drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

L’acqua santa del diavolo

di Paolo Patrizi
  Mefistofele
Data di pubblicazione su web 09/12/2023  

«Anche la santità è una tentazione», diceva Anouilh. È forse questa, meglio di qualunque citazione goethiana, la più calzante epigrafe da apporre al Mefistofele di Boito messo in scena da Simon Stone a Roma: spettacolo destinato a dividere critica e pubblico, ma che – portando per la prima volta su un palcoscenico italiano uno dei più autenticamente innovativi registi di oggi – assicura un’apertura di stagione dall’inequivocabile appeal culturale, oltre che mediatico, e conferma l’Opera di Roma come il meno provinciale dei nostri teatri lirici. D’altronde, si tratta di un’epigrafe che sarebbe stata sottoscritta volentieri dallo stesso Boito: il quale, avendo fatto del “dualismo” (a cominciare dalla celebre poesia eponima) la parola-chiave della propria concettualità e della propria estetica, sapeva bene che dietro a ogni diavolo si cela un angelo caduto, e che zolfo e incenso sono profumi intercambiabili.

Cosa fanno Stone e la sua scenografa Mel Page? Concepiscono una scatola scenica di lattiginoso lucore destinata ad accogliere il Prologo in cielo come la Notte del sabba, le falangi celesti come le baccanti orgiastiche: un’asepsi compulsiva, solo di quando in quando contraddetta da lampi di luce demonicamente rossastra del light designer James Farncombe, e corroborata dai costumi (della stessa Page) bianchissimi, quasi ospedalieri, indossati dal coro tanto nelle vesti angeliche quanto in quelle del popolo dei più inveterati peccatori. Insomma ogni uomo mantiene forse una zona di purezza, ma certo nessuno è innocente; sicché Faust – sembra volerci dire Stone – è una sorta di Tannhäuser alla rovescia: lì una sazietà di conoscenza carnale che porta a un’ansia di conoscenza spirituale, qui la hybris di chi – dedicandosi soltanto allo studio – non ha voluto sporcarsi le mani con i piaceri terreni, e prima che sia troppo tardi decide di sperimentarli tutti, anche nelle loro bassezze. In questa prospettiva, il patto col diavolo non è solo sul fronte del ritorno alla giovinezza: è un tentativo di recuperare tutto il tempo perduto, riavvolgendo all’indietro il film della propria esistenza.

Un momento dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Un momento dello spettacolo 
©Fabrizio Sansoni

Ne scaturisce uno spettacolo tanto visivamente rarefatto quanto denso di spunti, all’insegna di un’ironia che traduce bene quel grottesco affiorante di continuo dal virtuosismo metrico del Boito librettista (e disseminato tra le pieghe armoniche del Boito compositore): la festa di Pasqua spogliata da ogni valore spirituale e tradotta in un metaforico ultimo giro di giostra, contrappuntato da un Mefistofele in veste – anziché di frate salmodiante – di clown implacabilmente demistificatorio nel bucare ogni palloncino; la scena del giardino concepita non come rito propiziatorio alla seduzione di Margherita, ma una sorta di piscina virtuale carica di palline colorate, molto cybersex, in cui la fanciulla e Faust, Marta e Mefistofele (nonché una terza coppia di forzati del piacere) possono consumare eros e alcol; il Sabba come derisione “ecumenica” di qualsivoglia religione (con il sacrificio del maiale in quanto animale impuro) e tribuna dove il demonio, arringante la folla, squaderna un mascellone e indossa un fez che per lo spettatore italiano – Stone cerca sempre riferimenti alla storia del paese in cui lo spettacolo va in scena – fanno molto ventennio, a memento della perenne osmosi tra Impero del Male e dittatura.

L’atto del cosiddetto Sabba classico – dove Faust, ancora una volta al pari di Tannhäuser, dopo aver conosciuto «l’amore della vergine» conosce «l’amore della dea» (Venere per Wagner, Elena di Troia per Boito) – presenta invece un mondo dove l’ironia non ha più cittadinanza: la distruzione di Ilio viene rievocata attraverso tracce di guerra contemporanea (tute mimetiche, mitragliatrici…), in cui Faust, espugnando Elena e la sua bellezza, è uno degli stessi soldati invasori. Ma, con fenomenale colpo di teatro, da lì Stone trasporta lo spettatore senza soluzione di continuità nell’epilogo: candide e asettiche come l’intera cornice dello spettacolo, le rovine di Troia si trasformano in un ancor più asettico ospizio, di cui Faust, tornato anziano e ridotto in carrozzina, è uno dei pigionanti. Il «popolo fecondo» cui «donar la vita», vagheggiato nel canto di Giunto sul passo estremo, qui sono proprio – in un geniale mix di tenerezza e crudeltà – i vecchietti del nosocomio e Faust può morire, se non redento, almeno con la coscienza pulita, al termine del suo viaggio tra «il Real» e «l’Ideale». Certo: l’uno «fu dolore» e l’altro «fu sogno», come ricorda Boito. Tuttavia, nella messinscena di Stone, l’Ideale si è stemperato nel Virtuale, così come il dolore del Reale ha potuto contare sull’anestetico della volgarità. Il conforto dato all’uomo contemporaneo, forse, è solo questo…

