«Anche
la santità è una tentazione», diceva Anouilh. È forse questa, meglio di
qualunque citazione goethiana, la più calzante epigrafe da apporre al Mefistofele
di Boito messo in scena da Simon Stone a Roma: spettacolo destinato
a dividere critica e pubblico, ma che – portando per la prima volta su un
palcoscenico italiano uno dei più autenticamente innovativi registi di oggi – assicura
unapertura di stagione dallinequivocabile appeal culturale, oltre che
mediatico, e conferma lOpera di Roma come il meno provinciale dei nostri
teatri lirici. Daltronde, si tratta di unepigrafe che sarebbe stata
sottoscritta volentieri dallo stesso Boito: il quale, avendo fatto del “dualismo”
(a cominciare dalla celebre poesia eponima) la parola-chiave della propria
concettualità e della propria estetica, sapeva bene che dietro a ogni diavolo
si cela un angelo caduto, e che zolfo e incenso sono profumi intercambiabili.
Cosa
fanno Stone e la sua scenografa Mel Page? Concepiscono una
scatola scenica di lattiginoso lucore destinata ad accogliere il Prologo in
cielo come la Notte del sabba, le falangi celesti come le baccanti orgiastiche:
unasepsi compulsiva, solo di quando in quando contraddetta da lampi di luce demonicamente
rossastra del light designer James Farncombe, e corroborata
dai costumi (della stessa Page) bianchissimi, quasi ospedalieri, indossati dal
coro tanto nelle vesti angeliche quanto in quelle del popolo dei più inveterati
peccatori. Insomma ogni uomo mantiene forse una zona di purezza, ma certo nessuno
è innocente; sicché Faust – sembra volerci dire Stone – è una sorta di Tannhäuser
alla rovescia: lì una sazietà di conoscenza carnale che porta a unansia di
conoscenza spirituale, qui la hybris di chi – dedicandosi soltanto allo
studio – non ha voluto sporcarsi le mani con i piaceri terreni, e prima che sia
troppo tardi decide di sperimentarli tutti, anche nelle loro bassezze. In
questa prospettiva, il patto col diavolo non è solo sul fronte del ritorno alla
giovinezza: è un tentativo di recuperare tutto il tempo perduto, riavvolgendo
allindietro il film della propria esistenza.
Un momento dello spettacolo ©Fabrizio Sansoni
Ne
scaturisce uno spettacolo tanto visivamente rarefatto quanto denso di spunti, allinsegna
di unironia che traduce bene quel grottesco affiorante di continuo dal
virtuosismo metrico del Boito librettista (e disseminato tra le pieghe
armoniche del Boito compositore): la festa di Pasqua spogliata da ogni valore
spirituale e tradotta in un metaforico ultimo giro di giostra, contrappuntato
da un Mefistofele in veste – anziché di frate salmodiante – di clown implacabilmente
demistificatorio nel bucare ogni palloncino; la scena del giardino concepita
non come rito propiziatorio alla seduzione di Margherita, ma una sorta di
piscina virtuale carica di palline colorate, molto cybersex, in cui la
fanciulla e Faust, Marta e Mefistofele (nonché una terza coppia di forzati del
piacere) possono consumare eros e alcol; il Sabba come derisione “ecumenica” di
qualsivoglia religione (con il sacrificio del maiale in quanto animale impuro)
e tribuna dove il demonio, arringante la folla, squaderna un mascellone e
indossa un fez che per lo spettatore italiano – Stone cerca sempre riferimenti
alla storia del paese in cui lo spettacolo va in scena – fanno molto ventennio,
a memento della perenne osmosi tra Impero del Male e dittatura.
Latto
del cosiddetto Sabba classico – dove Faust, ancora una volta al pari di Tannhäuser,
dopo aver conosciuto «lamore della vergine» conosce «lamore della dea»
(Venere per Wagner, Elena di Troia per Boito) – presenta invece un mondo
dove lironia non ha più cittadinanza: la distruzione di Ilio viene rievocata
attraverso tracce di guerra contemporanea (tute mimetiche, mitragliatrici…), in
cui Faust, espugnando Elena e la sua bellezza, è uno degli stessi soldati
invasori. Ma, con fenomenale colpo di teatro, da lì Stone trasporta lo
spettatore senza soluzione di continuità nellepilogo: candide e asettiche come
lintera cornice dello spettacolo, le rovine di Troia si trasformano in un ancor
più asettico ospizio, di cui Faust, tornato anziano e ridotto in carrozzina, è
uno dei pigionanti. Il «popolo fecondo» cui «donar la vita», vagheggiato nel
canto di Giunto sul passo estremo, qui sono proprio – in un geniale mix
di tenerezza e crudeltà – i vecchietti del nosocomio e Faust può morire, se non
redento, almeno con la coscienza pulita, al termine del suo viaggio tra «il
Real» e «lIdeale». Certo: luno «fu dolore» e laltro «fu sogno», come ricorda
Boito. Tuttavia, nella messinscena di Stone, lIdeale si è stemperato nel Virtuale,
così come il dolore del Reale ha potuto contare sullanestetico della volgarità.
