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Non sprechiamo questa crisi

di Giuseppe Gario
  Non sprechiamo questa crisi
Data di pubblicazione su web 18/10/2023  

Unanime, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato e proclamato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il 10 dicembre 1948 a Parigi. Da allora si sono fatti molti progressi, ma gli stati nazionali restano per definizione appiattiti sui gruppi di interesse localmente dominanti.

«“La follia è comportarsi sempre allo stesso modo e attendersi un risultato diverso”, ha detto Albert Einstein». «La crisi finanziaria ha aggravato le già evidenti disuguaglianze che costituiscono il male della nostra generazione. Queste ingiustizie, di cui nessuno dovrebbe essere soddisfatto, alimentano una rabbia legittima che dev’essere incanalata per eliminare i meccanismi fraudolenti». «Limitarsi a additare capri espiatori, semplificare fino all’estremo senza cercare di capire che cosa sta accadendo, è oscurantismo. È considerare imbecilli tutti. È decidere per loro». «Elettori, attenzione. Siate curiosi. Ricordatevi che contrapporre una minoranza vincente a una maggioranza lesa è riduttivo: è la tattica elettorale del “divide et impera”». «Dato che la finanza supera le frontiere, la scala giusta è quella europea. Chi è tentato dalla ritirata non deve dimenticare che contro il rischio americano di deregolamentazione e il dumping cinese, non ce la faremo da soli». «Dobbiamo anche tenere presente l’urgenza di ripensare la distribuzione del reddito e la transizione ecologica. Prima che accada l’irreversibile: una società individualizzata, privatizzata, senza investimenti pubblici, dove nessuno nasce né prospera in libertà e uguaglianza dei diritti. Non siamo più molto lontani» (M. Vincent, Le banquier et le citoyen. L’Europe face aux crises financiéres, Paris, FEPS-Fondation Jean Jaurès, 2019, pp. 79-80). Il laboratorio Italia conferma.

Operatore della City, poi docente di regolazione finanziaria e storia delle crisi alla Sorbona, Vincent attualizza l’analisi che fu già di Carlo Cattaneo (1848): «Le correnti si muovono verso due fronti: o l’Autocrate d’Europa, o gli Stati Uniti d’Europa» (cit. in Y. Hersant-F. Durand-Bogaert, EUROPES, Paris, Robert Laffont, 2000, p. 932). Poi di Georges Bernanos (1946): «L’Europa è decaduta nel momento in cui ha messo in dubbio se stessa, la sua vocazione e i suoi diritti. Non si può negare che sia stato anche il momento dell’avvento del capitalismo totalitario»; e André Malraux: «L’ottimismo, la fiducia nel progresso, sono valori americani e russi più che europei. L’eredità dell’Europa è l’umanesimo tragico» (ivi, p. 934).

Lo confermano i migranti africani via Italia, vicina non solo geograficamente perché un secolo fa, «contemplando lo scenario del Mezzogiorno dopo la sconfitta del grande brigantaggio, nel 1899 Francesco Saverio Nitti spiegava che l’emigrazione è la manifestazione di un’autonoma soggettività popolare che si manifesta nella storia con una forte capacità di azione. La scoperta di un altro mondo e soprattutto di un mondo diverso sono dimensioni eminentemente politiche». «Di chi ha visto un altro mondo e non ha più voglia di tornare a essere quello che era» (A. Scotto di Luzio, L’equivoco don Milani, Torino, Einaudi, 2023, p. 73).

Non sprechiamo questa crisi.

 

Non sprechiamo questa crisi (Roma-Bari, Laterza-Gedi, 2020), esorta Mariana Mazzuccato, docente di Economia dell’innovazione e del valore pubblico, University College London. «Il capitalismo, infatti, sta affrontando almeno tre grandi crisi. Una crisi sanitaria indotta dalla pandemia ha rapidamente innescato una crisi economica con conseguenze ancora sconosciute per la stabilità finanziaria, e tutto questo si gioca sullo sfondo di una crisi climatica che non può essere affrontata con il solito approccio del “business as usual”» (p. 11). «A meno che la creazione di denaro non sia legata alla creazione di opportunità nell’economia reale, la maggior parte della liquidità va di nuovo a finire nel settore finanziario, esattamente com’è accaduto nel 2008. La marginalizzazione dello stato nella sua funzione di investitore ha quindi privato i governi sia di un vitale ruolo precauzionale nell’affrontare gli eventi imprevisti sia di uno strumento vitale di stabilizzazione, oltre che di un ruolo chiave di trasformazione per imprimere un indirizzo verde all’economia» (ivi, p. 80).

