Tra sedicenti grandi potenze e
obsoleti stati nazionali, le aggressioni russa allUcraina e di Hamas a Israele
sono spie di guerra civile globale nella nostra «vera e propria “metamorfosi
antropologica”». «Ecco perché è tempo di indicare chiaramente il cambiamento
che ne risulta. I popoli, uniti dalla loro storia e dai suoi particolarismi,
avevano adottato dichiarazioni di indipendenza. Se vogliono unirsi nel
desiderio di futuro, gli abitanti della Terra devono riconoscere le loro
interdipendenze e trasformarle in destino comune. Non si tratta di andare verso
un improbabile universalismo fusionale – feroce se dovesse essere imposto da
una delle grandi potenze – ma verso la promozione di obiettivi comuni» (M. Delmas-Marty,
Aux quatre vents du monde. Petite guide
de navigation sur locéan de la mondialisation, Paris, Seuil, 2016, pp.
136-137).
«Integrando obiettivi comuni, di
qualità e quantità, nel loro sistema nazionale, gli Stati non perdono la loro
sovranità, la trasformano in sovranità solidale.
Invece, in mancanza di obiettivi comuni, gli Stati tornano alla loro
tradizionale sovranità, solitaria
perché limitata alla sola difesa degli interessi nazionali. Lo vediamo nel
terrorismo globale, uno dei rifugi della sovranità nazionale» (ivi, p. 139). Rifugio
perché da decenni «lequilibrio tra globalizzazione e frammentazione dipende
dal nuovo ruolo che gli Stati saranno in grado di darsi e quanto riusciranno a
mediare tra le sempre più forti pressioni internazionaliste e i crescenti
livelli di malcontento interno inevitabilmente conseguenti» (I. Clark, Globalization and Fragmentation. International Relations in the Twentieth Century, Oxford, Oxford University Press, 1997, p. 202). Sovranismo
invece di sovranità.
Nuovo mediaticamente, è antico
nelle «promesse millenaristiche e sconfinate, fatte con convinzione assoluta e
profetica a una schiera di uomini sradicati e disperati, in una società le cui
strutture tradizionali sono in via di disintegrazione: ecco, a quanto sembra,
lorigine di quel fanatismo sotterraneo che costituì una minaccia permanente
per la società medievale. Non è fuori posto pensare che quella è pure lorigine
dei giganteschi movimenti fanatici che, nella nostra epoca, hanno scosso il
mondo» (N. Cohn, I fanatici
dellApocalisse, Milano, Comunità, 1976, pp. 389-390).
Antico e ora globale, anche
«limperialismo poggia sullidea che i popoli più forti abbiano il diritto di
imporsi su quelli più deboli» (Treccani, Enciclopedia on line, voce Imperialismo). Lattuale «prende le
mosse dal 1973 con la nascita della Trilateral Commission fondata a New York il
cui obiettivo tra gli altri è “il contenimento della espansione del welfare
state”. E poi ancora i giganti finanziari come JP Morgan e la Goldman Sachs che
ci invitano a liberarci delle nostre “costituzioni sinistroidi e antifasciste”
perché “cè troppa tutela dei diritti e dei meccanismi democratici di
decisione”» (S. Bonsanti-S. Limiti, La
pretesa del comando. Da Gelli alla destra di governo. Presidenzialismo e
assalto alla costituzione, Roma, Paper First, 2023, cit. in E. Ciconte, Uccidere la Carta. Il governo realizza il
sogno della P2, in «Domani», 2 novembre 2023, p. 7). Complice linflazione,
il laboratorio Italia sta provvedendo.
Nuova solo nella forma è infine
la servitù della gleba. «Proprio la scala “globale” in cui operano le scelte
degli investitori, quando la si mette a confronto con i limiti rigidamente
“locali” imposti alle scelte della “offerta di lavoro”, determina lasimmetria
– che a sua volta mette in luce il dominio dei primi sulla seconda –. Mobilità
e assenza di mobilità sono i due poli contrapposti della società tardo-moderna
o post-moderna. Il vertice della nuova gerarchia è in una condizione di
extraterritorialità; i livelli inferiori sono in diverso grado vincolati allo
spazio; al fondo, invece, troviamo, in pratica, quelli che abbiamo già definito
glebae adscripti» (Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze
sulle persone, Roma, Laterza, 1999, pp. 115-116).
