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La matematica è politica

di Giuseppe Gario
  La matematica è politica
Data di pubblicazione su web 13/12/2023  

Tra sedicenti grandi potenze e obsoleti stati nazionali, le aggressioni russa all’Ucraina e di Hamas a Israele sono spie di guerra civile globale nella nostra «vera e propria “metamorfosi antropologica”». «Ecco perché è tempo di indicare chiaramente il cambiamento che ne risulta. I popoli, uniti dalla loro storia e dai suoi particolarismi, avevano adottato dichiarazioni di indipendenza. Se vogliono unirsi nel desiderio di futuro, gli abitanti della Terra devono riconoscere le loro interdipendenze e trasformarle in destino comune. Non si tratta di andare verso un improbabile universalismo fusionale – feroce se dovesse essere imposto da una delle grandi potenze – ma verso la promozione di obiettivi comuni» (M. Delmas-Marty, Aux quatre vents du monde. Petite guide de navigation sur l’océan de la mondialisation, Paris, Seuil, 2016, pp. 136-137). 

«Integrando obiettivi comuni, di qualità e quantità, nel loro sistema nazionale, gli Stati non perdono la loro sovranità, la trasformano in sovranità solidale. Invece, in mancanza di obiettivi comuni, gli Stati tornano alla loro tradizionale sovranità, solitaria perché limitata alla sola difesa degli interessi nazionali. Lo vediamo nel terrorismo globale, uno dei rifugi della sovranità nazionale» (ivi, p. 139). Rifugio perché da decenni «l’equilibrio tra globalizzazione e frammentazione dipende dal nuovo ruolo che gli Stati saranno in grado di darsi e quanto riusciranno a mediare tra le sempre più forti pressioni internazionaliste e i crescenti livelli di malcontento interno inevitabilmente conseguenti» (I. Clark, Globalization and Fragmentation. International Relations in the Twentieth Century, Oxford, Oxford University Press, 1997, p. 202). Sovranismo invece di sovranità. 

Nuovo mediaticamente, è antico nelle «promesse millenaristiche e sconfinate, fatte con convinzione assoluta e profetica a una schiera di uomini sradicati e disperati, in una società le cui strutture tradizionali sono in via di disintegrazione: ecco, a quanto sembra, l’origine di quel fanatismo sotterraneo che costituì una minaccia permanente per la società medievale. Non è fuori posto pensare che quella è pure l’origine dei giganteschi movimenti fanatici che, nella nostra epoca, hanno scosso il mondo» (N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Milano, Comunità, 1976, pp. 389-390). 

Antico e ora globale, anche «l’imperialismo poggia sull’idea che i popoli più forti abbiano il diritto di imporsi su quelli più deboli» (Treccani, Enciclopedia on line, voce Imperialismo). L’attuale «prende le mosse dal 1973 con la nascita della Trilateral Commission fondata a New York il cui obiettivo tra gli altri è “il contenimento della espansione del welfare state”. E poi ancora i giganti finanziari come JP Morgan e la Goldman Sachs che ci invitano a liberarci delle nostre “costituzioni sinistroidi e antifasciste” perché “c’è troppa tutela dei diritti e dei meccanismi democratici di decisione”» (S. Bonsanti-S. Limiti, La pretesa del comando. Da Gelli alla destra di governo. Presidenzialismo e assalto alla costituzione, Roma, Paper First, 2023, cit. in E. Ciconte, Uccidere la Carta. Il governo realizza il sogno della P2, in «Domani», 2 novembre 2023, p. 7). Complice l’inflazione, il laboratorio Italia sta provvedendo. 

Nuova solo nella forma è infine la servitù della gleba. «Proprio la scala “globale” in cui operano le scelte degli investitori, quando la si mette a confronto con i limiti rigidamente “locali” imposti alle scelte della “offerta di lavoro”, determina l’asimmetria – che a sua volta mette in luce il dominio dei primi sulla seconda –. Mobilità e assenza di mobilità sono i due poli contrapposti della società tardo-moderna o post-moderna. Il vertice della nuova gerarchia è in una condizione di extraterritorialità; i livelli inferiori sono in diverso grado vincolati allo spazio; al fondo, invece, troviamo, in pratica, quelli che abbiamo già definito glebae adscripti» (Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma, Laterza, 1999, pp. 115-116). 