«Ci siamo lasciati ossessionare dalla velocità della crescita anziché guardare alla direzione che prendeva. Se lasciate libere di agire, le economie di mercato tendono a prendere direzioni che privilegiano il breve termine e l’espansione del valore, come la finanziarizzazione e la deindustrializzazione negli ultimi decenni» (ivi, p. 82). «Un caposaldo dell’ortodossia, a questo punto, avrebbe dovuto essere smentito dagli eventi, ovvero che le economie hanno una spontanea tendenza alla piena occupazione. Tuttavia, quest’idea è dura a morire e si riflette nei requisiti sempre più stringenti imposti per l’accesso al sussidio di disoccupazione: sotto sotto, infatti, l’opinione è che la scarsità di lavoro non è mai un problema, e tutto dipende unicamente dalla riluttanza della gente a lavorare. Un programma occupazionale pubblico supererebbe l’obiezione morale di subordinare l’erogazione dell’indennità di disoccupazione al fatto che le persone cerchino lavoro, quando invece il lavoro non c’è» (ivi, pp. 88-89). «I posti di lavoro del Public Job Programme potrebbero fare capo a tre grandi gruppi: a) la cura dell’ambiente; b) la cura della comunità; c) la cura delle persone» (ivi, p. 88).

È la svolta di Next Generation UE che ha radici profonde. «Come affermato da Guglielmo Ferrero, ma ancor prima dallo storico inglese Lord Acton e dal francese Édouard Laboulaye, e successivamente ripreso da Luigi Sturzo, da Wilhelm Röpke e da una folta schiera di storici e dei teorici della politica, con il cristianesimo si fa strada l’idea che non debba essere la politica a giudicare la coscienza, ma che debba essere quest’ultima a giudicare la prima, in forza di un precetto religioso: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Così è entrata nella storia la consapevolezza che Caesar non è Kyrios, che il potere non è il Signore, l’Assoluto, e che la coscienza è superiore a qualsiasi autorità politica» (F. Felice, La politica prima e dopo Gesù: questione di libertà, in «Avvenire», 5 settembre 2023, on line).

«Il punto è che la Rivoluzione francese e i suoi epigoni (fino ai nostri giorni) non hanno mantenuto le promesse, spingendo sull’acceleratore di libertà ed eguaglianza e trascurando la fraternità, senza la quale però le prime due impazziscono e ci portano alla situazione attuale» (A. Monda, Scenari. L’urgenza di tornare a fare politica, in «Avvenire», 10 ottobre 2023, on line). «Il cloud oscura la democrazia» («Avvenire», 5 settembre 2023, on line) è il titolo dell’intervista di Simone Paliaga a Vili Lehdonvirla, docente a Oxford e autore di «Cloud Empires. Come le piattaforme digitali stanno superando gli Stati e come possiamo riprendere il controllo (Torino, Einaudi, 2023). In esso propone una carta digitale dei diritti per limitare il potere delle piattaforme e anche in questo caso il Regolamento UE sul trattamento dei dati è il primo e sinora unico a gestire la materia. «Ha molti aspetti positivi, ma rende più difficile per le piccole imprese estere offrire servizi ai cittadini europei». «È uno dei motivi per cui le piccole imprese si avvalgono di piattaforme come Google Cloud e Apple App Store che forniscono un unico ambiente commerciale globale. Maggiori sono le differenze tra le leggi dei vari Paesi, maggiore è per le piattaforme il valore degli affari. Solo che il loro deficit di democrazia è molto grave».

Lo è perché nella modernità l’economia ha una dinamica anche tecnologica inarrestabile e «quando l’economia si spinge al di là della “statica”, essa diviene meno scienza, e più storia» (J. Hicks, Analisi causale e teoria economica, Bologna, il Mulino, 1981, p. 12). Perciò, «l’idea di Keynes veramente importante e completamente nuova è che le decisioni prioritarie che determinano tutto il resto sono le decisioni di spesa». «Prima si costruiscono le fabbriche (di solito finanziate con un’espansione del credito delle banche); questa attività genera reddito addizionale e i redditi generano i risparmi addizionali che corrispondono alla spesa iniziate. (Dopo aver scritto tutto questo ho scorso il capitolo Della moneta nel secondo libro di La ricchezza delle nazioni per scoprire che Adam Smith dice quasi la stessa cosa)» (N. Kaldor, Ricordi di un economista, a cura di M.C. Marcuzzo, Milano, Garzanti, 1986, pp. 79-80). Le decisioni di spesa concretizzano le scelte – quali beni e servizi, per chi, con quali soldi e obiettivi – su cui una comunità costruisce se stessa e il proprio futuro.