Di conseguenza, la «critica alla
modernità, sia letteraria che filosofica, potrebbe essere vista, nella sua
immensa varietà, come unautodifesa della nostra civiltà, ma finora non è
riuscita a impedire alla modernità di avanzare a una velocità senza precedenti»
(L. Kolakowski, Modernity On Endless
Trial, Chicago, The University of Chicago Press, p. 11). E in questo «mondo
pieno di odio, di vendetta, di invidia che a noi – non tanto per la povertà
della natura quanto per la nostra gargantuesca voracità – appare sempre più
angusto, lodio è uno di quei mali, sembra plausibile dire, che non verrà
scacciato da alcuna azione istituzionale. In tal caso, possiamo presumere senza
esporci al ridicolo che ciascuno di noi può contribuire a limitare lodio nella
società reprimendolo dentro di sé, così che ciascuno di noi possa realizzare
per sé lincerta e fragile anticipazione di una vita più sopportabile nella
nostra Nave dei Folli» (ivi, p. 261).
Responsabilità personale
necessaria perché ora l«“epistemologia della complessità” ci consente di fare
un passo ulteriore nella misura in cui suggerisce di includere losservatore nelle sue osservazioni o
descrizioni: quellosservatore che la tradizione epistemologica […] ha cercato
di neutralizzare e rendere anonimo, a garanzia delloggettività della
conoscenza e delle scienze. Si tratta di parlare di chi oggi osserva la vita sulla Terra come sistemi complessi
(sistemi le cui proprietà essenziali ‘emergono dallinterazione o dallinsieme
delle loro parti e non sono quindi possedute dalle loro parti) e, descrivendo
la vita e la Terra come sistemi complessi, descrive sé stesso» (M. Ceruti-F. Bellusci,
Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di
pensare il futuro, Milano, Raffaello Cortina, 2023, pp. 13-14). «Quanto più
diventa concreta la possibilità di intervenire (bio)tecnologicamente sulla
nostra natura e di ‘prendere in mano la nostra evoluzione, tanto più siamo
rimandati a una riflessione sull“immagine dellumano”, che, come scriveva Hans Jonas, “diventerà più imperiosa e
pressante di qualsiasi altra riflessione sia mai stata richiesta alla ragione
dei mortali”» (ivi, p. 15). «Si tratta di comprendere che siamo tutti imbarcati
verso un futuro non solo incerto, ma anche diverso dal passato, totalmente
diverso. Se avremo un futuro, esso sarà un futuro planetario» (ivi, p. 23).
«I prodromi dellera planetaria
sono segnati dalla crisi. È una crisi planetaria complessa, composta, come un
prisma, da più facce (economica, tecnologica, socioeconomica, climatica,
demografica, migratoria, sanitaria, internazionale…), che attesta la presenza
di una faglia profonda, aperta da trasformazioni repentine e globali e dallo
stabilirsi di uninterdipendenza economica planetaria slegata dalla
solidarietà. Sincronizzata dalle minacce legate a questa crisi, lumanità
planetaria è divenuta di fatto solidale nella vulnerabilità. La crisi
multiforme e planetaria “preme” in questa direzione, ma nello stesso tempo
genera paure e disorientamenti che portano nazioni, etnie, religioni a
richiudersi in sé stesse, e che accendono nuove rivalità e tensioni
geopolitiche. Nuovi blocchi sembrano ricostituirsi e contrapporsi. Gli Stati si
affrontano come dinosauri e pterodattili. La politica è ancora nellera
secondaria» (ivi, pp. 26-27). Fuori dal mondo in cui invece «le scienze
avanzano con il dibattito e con la controversia: anche se con metodi diversi,
che godono di più larghe convergenze, sono comunque “un campo di battaglia”,
come la politica! E i loro metodi possono essere qualificati come scientifici
proprio nella misura in cui contribuiscono a una controversia organizzata» (ivi,
pp. 48-49). Stiamo faticosamente imparando che la matematica è politica.
La matematica è politica
(C. Valerio, Torino, Einaudi, 2020) perché pure la politica «non si sceglie una
volta per tutte, va esercitata, rinnovata e verificata, somiglia a una teoria
scientifica. La manutenzione della democrazia si fa esercitando i diritti e
rispettando i doveri, ed è esattamente come imparare a contare. La democrazia è
complessa. La dittatura è più semplice. Uno comanda, tutti gli altri eseguono.
La dittatura non è matematica, non si evolve e non si interpreta, cambia colore
ma funziona sempre allo stesso modo: uno comanda, tutti gli altri eseguono. Non
ha altra conseguenza, altra implicazione che lobbedienza. Non ha altra ipotesi
che il principio di autorità. La democrazia è matematica, si basa su un sistema
condiviso di regole continuamente negoziabili e continuamente verificabili. La
democrazia, come il linguaggio, e tra i linguaggi la matematica, non è
naturale, non è un fiore che sboccia, è una costruzione culturale e dunque, in
quanto tale, va continuamente ridiscussa, la democrazia non rinverdisce a
primavera come certi alberi, bisogna sceglierla, come si sceglie il linguaggio»
(ivi, p. 59).
Allalba della globalizzazione
«la caratteristica peculiare del grande disastro del 1929 era che il peggio
continuava a peggiorare» (J.K. Galbraith, Il
grande crollo, Milano, BUR, 2009, p. 102), come oggi, ma John Maynard Keynes rifletteva sulle Prospettive economiche per i nostri nipoti.
«Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene allutile.
Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere lora e il giorno con virtù,
alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli
del campo che non seminano e non filano. Ma attenzione! Il momento non è ancora
giunto. Per almeno altri cento anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti
gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel
che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza
devono essere il nostro dio ancora per un poco. Perché solo questi principi
possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno.
Attendo, quindi, in giorni non troppo lontani, la più grande trasformazione che
mai si sia verificata nellambiente fisico in cui si muove la vita umana come
aggregato» (Esortazioni e profezie, Milano,
Il Saggiatore, 1968, pp. 282-283).
In effetti, centanni dopo è la
crisi ambientale, scrive la giurista Mireille
Delmas-Marty, a condurci «verso la promozione di obiettivi comuni»
(Delmas-Marty, Aux quatre vents du monde,
cit., p. 137) e stabilisce un punto di non ritorno ulteriore a quello dellarma
atomica, al centro del saluto di fine mandato del presidente USA Dwight D. Eisenhower il 17 gennaio 1961
(www.internetsv.info/DEinsehower.html). «Questa congiunzione tra unimmensa
istituzione militare e una grande industria di armamenti è nuova nella
esperienza americana. Linfluenza complessiva – economica, politica, persino
spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni edificio del corpo legislativo,
ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo limperativo di questo
sviluppo. Ma non dobbiamo fallire nel comprenderne le gravi implicazioni». «È
la struttura stessa della nostra società». «Solo una cittadinanza vigile e
competente può assicurare il corretto innesto dellenorme macchina industriale
e militare di difesa nei nostri metodi e obiettivi pacifici così che sicurezza
e libertà possano prosperare insieme».
Al contrario, oggi «non cè
evento inatteso che non provochi un fremito di diffidenza: disastri ambientali,
attacchi terroristici, migrazioni inarrestabili, tracolli economici, conflitti
esplosivi, rovesci politici. Tra stupore e indignazione, esplode il panico,
cresce la febbre complottista» come «reazione immediata alla complessità. È la
scorciatoia, la via più semplice e rapida, per venire a capo di un mondo ormai
illeggibile» (D. Di Cesare, Il complotto
al potere, Torino, Einaudi,
2021, pp. 3-4). «Non si può, però, non riconoscere che il complottismo nasce
dalla paura e dallisolamento del cittadino che si sente escluso dallo spazio
pubblico. Dove la polis è divenuta
inaccessibile, dove la comunità interpretativa è frantumata, va in frantumi
anche la verità comune e si aggira lo spettro del complotto» (ivi, p. 109) tra
cittadini esclusi dallo spazio pubblico e sotto minaccia di complessi
militar-industriali.
Ma i protagonisti siamo sempre
noi. «Individualmente siamo tutti condannati allutopia, perché non vedremo mai
quello che accadrà in seguito, dopo di noi» (M. Augé, Prendere tempo. Unutopia delleducazione, conversazione con Filippo
La Porta, Roma, Castelvecchi, 2016, p. 44). Utopia necessaria. «Solo
laccresciuta dipendenza dei propri interessi vitali dal rapporto con i partner
di altri Paesi e di altre culture, nonché il riconoscimento dellesistenza e
della priorità di interessi specifici globali, transfrontalieri,
“cosmopolitici”, potranno condurre a superare lo stadio delle culture intese
come unità di sopravvivenza locali e
polemogene (lo stadio del “gioco a somma nulla” della guerra per la divisione
delle risorse). Lo dimostra positivamente lesperimento storico
dellintegrazione europea» (Ceruti-Bellusci, Umanizzare la modernità, cit., p. 120).
Lintegrazione europea nata dal
seme di un mercato comune fra stati da secoli in guerra, dopo avere trascinato
il mondo nelle ultime due. Fragile, sempre più minacciata allesterno e
allinterno in vista delle prossime elezioni europee del 2024, ma in vantaggio
strategico perché capace di assumersi delle responsabilità globali. Come la
matematica, leconomia è politica e risponde allo stesso principio di cui
«scrive Bruno de Finetti: la differenza fondamentale da rilevare è nella
attribuzione del “perché”, non perché il FATTO che io prevedo accadrà, ma
perché io prevedo che il FATTO accadrà» (ivi, p. 12). Assunzione di
responsabilità, grande assente globale. Per Bigpharma la pandemia è stata un
affare, ma per lOrganizzazione Mondiale della Sanità e i governi, in
particolare lUE, è stata una assunzione di responsabilità, dopo anni di
colpevole distrazione. La guerra scatenata da Putin e la concomitante inflazione rivelano invece linconsistenza
dei governi cosiddetti nazionali a fronte delle loro enormi macchine
industriali-militari. E la caducità di entrambi.