanti. C’è da augurarsi che – tra note acute così grandi e note gravi di tale spessore – la Friedman riesca a rafforzare i “centri”: indispensabili per appoggiare tanto il versante nord quanto il versante sud del suo fenomenale organo canoro.


Una scena dello spettacolo
© Zani-Casadio

Evgeny Stavinski – forse non in perfetta forma – è sembrato un basso di timbratura un po’ sfocata per un personaggio profetico e sacerdotale come Zaccaria, segnalandosi però per correttezza di emissione, sobrietà nel porgere, pronuncia sempre intellegibilissima. Francesca Di Sauro esalta la femminilità del personaggio di Fenena (la sua dolcezza, la sua determinazione) e fa della preghiera nel quarto atto uno dei momenti migliori della serata. Ismaele è l’unico caso di “primo tenore” verdiano sprovvisto di una propria aria, sicché il ruolo non presenta soverchie difficoltà, ma Riccardo Rados è sembrato – di questo quintetto protagonistico – l’elemento più incerto e in affanno. 


Una scena dello spettacolo
© Zani-Casadio

Interamente risolto nella multimedialità dei lavori del visual artist Svccy (pseudonimo di Matteo Succi), del visual programmer Davide Broccoli e della light designer Eva Bruno (gli anglismi della locandina ravennate sono esagerati, ma tant’è), di regia in questo spettacolo non è neppure il caso di parlare. Tutto sommato, e considerata appunto la lettura “oratoriale” di Muti, la formula puramente concertistica sarebbe stata preferibile. In fondo, se una regia c’è stata, questa è proprio la sua. Perché un direttore di razza è sempre il regista – musicale e vocale – dell’esecuzione. E perché vederlo agire (mimica facciale, braccio, gesto) tra i ragazzi dell’orchestra – ovviamente anche lui e gli strumentisti erano sul palco, non in buca – è, quello sì, vero teatro.


Nabucco
Dramma lirico in quattro parti


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Una scena dello spettacolo
© Zani Casadio


 
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