Di conseguenza, la «critica alla modernità, sia letteraria che filosofica, potrebbe essere vista, nella sua immensa varietà, come un’autodifesa della nostra civiltà, ma finora non è riuscita a impedire alla modernità di avanzare a una velocità senza precedenti» (L. Kolakowski, Modernity On Endless Trial, Chicago, The University of Chicago Press, p. 11). E in questo «mondo pieno di odio, di vendetta, di invidia che a noi – non tanto per la povertà della natura quanto per la nostra gargantuesca voracità – appare sempre più angusto, l’odio è uno di quei mali, sembra plausibile dire, che non verrà scacciato da alcuna azione istituzionale. In tal caso, possiamo presumere senza esporci al ridicolo che ciascuno di noi può contribuire a limitare l’odio nella società reprimendolo dentro di sé, così che ciascuno di noi possa realizzare per sé l’incerta e fragile anticipazione di una vita più sopportabile nella nostra Nave dei Folli» (ivi, p. 261). 

Responsabilità personale necessaria perché ora l’«“epistemologia della complessità” ci consente di fare un passo ulteriore nella misura in cui suggerisce di includere l’osservatore nelle sue osservazioni o descrizioni: quell’osservatore che la tradizione epistemologica […] ha cercato di neutralizzare e rendere anonimo, a garanzia dell’oggettività della conoscenza e delle scienze. Si tratta di parlare di chi oggi osserva la vita sulla Terra come sistemi complessi (sistemi le cui proprietà essenziali ‘emergono’ dall’interazione o dall’insieme delle loro parti e non sono quindi possedute dalle loro parti) e, descrivendo la vita e la Terra come sistemi complessi, descrive sé stesso» (M. Ceruti-F. Bellusci, Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro, Milano, Raffaello Cortina, 2023, pp. 13-14). «Quanto più diventa concreta la possibilità di intervenire (bio)tecnologicamente sulla nostra natura e di ‘prendere in mano’ la nostra evoluzione, tanto più siamo rimandati a una riflessione sull’“immagine dell’umano”, che, come scriveva Hans Jonas, “diventerà più imperiosa e pressante di qualsiasi altra riflessione sia mai stata richiesta alla ragione dei mortali”» (ivi, p. 15). «Si tratta di comprendere che siamo tutti imbarcati verso un futuro non solo incerto, ma anche diverso dal passato, totalmente diverso. Se avremo un futuro, esso sarà un futuro planetario» (ivi, p. 23). 

«I prodromi dell’era planetaria sono segnati dalla crisi. È una crisi planetaria complessa, composta, come un prisma, da più facce (economica, tecnologica, socioeconomica, climatica, demografica, migratoria, sanitaria, internazionale…), che attesta la presenza di una faglia profonda, aperta da trasformazioni repentine e globali e dallo stabilirsi di un’interdipendenza economica planetaria slegata dalla solidarietà. Sincronizzata dalle minacce legate a questa crisi, l’umanità planetaria è divenuta di fatto solidale nella vulnerabilità. La crisi multiforme e planetaria “preme” in questa direzione, ma nello stesso tempo genera paure e disorientamenti che portano nazioni, etnie, religioni a richiudersi in sé stesse, e che accendono nuove rivalità e tensioni geopolitiche. Nuovi blocchi sembrano ricostituirsi e contrapporsi. Gli Stati si affrontano come dinosauri e pterodattili. La politica è ancora nell’era secondaria» (ivi, pp. 26-27). Fuori dal mondo in cui invece «le scienze avanzano con il dibattito e con la controversia: anche se con metodi diversi, che godono di più larghe convergenze, sono comunque “un campo di battaglia”, come la politica! E i loro metodi possono essere qualificati come scientifici proprio nella misura in cui contribuiscono a una controversia organizzata» (ivi, pp. 48-49). Stiamo faticosamente imparando che la matematica è politica. 

La matematica è politica (C. Valerio, Torino, Einaudi, 2020) perché pure la politica «non si sceglie una volta per tutte, va esercitata, rinnovata e verificata, somiglia a una teoria scientifica. La manutenzione della democrazia si fa esercitando i diritti e rispettando i doveri, ed è esattamente come imparare a contare. La democrazia è complessa. La dittatura è più semplice. Uno comanda, tutti gli altri eseguono. La dittatura non è matematica, non si evolve e non si interpreta, cambia colore ma funziona sempre allo stesso modo: uno comanda, tutti gli altri eseguono. Non ha altra conseguenza, altra implicazione che l’obbedienza. Non ha altra ipotesi che il principio di autorità. La democrazia è matematica, si basa su un sistema condiviso di regole continuamente negoziabili e continuamente verificabili. La democrazia, come il linguaggio, e tra i linguaggi la matematica, non è naturale, non è un fiore che sboccia, è una costruzione culturale e dunque, in quanto tale, va continuamente ridiscussa, la democrazia non rinverdisce a primavera come certi alberi, bisogna sceglierla, come si sceglie il linguaggio» (ivi, p. 59). 

