Gli attori si autopresentano nel
loro personaggio, a volte plurimo, per rappresentare la “favola” di Carlo Gozzi, Turandot. Quando andò in scena la prima volta nel 1762, era in
corso la tenzone fra lautore fedele alla Commedia dellArte e il suo rivale,
laltro Carlo, riformista e cattivante un nuovo pubblico, più moderno e
progressista. Loccasione odierna sarebbe propizia per vedere in azione una compagnia
allantica – formazione rara ormai sulle scene italiane – in un testo dalla
teatralità godibile e a suo tempo esemplare. Il drammaturgo si ispirò a una
novella in francese, traduzione di François
Pétis de la Croix da una raccolta spacciata per “persiana” (Les Mille & un Jour, 1710), analoga
a Le Mille e una notte. Dirò dopo
delloccasione mancata.
Al Teatro Duse, la nitida,
raffinata scena è chiusa fra due pareti ad angolo, una cortina leggera e
luminosa, a sinistra e a destra, un fondale lucente con pannelli-porta. Le
sedie sono larredo principale degli spazi deputati, il Serraglio e il Divano.
Le luci calde di Aldo Mantovani
regolano il cambio delle scene. Lambientazione moderna è nei costumi di Sonia Marianni, con indizi stilizzati
di varianti gerarchiche o di censo. La principessa, in abito lungo, di velluto
nero, distinto e severo e gli altri notabili, delegante sobrietà. Le maschere,
appena più modeste, semplici nei colori assortiti; sarà il linguaggio e il
dialetto a farle riconoscere nelle provenienze (Venezia e Bergamo, Napoli e
Sicilia) e nelle funzioni subalterne. Pantalone, segretario di Altoum (Andreapietro Anselmi), Tartaglia,
cancelliere (Elsa Bossi), Brighella,
capo dei paggi (Davide Lorino), e
Truffaldino, capo degli eunuchi (Graziano
Sirressi), che si esibisce anche come musico e cantore.
Un momento dello spettacolo © Federico Pitto
Ladattamento, riduttivo, di Carlotta Corradi conserva gli snodi
della trama e mostra come sintreccino i vari legami fra i personaggi e quindi
si riuniscano i loro destini in tante avventure. Acquista rilievo dattualità
il femminino della protagonista, che da timore e fuga passa a conscia
valutazione problematica dei rapporti fra i sessi. Piacciono i molti elementi
drammatici della commedia fantasiosa, resi persino virtuosistici nella
versificazione e nella compresenza intrigante delle maschere e delle figure dal
vero. Qualche lazzo sinsinua con discrezione, senza presunzione filologica, a
memoria affettuosa del passato o del suo tramonto.
Fra gli episodi, molte didascalie
di raccordo sono recitate. Il propulsore dazione parte dal rituale imposto da
Turandot (e ratificato dal sovrano suo padre) di sottoporre i pretendenti a
certi quesiti dalle conseguenze mortali se insoluti. Così Calaf, nellincontro
con Turandot, decide di affrontare la prova rischiosa, dalla quale Altoum cerca
di dissuaderlo. «Amuri, amuri…», canta Truffaldino nellesprimere il pericoloso
sentimento, sincero ed esaltante per luomo, alla donna inviso. Limmediata
soluzione dei tre indovinelli da parte di Calaf provoca la reazione della
principessa, ma la rivalsa del temerario ottiene a sua volta di proporre la
domanda sul suo nome sconosciuto. Lungo impegno richiede ancora la ricerca del
nome sia per Turandot, sia per Adelma che ama luomo in segreto. Momenti
salienti, prima dello scioglimento, la pantomima ben ritmata dalle maschere zelanti
nellestorcere il nome a Calaf addormentato, senza riuscirvi; il passaggio dal
dramma, al comico e al patetico, nella vicenda parallela di Adelma, che gelosa
suggerisce il nome a Turandot per impedirne le nozze.
Un momento dello spettacolo © Federico Pitto
Occorre ricordare che Gozzi non
creava la sua eroina futilmente capricciosa, ma avversaria del maschio per
ferita psicologica. Ora il regista (forse attualizzandola troppo) la intende in
lotta senziente al patriarcato, agli uomini che pretendono decidere in sua
vece. È moderna perché, «portando dentro di sé leco di tutte le donne vissute
prima di lei, di cui si fa la paladina e portavoce, Turandot nel XVIII secolo è
una vera femminista. Allo stesso tempo ci pone davanti a un sentimento che non
ha tempo e non ha sesso: la paura di amare, il timore di abbandonarsi a un
sentimento così forte da farci perdere il controllo» (Programma di sala).
Nello spettacolo – sta qui la
sensazione delloccasione perduta – profondità e veemenza vengono attutiti da
una recitazione che smussa il verso, appiattisce la dizione in monotonia.
Magari a prevenire il pericolo di enfasi liricheggiante, la passione nei
protagonisti viene gelata e gli istinti smorzati. Gli attori si esprimono tutti
coinvolti nelluso del registro colloquiale, ma sommesso, quasi soffocato,
riducendone ludibilità negli “a parte”. Un momento dello spettacolo © Federico Pitto
Turandot di Lisa Lendaro mostra più distacco che crudeltà o perfidia. Nessun
gusto nel circondarsi di mistero. Alquanto implausibile la svolta dallamore
negato, fino al lutto nella parata per le nozze, allaprirsi poi con dedizione
e nel bloccare limpeto di Calaf quando rivolge a sé il pugnale. Nicola Pannelli, barbuto imperatore,
spiega una voce sempre pacata e autorevole in un Altoum di superiore serenità e
sensibilità paterna, pure equa nel consacrare il matrimonio. Deniz Özdoğan imprime sinuosi tormenti
alla sua Adelma, finché nella disperazione, per punirsi, non passa a
melodrammatica farsesca concitazione ripetendo il gesto suicida. Il Calaf di Luca Oldani, quasi incosciente delle
origini nobili e del ruolo, saccontenta di inetta ostinazione quando pronuncia
versi forti ed eroici, che potrebbero farsi vettori dun sentire esasperato,
appunto estremo, scenicamente “meraviglioso”. Abile in metamorfosi è Elsa
Bossi, in Tartaglia che non sinceppa mai e in Schirina, madre della serva
Zelima (Beatrice Fedi). Davide
Lorino interpreta Barach, ex tutore di Calaf, amico fedele e discreto. Quando
poi, vestito da Brighella, accompagna allorgano la voce di Truffaldino, è
prodigo con tutti nel donare concordia e letizia.
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