Non ci sono comunità e futuro dove il denaro fa solo denaro e non sorprende leggere che «la paura ha modellato il comportamento umano negli ultimi 700 anni, e possiamo trarne lezioni per il presente. La principale è: “Il potere dipende dalla paura”». «Lo ha riassunto Hermann Göring, capo della aviazione di Adolf Hitler: “Tutto ciò che dovete fare è dire che siete sotto attacco e denunciare i pacifisti che non hanno patriottismo e mettono il paese in pericolo. Funziona sempre”». Così «The Economist» che recensisce Fear: An Alternative History of the World di Robert Peckham, Royal Historical Society (How fear has shaped human affairs, 16-22 settembre 2023, on line). «Due ragioni convincenti per leggerlo. Anzitutto in un numero deprimente di paesi tra cui Cina India Russia, i governi intensificano il ricorso alla paura per tenere in riga i cittadini. In secondo luogo, i ricordi su come tali tattiche hanno funzionato in passato sono confusi in modo preoccupante» (ibid.).

Oggi «per molti intellettuali e politici contemporanei la nostra società si confronta col pericolo di altri barbari, che sono le “masse” da tenere a bada per evitare che distruggano la civiltà. Non volendo prendere in considerazione i problemi del mondo contemporaneo, risulta loro più comodo tirar fuori dal cassetto il vecchio spauracchio della decadenza di Roma, piuttosto che esaminare i fattori interni di divisione, nonché l’aumento delle disuguaglianze economiche o le limitazioni delle libertà. Oggi alcuni storici dicono che nel tardo impero la vera corruzione risiedeva nella pratica politica, che antepose gli interessi privati a quelli collettivi, e non è strano che le loro prese di posizione suscitino riserve. Infatti ci possono indurre a paragoni scomodi con analoghe situazioni del presente. Una interpretazione che voglia porre l’accento sui problemi interni alla società romana non ha necessità di ricorrere ai barbari per spiegare la crisi dell’impero”» (J. Fontana, L’Europa allo specchio. Storia di un’identità distorta, Torino, Laterza, 1994, pp. 22-23). «Ciò di cui abbiamo bisogno, prima di tutto, è sapere che i nostri problemi, e quelli del mondo sottosviluppato, debbono essere risolti congiuntamente» (ivi, p. 197).

L’Europa è nata e vive nell’interdipendenza, ma solo dopo due guerre mondiali in una sola generazione ne abbiamo preso atto. William Robertson l’aveva capito già nel 1769: «Chiunque voglia scrivere la storia di un grande Stato d’Europa nei due secoli passati è costretto a scrivere la storia dell’Europa tutta» (History of the Reign of the Emperor Charles V, prefazione a EUROPES, cit., p. 930). E nel 1796 Mirabeu lo ribadiva: «Verrà il tempo in cui l’Europa non sarà che una sola famiglia, allora si concluderà il patto federativo del genere umano» (Moniteur, 26 agosto 1796, ibid.). ONU e UE sono oggi realtà, fragili o forti quanto lo siamo noi cittadini del mondo e d’Europa.

L’interdipendenza vive di cultura, perché «capire e farsi capire sono i due pilastri di una politica degna di questo nome» (Scotto di Luzio, L’equivoco don Milani, cit., p. 89). Interdipendenza anche nel tempo. «La maggior parte delle persone di oggi stanno meglio dei nostri antenati perché i cittadini e i lavoratori delle prime società industriali si sono organizzati, hanno sfidato le scelte dominate dalle élite sulla tecnologia e sulle condizioni di lavoro e hanno imposto modalità di condivisione più equa dei guadagni derivanti dai miglioramenti tecnici. Oggi dobbiamo fare di nuovo la stessa cosa» (D. Acemoglu-S. Johnson, Power and Progress: our thousand-year struggle over technology and prosperity, London, Basic Books, 2023, p. 7).

Lungo il percorso tracciato nell’UE, «perché l’unione faccia la forza. Una forza giuridica, prima di tutto. Le nostre lacrime, infatti, non turbano il potere, compreso quello militare» (A. Politkovskaja, Proibito parlare, Milano, Mondadori, 2010, p. 107). È storia, anzi attualità, prima europea e ora globale.

«Di fatto, in questo tempo ansioso, il futuro si colora delle più diverse e smisurate speranze: quante ne propone un mondo che – solo apparentemente globalizzato – resta, come scrisse Antonio Gramsci, “sempre e ancor più di prima “grande e terribile”» (A. Prosperi, Tremare è umano. Una breve storia della paura, Milano, RCS MediaGroup, 2021, p. 149).






 
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