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Sogno o son desto, che (bella) confusione!

di Gianni Poli
  La vida es sueño
Data di pubblicazione su web 03/11/2023  

Sul palcoscenico non attrezzato, il fondo è una parete verde con tante porte, accessi a diversi luoghi deputati. L’ingresso dei personaggi in scena è una frenetica autopresentazione, un faticoso riconoscimento di luoghi e di persone di cui si è perduto il senso e la nozione. Un caos vigile, dal quale emerge la situazione abnorme: il principe ereditario Segismundo, figlio di re Basilio, è prigioniero in una torre. Compare incatenato, maltrattato, stordito e dolente. Alle prime parole, è balbuziente. Si lamenta della disgrazia e dell’ingiusta pena, come sconvolto dall’abbrutimento del corpo e della mente. Nulla si sa dei precedenti e sul perché di quel castigo. Poi Basilio, astrologo praticante, ci informa di un oroscopo che gli avrebbe rivelato il destino del figlio, quello di diventare un tiranno e perciò lo avrebbe condannato.

L’adattamento del testo – dramma barocco in tre atti e in versi del 1635 – è riduttivo e accelerato drammaturgicamente, nel rapido snodarsi dell’azione. Non è facile, immediato, riconoscere i moventi dei personaggi. Alcuni sono soppressi, altri assumono evidenza magari recitando travestiti. Si entra nella vicenda man mano che s’intrecciano ai gesti le parole. La storia mostra due liberazioni di Segismundo, due incontri-scontro tra padre e figlio e fra loro una guerra, fino alla maturazione e conversione dell’eroe vittorioso, che risolve il suo dilemma intimo, accettando l’equivalenza fra la vita e il sogno e scegliendo comunque la via del male minore.   



Un momento dello spettacolo 
© Javier Naval

L’impressione è di possesso disinvolto, da parte degli interpreti, d’un materiale poetico duttile e plurivalente, reso con sicurezza comunicativa. La rappresentazione ammoderna – nei costumi contemporanei che segnano ruoli e gerarchie e negli atteggiamenti – una vicenda morale e filosofica severa e problematica, sull’esistenza messa a prova dai rapporti quotidiani, in una società immaginaria, ma che vive di poteri, di gioie e dolori riguardanti gli umani d’ogni tempo. Il genere e la forma drammatica forniscono una gamma di stilemi che sospendono giudizi e valori, per concentrare sulle scelte umane un costante, insolubile mistero. Drammatizzare le domande su realtà e finzione accresce l’impegno per decifrarle. Fra il comico e il tragico, ogni atto o intento pare teso a salvarsi, a risolvere un’ignoranza fondamentale sul proprio destino e sulle scelte che lo originano e lo guidano. Nella sua modernità, la recitazione non celebra soltanto la severità della parabola per meglio aprirsi all’elemento fantasioso, immaginario. Riesce con un fraseggio non retorico a trarre dalla versificazione pure rimata un ritmo adatto all’asciutta e allarmante densità del testo.  

Donnellan richiede un contatto conclamato dell’attore con lo spettatore, per un confronto corale, una testimonianza che dalla scena susciti la risposta della sala. Infatti, alcune incursioni provocano il pubblico alla partecipazione, come quando Segismondo attraversa la platea e interloquisce con gli spettatori. L’origine spagnola facilita gli attori nel loro controcanto nei confronti della propria cultura. La regia rispetta il nucleo profondo e poetico del testo, per poi superarne la filologia e affidare all’energica reattività degli interpreti la connotazione più intensamente problematica. Evasa la cornice barocca più convenzionale, dura il bisogno dell’enfasi rituale nel dibattito sui sentimenti, sugli istinti e le conseguenze del loro controllo fra volontà e responsabilità o sorte ignota e casuale.

Pure nell’ossessività del tema, la metafora applicata alla vita varia negli esempi forniti dall’esperienza, che vanno dagli sbalzi della condizione sociale ai vincoli psicologici in cui l’individuo si dibatte. Nell’affrontarsi del padre e del figlio s’incarna la coppia parentale emblematica da cui discendono i destini, le vicissitudini e il senso della vita intera. Quel nucleo antropologico è sentito con emozione dal regista, ma compreso ed espresso con tutta la razionalità della sua estetica, fisicamente performativa. Anche così l’uso del corpo appare “primitivo”, spontaneo in nuova strutturazione consapevole e controllata. Perciò pianto e riso s’effondono naturalmente verso un miraggio d’equilibrio, irraggiungibile eppure essenziale, come nelle scene stupende, ripetute e complementari, del perdono fra figlio e genitore. I riconoscimenti, gli abbracci; le rabbie e i dissensi, diversi per livello e sensibilità, mantengono un’ironia che mai banalizza la passione o il giudizio (nel regime manicheo vigente all’epoca) e compone dei personaggi che sanno conciliare gli opposti in riconoscibili ritratti personali.   

Un momento dello spettacolo
© Javier Naval

Discernere il confine tra coscienza e inconscio sarebbe un arduo obiettivo perseguibile, a cui però il regista preferisce gli eventi nella loro eloquente incidenza fisica. Caotici certo, ma appunto più prossimi a una verità sempre inseguita e mai posseduta. L’artista ci ricorda che siamo a teatro, se dalle quinte giungono gli applausi (registrati) di una corte interessata e connivente, aspetto “falso” della risposta “vera” che il pubblico restituisce agli interpreti sinceri. La teatralità spesso surreale, storpiata, ammicca al vaudeville e cita il musical anni Cinquanta. Fra gli anacronismi, la radio a transistor dalla quale il protagonista ascolta una canzoncina, stereotipo della visione della cultura iberica vulgata: il leitmotiv è il tormentone Cuanto la gusta, cantata da Carmen Miranda.

Recitato in spagnolo da attori di lingua madre (con soprattitoli), lo spettacolo consente di apprezzare la musicalità e il ritmo dell’originale. D’altro canto, una buona traduzione avrebbe migliorato la fruizione della sostanza concettuale del testo, davvero rilevante.

Gli attori sono da lodare sia quando suscitano entusiasmo per esuberanza e simpatia, sia nel mascherare il fascino delle loro sapienti ambiguità o sospensioni e balzi di registro. Alfredo Noval è un Segismundo vigoroso, dalla mimica estesa; strabiliante ora per lo slancio, ora per la pietosa, assidua indagine su sé stesso. Si confronta con Ernesto Arias, figura paterna sfuggente, nella quale s’impastano amore, velleità e fragilità a condizionare ogni relazione. In Rosaura arde la verve impetuosa o maliziosa di Rebeca Matellàn, quando in tuta militare amoreggia con Segismundo o sfodera la spada (dalla storia favolosa) contro il seduttore che poi sposerà. Questi è Astolfo (Manuel Moya), nipote del re, aspirante al trono che s’accontenta delle nozze in famiglia. L’agile Clarin è reso da una donna, Goizalde Nûñez, quale servo e fool di convincente, fredda comicità. Irene Serrano recita Estrella, anch’essa corteggiata dal furioso, delirante eroe che l’avrà in moglie. Clotaldo trova in Ángel Ruiz il degno vassallo e tutore del prigioniero riabilitato. Molte battaglie, dunque, in una lunga guerra; una pace o tregua che riconcilia i contendenti tormentati; infine, la riconquista di libertà e coscienza, ma senza certezze assolute.     




La vida es sueño
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Un momento dello spettacolo © Javier Naval

Un momento dello spettacolo visto il 12 ottobre 2023 al Teatro Gustavo Modena© Javier Naval
 
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