Da una regia così fortemente etico-politica, ancorché lontanissima dall’etica di Goethe, si sarebbe potuto temere un allestimento indifferente alle ragioni della musica. Al contrario, Stone ha realizzato una messinscena tutta dentro alle sollecitazioni della partitura e capace, anzi, di fare più d’un passo indietro davanti al necessario protagonismo orchestrale (sipario ancora abbassato durante l’ouverture): insomma uno spettacolo moderno nel senso più fruttuoso del termine, di quelli cioè “ripensano” – non “violano” – i classici. Che però, proprio per queste caratteristiche, sarebbe dovuta entrare in dialettica con una lettura musicale drammaturgicamente altrettanto salda. Michele Mariotti fa suonare assai bene gli strumentisti dell’Opera di Roma, ottiene anche pregevoli effetti paradiscografici (gli ottoni collocati sotto la platea, anziché in buca, hanno un riverbero e un’intensità inusitati), è un solerte accompagnatore del canto: ma a tali pregi non abbina un talento drammaturgico musicale. La fertile disomogeneità linguistica della partitura di Boito (declamazione e canto melodico; wagnerismi e avanzi grandoperistici; postbelcantismi e tardoromanticismi) viene livellata da un pedale uniformante all’insegna di tempi equilibrati, agogiche mai esasperate, un nitore privo di autentica forza d’articolazione. Si direbbe che stella polare della concertazione di Mariotti sia la correttezza abbinata al buonsenso. Difficile trovare due sostantivi meno calzanti per il Mefistofele.

Un momento dello spettacolo ©Fabrizio Sansoni
Un momento dello spettacolo 
©Fabrizio Sansoni

Chi invece unisce il gusto del politicamente scorretto a un canto d’alta scuola è il protagonista John Relyea: brutto, sporco e cattivo, eppure di gran classe come ogni Tentatore che si rispetti; basso fenomenale per timbratura scurissima e risonanze telluriche, ma capace di flettersi a sfumature (quasi) falsettanti; istrionico nel fraseggio senza mai perdere il controllo della fonazione; imponente nella presenza scenica e duttilissimo nella gestualità. In termini espressivi, e anche di pura musicalità (gli attacchi non sempre sono irreprensibili), il Faust di Joshua Guerrero ha invece assai meno frecce al proprio arco: l’impressione è quella di un tenore ancora alla ricerca di sé stesso, dall’emissione laboriosa e non del tutto risolta, con un registro acuto a tratti fulgido e a tratti sfocato.

Ulteriore punta di diamante dello spettacolo, Maria Agresta si fa carico – così come era nelle intenzioni di Boito – tanto di Margherita quanto di Elena: i due antipodi del femminino da ricondurre a ideale unità. Vi riesce in modo esemplare, con il viatico di una squisita forbitezza vocalistica (un timbro luminoso, che però mantiene omogeneità nei numerosi affondi gravi richiesti dalla scrittura boitiana) mai disgiunta da un accento sempre concentrato; e grazie, anche, a una bellezza diafana ideale per i pudori verginali di Margherita come per l’algida venustà di Elena. Pure Sofia Koberidze si sdoppia, incarnando – senza particolare personalità canora, ma bel dinamismo scenico – due classici ruoli di “spalla” come Marta e Pantalis. Marco Miglietta si conferma sagace tenore caratterista e, per quanto riguarda quell’autentico personaggio collettivo che nel Mefistofele è il coro, l’ensemble dell’Opera di Roma diretto da Ciro Visco non perde un colpo. Ma ancor meglio, se possibile, fanno i piccoli coristi delle voci bianche: cherubini e angioletti vari qui sono un miracolo – è il caso di dirlo – per amalgama e intonazione.




Mefistofele



cast cast & credits
 
trama trama

Fabrizio Sansoni
Un momento dello spettacolo
©Fabrizio Sansoni
 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013