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Personaggi contro la Storia: Trilogia giocosa di Calvino

di Gianni Poli
  I nostri Antenati
Data di pubblicazione su web 23/11/2023  

Una guardia alabardata attende gli spettatori del Prologo, all’ingresso del percorso che li condurrà in viaggio nel paese immaginario del narratore ligure, poi decisamente cosmopolita. La impersona l’attore Enrico Campanati, immerso nella verzura d’un bosco in cui si mimetizza nel costume e nei cespugli che gli crescono ben radicati in capo, segno di fedeltà secolare nel servizio. La sua facondia ci introdurrà a panorami sorprendenti e a tanti incontri con personaggi anacronistici e inventati. Nella finzione, la calma dell’attore è rassegnazione dichiarata al ruolo, per vincere il tempo con saggia pazienza e prepararci alle due ore abbondanti dello spettacolo, con riflessioni sull’albero genealogico di ciascuno. Una discendenza che riguarda ognuno e riconcilia tutti con un’origine comune nella caverna ancestrale, dimora del primo nostro antenato.

Saranno tre episodi, ispirati a tre romanzi di Calvino, visti da diverse angolazioni e con differenti stili. Emanuele Conte intende Il visconte dimezzato (1951) come saga proto-borghese, pure implicata in gesta di guerra (austro-turca, a fine Settecento), di cappa e spada, fino ad addolcirsi in un amore che viene man mano a illuminare lo sfondo burrascoso segnato dalle classi e dai conflitti di potere. L’eroe è Medardo di Terralba che, colpito in battaglia da una cannonata, viene spaccato in due. Il salvataggio dei due pezzi recupera le due figure complementari, l’una del bene e l’altra del male. Reduce di guerra, Medardo il “gramo” (Matteo Traverso, in completo attillato dagli arabeschi d’oro) semina dissidio e violenza fra i sudditi. Vorrebbe sposare Pamela, ma lei prende tempo, soppesa e rifiuta. Il narratore è un nipote misconosciuto che usa la macchina da scrivere per tramandare la vicenda. Interviene il dottor Trelawney, che dimentico d’ogni competenza medica, va a caccia di fuochi fatui, tonificandosi con sorsi di cordiale. Molti personaggi spariscono, come altre contrade e città romanzesche.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Fondazione Luzzati Teatro della Tosse

Il dramma risibile si concentra sul duello fra le due metà viscontee ritrovatesi, affrontate alla conquista dell’unica bella disponibile. Occasione nella quale il dottore può ricucire in corpo unico i monconi. Ne risulta qualche incomprensione, qualche incongruenza di rapporti e immotivati effetti, pure fiabeschi. Resta l’efficacia dei ritratti (da convenzione figurativa), come quello del Visconte che appare vivente nel grande quadro appeso alla parete: reso a metà dalla luce scabra e a taglio laterale di Matteo Selis. Il dottore, caratterizzato da Pietro Fabbri, ha l’accento inglese, i calzoni alla zuava e la bombetta. Nei costumi vivaci di Danièle Sulewic piace anche Antonella Loliva, pastorella scaltra o maliziosa contadinella, una Pamela bene accorta nell’accasarsi.

Raggiunto il secondo luogo scenico, lo spazio si presenta insolitamente significativo in un locale vuoto. La scenografia (di Conte e Ferrando) è costituita da un impalcato concavo, a superficie bianca e levigata; una “pagina” (che dà il titolo all’episodio), anzi doppia pagina, da libro aperto, ma anche terreno, collina o valle, sintesi orografica d’un paese vagheggiato e dunque abitato dall’autore: fra Liguria e Altromondo. S’incontra allora una realtà misteriosa ed ermetica da decifrare. Sorge dall’oscurità una figura nera, incappucciata, che striscia al suolo. Una donna in veste monacale, suor Teodora (Valentina Picello), che assume il ruolo di Agilulfo, il cavaliere inesistente e a tratti rappresenta Bradamante, la donna di lui innamorata.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Fondazione Luzzati Teatro della Tosse

Un copione epurato al massimo, nell’adattamento di Giovanni Ortoleva; estratto d’una parte soltanto degli umori cavallereschi dell’originale, per esporre la condizione del bianco, del nero e della luce, essenziali per la creatura che cerca se stessa nel silenzio e l’isolamento. La partitura verbale è tutt’uno con la corporea duttilità tormentata d’una attrice tanto umile quanto grande nel talento costruito con lunga e paziente scuola. La sua prestazione è pantomima e danza, metamorfica presenza in stati umani di gamma estesa. Sa mostrare il miracolo della concezione delle parole e della loro scrittura, addentrandosi nel rapporto fra scrittore e lettore. Si ammira dunque la parola nel prendere voce, il protagonismo contenuto crescere e dilagare in palcoscenico, alzarsi a fendere il vuoto brandendo un’arma immaginaria, combattente contro fantasmi e contro l’essenza di sé inafferrabile. Perfino l’azione d’una sepoltura è vissuta e compresa, simbolicamente gestuale in forza e durezza concrete, nei movimenti enfatizzati da Anna Manella. Un’ascesi di chi la terra la conosce dall’interno e dal profondo.

Viene l’eco d’una voce registrata a dare compresenza al doppio che affiora, nei personaggi, ora di Bradamante ora del suo Cavaliere. Nella musica di Pietro Guarracino, rulli di tamburo e una campana si fondono con le voci. Nelle luci di Davide Bellavia scorrono ricordi di sentimenti e di natura. Si perdono le figure di Agilulfo (vuota armatura) e di Gurdulù (corpo privo di coscienza), ma torna percepibile il simulacro di Rambaldo, l’amante che la guerriera attende e (forse) nell’abbraccio ritrova. Vicenda di respiri, di voci e di fantasmi, in una rappresentazione molto tesa e contrastata dei bisogni e dei desideri umani elementari. Venticinque minuti che varrebbero da soli a emozionare la serata.     

Passando alla sala teatrale per Il barone rampante (1957), lo spazio – allestito nella platea per il pubblico sul palco – è organismo artificiale di passerelle, tralicci, gradini e cordami che possono valere allegorie. La fuga dalla casa natia è già avvenuta, per Cosimo Piovasco di Rondò, baronetto insofferente, sognante e intellettuale nutrito di Illuminismo. Innamorato adolescente, curioso di un mondo raggiungibile traversando sui tronchi e sui rami. Agisce molto nella mente del protagonista, nell’adattamento di Laura Sicignano, il viaggio avventuroso del rampante, un Alessio Zirulia con doti da equilibrista e fluido parlatore.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Fondazione Luzzati Teatro della Tosse

In quella selva disegnata da Conte e Ferrando, per una regia che parte dall’introspezione narrativa del personaggio, il racconto appare a volte statico, pure nelle deambulazioni, sospensioni e dislocazioni arboree, suggerite da Piera Pavanello. Un’altalena riporta il giovane allo stato ludico, all’età dello slancio più vitale, nell’atmosfera luminosa e la sonorizzazione di Luca Serra. D’allora gli incontri d’infanzia e la scelta di vita nei ricordi ravvivati dell’adolescenza. Poi l’amicizia con il brigante e la compassione, nel dolore per la sua cattura e l’impiccagione, in una recita epica e sommessa. Ancora un’accensione nel finale, come risucchiato dal miraggio utopico d’una mongolfiera sulla quale l’eroe s’invola.




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Un momento dello spettacolo

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© Fondazione Luzzati Teatro della Tosse


 
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