In un mondo degenere, cè chi perde la vista
e chi è ancora costretto a guardare. Virgilio Sieni, che è solito
ispirarsi ai classici artistici e letterari, si pone in relazione con il Premio
Nobel per la letteratura (1998) José Saramago. Entrambi sono in grado di
evocare mondi a metà tra la distopia, il fantastico e larchetipo, proponendo
visioni certamente personali e soggettive ma anche capaci di varcare i confini
dei propri orizzonti e farsi in qualche modo universali.
Il
nuovo lavoro del coreografo toscano, Cecità, attinge sia al testo
originale sia al proprio repertorio, introducendo però elementi di novità,
ancora una volta graditi allo spettatore. La performance, che ha già
debuttato a Torino e che recentemente è stata replicata al Teatro Fabbricone di
Prato, si apre tra rumori sordi e sprazzi di luce. Alcune sagome agiscono
protette o, meglio, ingabbiate da una sorta di “quarta parete” già vista in Petruška
(2018), a sua volta liberamente tratto dal celebre lavoro ballettistico dei
Balletti Russi di Sergej Djagilev, che debuttò il 13 giugno 1911 al
Théâtre du Chatelet di Parigi con coreografie di Michel Fokine su musica
di Igor Stravinskij.
Cecità è organizzato in tre quadri. Il
primo è caratterizzato da un notevolissimo gioco di luci che rimanda, oltre che
alla fascinazione del cinema delle origini, a immagini di tempesta, di caos, di
guerra, ma soprattutto allincapacità di comprendere derivata
dallimpossibilità di vedere. Da una parte si comunica la presa di coscienza
della propria condizione di cecità, dallaltra si cerca il valore degli altri
sensi, ludito, il tatto, come surrogati di ciò che è venuto a mancare. Fruendo
dellopera di Saramago, il lettore ha quasi limpressione di non riuscire a
vedere e Sieni, senza essere didascalico, riesce a trasmettere la stessa
sensazione. Per unipotetica messinscena di Cecità, si ha infatti la tentazione di immaginare
i danzatori privati del senso della vista, mentre in questo caso è lo
spettatore che viene reso non vedente e ridotto alla sola (ma profondissima)
potenzialità di percepire. Da un punto di vista più squisitamente narrativo, la
prima parte sembra dedicata allindividuo, allisolamento che caratterizza chi
non riesce – per questioni sensoriali – a rimanere in contatto col mondo
esterno e sceglie di affacciarsi a una dimensione altra, insieme spaventosa e
attrattiva. E viene in mente a tal proposito il protagonista del film The Sound of Metal (2019) che, improvvisamente privato delludito,
finisce per accettare il suo nuovo status piuttosto che continuare a vivere in
un mondo che non può più comprendere.
Un momento dello spettacolo
© Virgilio Sieni
Il
secondo è un quadro corale. La “quarta parete” si alza e mostra i protagonisti
relegati in una stanza limitata da teli trasparenti, dunque accessibile al
pubblico. «Il mondo è tutto qui dentro», recita una voce, evocando una sorta di
dimensione limitata e limitante in cui i protagonisti, potenzialmente luno
nemico dellaltro, non possono rinunciare allappoggio reciproco. I danzatori
si esprimono tramite il linguaggio del corpo – un linguaggio ormai codificato
da Sieni, che ha fatto del movimento
una poetica personalissima ma efficace – e quello verbale. Si abbandonano alla
pesantezza delle membra e insieme invocano luno il nome dellaltro: Claudia,
Maurizio sono i nomi reali dei danzatori, che finiscono così per immedesimarsi
a pieno nella storia. È la messinscena di corpi devastati ma insaziabili,
capaci di reagire, ma tanti sono i richiami al mondo attuale, alle sue
degenerazioni sociali, ecologiche, culturali. Senza nulla togliere al sempre
meritevolissimo corpo di ballo, lesibizione di Claudia Caldarano
risulta particolarmente efficace, in una fusione inedita e di fortissima
intensità di movimento e voce.
Un momento dello spettacolo
© Virgilio Sieni
Il
terzo quadro è disturbante uditivamente parlando. È il capitolo dedicato alla
diversità, anche profonda, tra gli individui. Un microfono montato su un lungo
palo cavo, manovrato da uno dei danzatori nei panni di una maschera bianca che
rimanda ai professionisti dellarte, a un Pierrot tragico o a un Arlecchino
privato delle sue toppe colorate, produce rumori striduli o talmente gravi da far
tremare la struttura della platea. Dalle quinte – anchesse bianche e dispose
in maniera non canonica – emergono altre figure animalesche, volpi, capri, un
cervo, un cavallo. Sono esseri metà umani e metà animali e si è indecisi su
quale delle due parti sia veramente bestiale. Gli oggetti di scena, forse non
necessari, sono però il forte rimando alla trama dellopera originale. Anche il
colore non è lasciato al caso: i non vedenti di Saramago non vivono in un mondo
buio ma in un bianco accecante che non lascia pace, che non permette di
riposare.
Intanto
le parole dello scrittore
lusitano risuonano nel teatro, evocando «il mostruoso desiderio di non
recuperare la vista», immediato riferimento a una distopia contemporanea e
veramente prossima in cui il male sembra trionfare sul bene con estrema e
agghiacciante naturalezza.
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