Forse solo Verdi, nel Don Carlos,
riuscì a descrivere il rapporto tra lUomo e la Storia – linterazione di
questultima con gli individui, la sua capacità di condizionarli fino ad
annichilirli – in modo ancor più stringente di quanto seppe fare Fromental Halévy nella Juive. Verdi, però, lo fece scardinando dallinterno i meccanismi
del Grand-Opéra (peraltro arrivato al capolinea, in quel 1867 che vide
la nascita del Don Carlos); mentre Halévy e il suo gettonatissimo
librettista Eugène Scribe, agendo in pieno fulgore grandopéristico (1835), in
tali meccanismi sinserirono conservandone ogni regola statutaria, a partire da
quella dimensione ipertrofico-decorativa che teoricamente diluisce la
drammaturgia e raffredda la narrazione. Ne derivò un affresco colossale, dove
il nucleo drammatico primigenio viene esaltato – anziché infirmato – dalle
tante parentesi esornative, innalzando La Juive a ideale
equivalente del Victor Hugo di Notre Dame de Paris, che daltronde
precede il capolavoro di Halévy di soli quattro anni: autentiche quintessenze del
romanticismo francese luna nel teatro musicale, laltra nel romanzo.
Tuttavia, sta di fatto che la
ricezione di questopera in Italia è sempre stata faticosa e incompleta. La
Juive (o, come la si è declinata per anni nella sua versione italiana, Lebrea)
è rimasta un oggetto misterioso da curiosare alla lontana piuttosto che
compulsare a fondo: una sorta di Trovatore al femminile, dove
lagnizione avviene solo quando il protagonista eponimo viene giustiziato e in
cui a un genitore – o fratello, nel caso del Trovatore – biologico
inconsapevole fa riscontro un genitore adottivo clandestino e “diverso”. E che
si tratti di una zingara nomade come Azucena o un ebreo errante come Eléazar,
entrambi feroci nei rancori e animaleschi nel loro amore genitoriale di
riporto, in fondo cambia poco. Daltronde la stessa memoria storica di Enrico Caruso,
che contribuì allo sdoganamento novecentesco di questa partitura nel frattempo
accantonata (e a tuttoggi resta il suo interprete più proverbiale), ne ha
veicolato una percezione tardoverdiana, protoverista, comunque stilisticamente
inappropriata al di là della grandezza del cantante.
Una scena dello spettacolo © Andrea Macchia
Tra semplificazioni vocali e tagli
destrutturanti, ci si è insomma concentrati sul dramma privato anziché sul
grande affresco storico (siamo a Costanza nel 1414, durante quel Concilio
destinato a sancire la più sanguinosa cecità cristiana non solo contro gli
infedeli ebrei, ma pure verso i riformatori), che per il semita Halévy
rappresentava lineludibile basamento del dramma stesso. Né hanno saputo
restituire la fisionomia più autentica quelle riprese che, negli ultimi
decenni, si sono avute in teatri tedeschi e mitteleuropei. Lì il focus è
stato – forse ripensando agli entusiasmi che questopera seppe scatenare in un
compositore non certo filogiudaico come Wagner – intorno alla dimensione
“germanica” della Juive, la sua costruttività plasticamente unitaria (al
di là della presenza di singoli “numeri” ben enucleabili), i suoi reticoli
leitmotivici, la sua strumentazione mai sussidiaria rispetto al canto: punto di
vista anchesso parziale, che ha comportato a sua volta vari tagli, magari
diversi da quelli della precedente tradizione.
Lo spettacolo che ha inaugurato il
Teatro Regio di Torino non avrà forse tutte le carte in regola per offrirci una
Juive completamente attendibile, però ne presenta molte. Innanzi tutto
cè un tenore – Gregory Kunde – che, sulla scia carusiana, innalza il
protagonista maschile a protagonista tout court dellopera, ma
con unaderenza filologica, stilistica e, di conseguenza, psicologica che
Caruso in quei suoi anni pionieristici non poteva avere. La totale adesione di
Kunde al personaggio, daltronde, è frutto duna parabola artistica che
curiosamente ricalca quella del creatore del ruolo, Adolphe Nourrit: storico
tenore rossiniano “contraltino”, ossia estesissimo nel registro acuto e “di
grazia” nel senso ottocentesco del termine, che nella seconda parte della
carriera si mutò in baritenore, acquistando (con i mutamenti fisiologici
delletà) e sviluppando (grazie a una tecnica agguerritissima) unampiezza del
registro centrale e una chiaroscurata drammaticità timbrica impensabili nella
voce diafana e puntuta di prima. Kunde, che proprio dal modello contraltino era
partito, a sua volta si è via via trasformato nel baritenore per antonomasia
dei nostri giorni: la sonora robustezza dei centri – mai disgiunta da acuti
ancora scattantissimi, quando sollecitati – e gli impasti ombreggiati del
timbro che ne sono il corollario restituiscono, con modernità di gusto e
“verità” teatrale, tale problematicissima fisionomia canora, di cui il ruolo di
Eléazar resta uno dei muri maestri. La (relativa) mancanza di freschezza,
inevitabile in un cantante alla vigilia dei settantanni quale è Kunde, non
infirma nulla: anzi, si traduce in veicolo espressivo per un personaggio che
comunque è anziano; e, parallelamente, resta prodigiosa la tenuta vocale senza
cedimenti, la perfetta risonanza a tutte le altezze, la capacità – dopo aver
mandato in visibilio il pubblico con la grande aria del quarto atto – di
lanciarsi ancora nella cabaletta senza il minimo risparmio. A ciò si aggiunga
una raffigurazione cesellatissima pure sul piano interpretativo, che
restituisce tanto la pietas quanto la hybris di Eléazar, i suoi
dolori come la sua quasi rigolettiana brama di vendetta (Verdi ne avrebbe fatto
certamente un baritono).
