Tassello centrale di una Trilogia
dautunno sotto il segno di Riccardo Muti (aperta con il Bellini di Norma,
chiusa da un nazionalpopolare Gala Verdiano), il Nabucco presentato
al Teatro Alighieri di Ravenna delinea una volta per tutte levoluzione del
rapporto di questo grandissimo direttore con il primo capolavoro di Verdi:
rapporto che dura ormai da quasi mezzo secolo già le recite fiorentine del
1977, tra laltro coincidenti con la più illuminante regia operistica di Luca
Ronconi, rappresentarono un punto di svolta nellinterpretazione di questa
partitura e probabilmente giunto ora ad unesaustività non più
oltrepassabile, che lascolto ravvicinato con Norma consente anche allo
spettatore di scandagliare ulteriormente. Giacché se Muti, oggi, del melodramma
di Bellini sottolinea soprattutto quella “melodia infinita” che ne fa un poema
per voci e orchestra più che un caposaldo del belcanto, del Nabucco
adesso scorge soprattutto la dimensione oratoriale: che entrambi i titoli siano
stati rappresentati in forma semiscenica (proiezioni in luogo di scenografie,
cantanti al leggìo, solo i coristi in costume) non è eloquente soltanto del
cattivo rapporto che Muti, da qualche tempo, ha con i registi, ma è la naturale
conseguenza di una lettura sempre più “strumentale” e sempre meno
“teatral-vocale” delle due opere. Una scena dello spettacolo © Zani-Casadio
Certo, è naturale che il Muti
ottantenne di Ravenna concepisca un Verdi più pensoso e meno barricadero, più
disteso e meno fremente rispetto al Muti trentenne di Firenze. Resta tuttavia,
allora come ora, un punto fermo: del Nabucco (o Nabucodonosor che
dir si voglia, e già la doppia dizione è sintomatica di una natura bifronte) la
storia dellinterpretazione ci dà conto di due possibili punti di vista,
incanalabili a prezzo di una relativa semplificazione, ovvio luno nel
filone biblico, laltro in quello risorgimentale. Il che, come corollario,
implica da una parte concertazioni sensibili soprattutto alla fisionomia del
dramma corale e al peso determinante delle masse; mentre dallaltra troviamo letture musicali che concedono di più ai
singoli personaggi o, comunque, alla dimensione vocalistica. Non cè dubbio che
Muti si schieri con i primi; e non solo perché, al pari del Toscanini della
vecchiaia, adesso preferisce aver a che fare con cantanti giovani magari
acerbi, ma ligi nel farsi plasmare anziché con divi dello star-system.
A imporre una precisa scelta di campo (o, in alternativa, un salomonico bilanciamento)
è la stessa dialettica canora sottesa da Verdi: incline alla dimensione
declamatoria quando sono di scena il “sacro” e il “politico”, più propensa
invece ad adagiarsi sullarioso non senza qualche affondo tardobelcantistico
quando i personaggi si aprono i sentimenti. E Muti resta attratto soprattutto
dal primo dei due versanti.
Una scena dello spettacolo © Zani-Casadio
Poi, nel corso dei decenni, il suo Nabucco
si è fatto via via più severo, forse anche più statico: oratoriale, appunto. E
per i legami con gli altri Verdi “risorgimentali” cari a Muti (Ernani e Attila,
dei quali comunque oggi propone letture storicistico-aristocratiche, niente
affatto quarantottesche) non sembra esserci più spazio. Piuttosto che un
«dramma lirico», come recita il frontespizio del libretto di Temistocle Solera,
questo Nabucco ravennate appare un«azione tragico-sacra», per usare la
dicitura scelta da Rossini nel comporre Mosè, caposaldo di tutte le
opere a soggetto biblico. Il neoclassicismo del Rossini serio, con il suo alto
tasso di oggettività strutturale, unita a quel mix di classico e
romantico che è proprio soltanto di Bellini, sono appunto le bussole più
inequivocabili. Ma sottotraccia è possibile scorgere perfino qualche
suggestione beethoveniana. Il grande concertato che chiude il secondo atto Sapprestan
glistanti è sempre stato una delle vette di Muti: come rincorrendosi,
e mai raggiungendosi, i personaggi delineano il loro sbigottimento con la
tecnica del canone, che fa esporre a una voce dopo laltra la medesima idea
musicale. Trattandosi di un procedimento caro a Rossini, lomaggio al Mosè
perdura: ma Muti sembra guardare pure più indietro, a quel quartetto del Fidelio
in cui Beethoven trasformò il canone in una cristallizzazione dellincanto e
dello stupore. Daltronde sembra suggerirci il direttore anche questa è
unopera che, al pari del Nabucco, racconta di una libertà perduta e poi
riconquistata.