Il conforto dato alluomo contemporaneo, forse, è solo questo…
Da
una regia così fortemente etico-politica, ancorché lontanissima dalletica di Goethe,
si sarebbe potuto temere un allestimento indifferente alle ragioni della
musica. Al contrario, Stone ha realizzato una messinscena tutta dentro alle
sollecitazioni della partitura e capace, anzi, di fare più dun passo indietro davanti
al necessario protagonismo orchestrale (sipario ancora abbassato durante louverture):
insomma uno spettacolo moderno nel senso più fruttuoso del termine, di quelli
cioè “ripensano” – non “violano” – i classici. Che però, proprio per queste
caratteristiche, sarebbe dovuta entrare in dialettica con una lettura musicale drammaturgicamente
altrettanto salda. Michele Mariotti fa suonare assai bene gli
strumentisti dellOpera di Roma, ottiene anche pregevoli effetti paradiscografici
(gli ottoni collocati sotto la platea, anziché in buca, hanno un riverbero e unintensità
inusitati), è un solerte accompagnatore del canto: ma a tali pregi non abbina
un talento drammaturgico musicale. La fertile disomogeneità linguistica della partitura
di Boito (declamazione e canto melodico; wagnerismi e avanzi grandoperistici; postbelcantismi
e tardoromanticismi) viene livellata da un pedale uniformante allinsegna di
tempi equilibrati, agogiche mai esasperate, un nitore privo di autentica forza
darticolazione. Si direbbe che stella polare della concertazione di Mariotti sia
la correttezza abbinata al buonsenso. Difficile trovare due sostantivi meno
calzanti per il Mefistofele.
Un momento dello spettacolo ©Fabrizio Sansoni
Chi
invece unisce il gusto del politicamente scorretto a un canto dalta scuola è
il protagonista John Relyea: brutto, sporco e cattivo, eppure di
gran classe come ogni Tentatore che si rispetti; basso fenomenale per timbratura
scurissima e risonanze telluriche, ma capace di flettersi a sfumature (quasi)
falsettanti; istrionico nel fraseggio senza mai perdere il controllo della
fonazione; imponente nella presenza scenica e duttilissimo nella gestualità. In
termini espressivi, e anche di pura musicalità (gli attacchi non sempre sono irreprensibili),
il Faust di Joshua Guerrero ha invece assai meno frecce al
proprio arco: limpressione è quella di un tenore ancora alla ricerca di sé
stesso, dallemissione laboriosa e non del tutto risolta, con un registro acuto
a tratti fulgido e a tratti sfocato.
Ulteriore
punta di diamante dello spettacolo, Maria Agresta si fa carico –
così come era nelle intenzioni di Boito – tanto di Margherita quanto di Elena:
i due antipodi del femminino da ricondurre a ideale unità. Vi riesce in modo
esemplare, con il viatico di una squisita forbitezza vocalistica (un timbro luminoso,
che però mantiene omogeneità nei numerosi affondi gravi richiesti dalla
scrittura boitiana) mai disgiunta da un accento sempre concentrato; e grazie,
anche, a una bellezza diafana ideale per i pudori verginali di Margherita come per
lalgida venustà di Elena. Pure Sofia Koberidze si sdoppia, incarnando
– senza particolare personalità canora, ma bel dinamismo scenico – due classici
ruoli di “spalla” come Marta e Pantalis. Marco Miglietta si
conferma sagace tenore caratterista e, per quanto riguarda quellautentico
personaggio collettivo che nel Mefistofele è il coro, lensemble
dellOpera di Roma diretto da Ciro Visco non perde un colpo. Ma
ancor meglio, se possibile, fanno i piccoli coristi delle voci bianche:
cherubini e angioletti vari qui sono un miracolo – è il caso di dirlo – per
amalgama e intonazione.
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