Una scena dello spettacolo © Andrea Macchia
Se Halévy plasma il protagonista
maschile su tratti baritenorili, per la protagonista eponima si affida a
unaltra fisionomia ibrida: quella del Falcon, sorta di soprano cui si
richiede una regione centro-grave così densa e voluminosa da sconfinare nel
mezzosoprano. Al contrario di Kunde, Mariangela Sicilia non mostra la stessa
aderenza alla complessione vocale richiesta dal personaggio (è unottima Donna
Elvira, ruolo notoriamente sia sopranile che mezzosopranile, ma la sua ottava
inferiore non ha timbratura e risonanze da Falcon) e deve prestarsi a
qualche artificio per addivenire a tale raffigurazione. Tuttavia la perfetta
musicalità della cantante (ritmo e intonazione non sono facili da governare, in
Halévy), unita alla compenetrazione di uninterprete che restituisce molto
bene, anche fisicamente, la sensualità sottopelle dellebrea Rachel, assicurano
una prova di gran pregio. Spiccano soprattutto i momenti di più soave lirismo,
come la romance del secondo atto: esemplare per la gamma dei “piani”, la
ricchezza di sfumature, larte del legato.
Una scena dello spettacolo © Andrea Macchia
Per quella sorta di Duca di Mantova
ante litteram che è Léopold, principe sotto mentite spoglie a
scopo seduttivo, Halévy riciclò invece larchetipo rossiniano del tenore
contraltino. Un ruolo, insomma, che avrebbe fatto gola al primo Kunde; e a
Torino, ascoltando Ioan Hotea, si è davvero avuta limpressione di sentire un
Kunde giovane: limpido nello squillo, siderale nelle ascese sopracute. Anche se
dovere di cronaca impone di registrare che, al centro, la voce del promettente
tenore rumeno suona ancora piuttosto fioca, laddove quella del sessantanovenne
collega americano riempie la sala in qualunque regione del pentagramma si trovi
a veleggiare. Analogamente, Martina Russomanno – soprano corretto e gradevole –
mostra una certa acerbità se confrontata con Mariangela Sicilia. Tuttavia è
proprio la figura di Eudoxie, confinata nel perimetro della “seconda donna” ad
alto tasso virtuosistico ma scarso rilievo drammatico, che non offre la
possibilità dincidere più di tanto: consentendo di notare, invece, la felice
propensione della Russomanno per il canto di coloratura. Quanto al basso, Riccardo
Zanellato trovò nel ruolo del Cardinale Brogni una delle sue prime affermazioni
internazionali, per poi prendere il volo in una carriera che non mantenne le
promesse iniziali. Qui torna ad affrontarlo con rinnovata maturità
interpretativa e una rimarchevole concentrazione espressiva, anche se limitata
ad unassorta austerità che non scandaglia a fondo i devastanti sensi di colpa
del personaggio.
Una scena dello spettacolo © Andrea Macchia
Ben differenziati i baritoni
(linflessibile prevosto si avvale dellemissione spigolosa di Gordon Bintner,
lempatico sergente ha la voce morbida di Daniele
Terenzi), mentre il coro, istruito da Ulisse Trabacchin, emerge nella sua
dimensione di autentico personaggio collettivo. Tutti vengono non solo ben
accompagnati, ma ottimamente sostenuti dalla bacchetta: Daniel Oren parte
sottotono (in difetto di mistero l“Andantino” iniziale dellouverture)
per poi prendere quota, con una lettura equilibrata che unisce severità della
linea e gusto del romanzesco. Mentre lo spettacolo “totale” di Stefano Poda (regia,
coreografia, scene, costumi e luci) rinuncia allaffresco storico, tenta la via
duna figuratività senza tempo, si affida a pantomime che contrappuntano
lazione e appare tanto didascalico nelle simbologie cristologiche quanto
confuso nellimpaginazione del racconto.
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