Una scena dello spettacolo © Zani-Casadio
La dialettica più fruttuosa per
tutto ciò che si è detto prima scaturisce tra la bacchetta e gli orchestrali
(i ragazzi dellOrchestra Giovanile Luigi Cherubini non sono mai apparsi tanto
pronti e malleabili, con primo violino e primo flauto addirittura fuoriclasse),
nonché tra la bacchetta e il coro (del Teatro Municipale di Piacenza istruito
da Corrado Casati, che finalmente ci ricorda che Va, pensiero sarà, sì,
il momento topico, ma le grandi pagine corali del primo e ultimo atto non sono
da meno); tuttavia, pure con i solisti Muti ottiene risultati degni di nota.
Lontani i tempi in cui nei suoi Nabucchi cantavano Cristina Deutekom o Ghena
Dimitrova (in disco anche Renata Scotto), Renato Bruson o Leo Nucci (però,
non a caso, i risultati migliori li ottenne con baritoni meno mattatori come Matteo
Manuguerra e Giorgio Zancanaro), può contare comunque su due artisti
interessanti come Lidia Fridman e Serban Vasile. Questultimo è un protagonista
di vocalità un po fosca e inchiostrosa ma duttile, scolpito nella dizione,
robusto nella declamazione, fluido quanto basta nel cantabile. La Friedman
sfoggia mezzi ancor più cospicui e al momento non è agevole tenere a bada
edifici vocali di tale entità ben governati: un registro di petto capace di
risonanze scurissime e quasi contraltili convive con acuti di penetrante
fosforescenza, dando vita a un canto stilettato, dallespressiva disomogeneità
sonora. Insomma due voci in una (come si conviene a un personaggio dallanima
profondamente scissa qual è Abigaille), ed entrambe impressionanti. Cè da
augurarsi che tra note acute così grandi e note gravi di tale spessore la
Friedman riesca a rafforzare i “centri”: indispensabili per appoggiare tanto il
versante nord quanto il versante sud del suo fenomenale organo canoro.
Una scena dello spettacolo © Zani-Casadio
Evgeny Stavinski
forse non in perfetta forma è sembrato un basso di timbratura un po sfocata
per un personaggio profetico e sacerdotale come Zaccaria, segnalandosi però per
correttezza di emissione, sobrietà nel porgere, pronuncia sempre
intellegibilissima. Francesca Di Sauro esalta la femminilità del personaggio di
Fenena (la sua dolcezza, la sua determinazione) e fa della preghiera nel quarto
atto uno dei momenti migliori della serata. Ismaele è lunico caso di “primo
tenore” verdiano sprovvisto di una propria aria, sicché il ruolo non presenta
soverchie difficoltà, ma Riccardo Rados è sembrato di questo quintetto protagonistico
lelemento più incerto e in affanno.
Una scena dello spettacolo © Zani-Casadio
Interamente risolto nella multimedialità dei lavori del visual artist
Svccy (pseudonimo di Matteo Succi), del visual programmer Davide
Broccoli e della light designer Eva Bruno (gli anglismi della
locandina ravennate sono esagerati, ma tantè), di regia in questo spettacolo
non è neppure il caso di parlare. Tutto sommato, e considerata appunto la
lettura “oratoriale” di Muti, la formula puramente concertistica sarebbe stata
preferibile. In fondo, se una regia cè stata, questa è proprio la sua. Perché
un direttore di razza è sempre il regista musicale e vocale
dellesecuzione. E perché vederlo agire (mimica facciale, braccio, gesto) tra i
ragazzi dellorchestra ovviamente anche lui e gli strumentisti erano sul
palco, non in buca è, quello sì, vero teatro.
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