All’alba della globalizzazione «la caratteristica peculiare del grande disastro del 1929 era che il peggio continuava a peggiorare» (J.K. Galbraith, Il grande crollo, Milano, BUR, 2009, p. 102), come oggi, ma John Maynard Keynes rifletteva sulle Prospettive economiche per i nostri nipoti. «Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano. Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cento anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco. Perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno. Attendo, quindi, in giorni non troppo lontani, la più grande trasformazione che mai si sia verificata nell’ambiente fisico in cui si muove la vita umana come aggregato» (Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 282-283). 

In effetti, cent’anni dopo è la crisi ambientale, scrive la giurista Mireille Delmas-Marty, a condurci «verso la promozione di obiettivi comuni» (Delmas-Marty, Aux quatre vents du monde, cit., p. 137) e stabilisce un punto di non ritorno ulteriore a quello dell’arma atomica, al centro del saluto di fine mandato del presidente USA Dwight D. Eisenhower il 17 gennaio 1961 (www.internetsv.info/DEinsehower.html). «Questa congiunzione tra un’immensa istituzione militare e una grande industria di armamenti è nuova nella esperienza americana. L’influenza complessiva – economica, politica, persino spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni edificio del corpo legislativo, ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo l’imperativo di questo sviluppo. Ma non dobbiamo fallire nel comprenderne le gravi implicazioni». «È la struttura stessa della nostra società». «Solo una cittadinanza vigile e competente può assicurare il corretto innesto dell’enorme macchina industriale e militare di difesa nei nostri metodi e obiettivi pacifici così che sicurezza e libertà possano prosperare insieme». 

Al contrario, oggi «non c’è evento inatteso che non provochi un fremito di diffidenza: disastri ambientali, attacchi terroristici, migrazioni inarrestabili, tracolli economici, conflitti esplosivi, rovesci politici. Tra stupore e indignazione, esplode il panico, cresce la febbre complottista» come «reazione immediata alla complessità. È la scorciatoia, la via più semplice e rapida, per venire a capo di un mondo ormai illeggibile» (D. Di Cesare, Il complotto al potere, Torino, Einaudi, 2021, pp. 3-4). «Non si può, però, non riconoscere che il complottismo nasce dalla paura e dall’isolamento del cittadino che si sente escluso dallo spazio pubblico. Dove la polis è divenuta inaccessibile, dove la comunità interpretativa è frantumata, va in frantumi anche la verità comune e si aggira lo spettro del complotto» (ivi, p. 109) tra cittadini esclusi dallo spazio pubblico e sotto minaccia di complessi militar-industriali. 

Ma i protagonisti siamo sempre noi. «Individualmente siamo tutti condannati all’utopia, perché non vedremo mai quello che accadrà in seguito, dopo di noi» (M. Augé, Prendere tempo. Un’utopia dell’educazione, conversazione con Filippo La Porta, Roma, Castelvecchi, 2016, p. 44). Utopia necessaria. «Solo l’accresciuta dipendenza dei propri interessi vitali dal rapporto con i partner di altri Paesi e di altre culture, nonché il riconoscimento dell’esistenza e della priorità di interessi specifici globali, transfrontalieri, “cosmopolitici”, potranno condurre a superare lo stadio delle culture intese come unità di sopravvivenza locali e polemogene (lo stadio del “gioco a somma nulla” della guerra per la divisione delle risorse). Lo dimostra positivamente l’esperimento storico dell’integrazione europea» (Ceruti-Bellusci, Umanizzare la modernità, cit., p. 120). 

L’integrazione europea nata dal seme di un mercato comune fra stati da secoli in guerra, dopo avere trascinato il mondo nelle ultime due. Fragile, sempre più minacciata all’esterno e all’interno in vista delle prossime elezioni europee del 2024, ma in vantaggio strategico perché capace di assumersi delle responsabilità globali. Come la matematica, l’economia è politica e risponde allo stesso principio di cui «scrive Bruno de Finetti: la differenza fondamentale da rilevare è nella attribuzione del “perché”, non perché il FATTO che io prevedo accadrà, ma perché io prevedo che il FATTO accadrà» (ivi, p. 12). Assunzione di responsabilità, grande assente globale. Per Bigpharma la pandemia è stata un affare, ma per l’Organizzazione Mondiale della Sanità e i governi, in particolare l’UE, è stata una assunzione di responsabilità, dopo anni di colpevole distrazione. La guerra scatenata da Putin e la concomitante inflazione rivelano invece l’inconsistenza dei governi cosiddetti nazionali a fronte delle loro enormi macchine industriali-militari. E la caducità di entrambi.






 
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