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L'essenza dell'accidente

di Paolo Patrizi
  La Juive
Data di pubblicazione su web 28/09/2023  

Forse solo Verdi, nel Don Carlos, riuscì a descrivere il rapporto tra l’Uomo e la Storia – l’interazione di quest’ultima con gli individui, la sua capacità di condizionarli fino ad annichilirli – in modo ancor più stringente di quanto seppe fare Fromental Halévy nella Juive. Verdi, però, lo fece scardinando dall’interno i meccanismi del Grand-Opéra (peraltro arrivato al capolinea, in quel 1867 che vide la nascita del Don Carlos); mentre Halévy e il suo gettonatissimo librettista Eugène Scribe, agendo in pieno fulgore grandopéristico (1835), in tali meccanismi s’inserirono conservandone ogni regola statutaria, a partire da quella dimensione ipertrofico-decorativa che teoricamente diluisce la drammaturgia e raffredda la narrazione. Ne derivò un affresco colossale, dove il nucleo drammatico primigenio viene esaltato – anziché infirmato – dalle tante parentesi esornative, innalzando La Juive a ideale equivalente del Victor Hugo di Notre Dame de Paris, che d’altronde precede il capolavoro di Halévy di soli quattro anni: autentiche quintessenze del romanticismo francese l’una nel teatro musicale, l’altra nel romanzo.

Tuttavia, sta di fatto che la ricezione di quest’opera in Italia è sempre stata faticosa e incompleta. La Juive (o, come la si è declinata per anni nella sua versione italiana, L’ebrea) è rimasta un oggetto misterioso da curiosare alla lontana piuttosto che compulsare a fondo: una sorta di Trovatore al femminile, dove l’agnizione avviene solo quando il protagonista eponimo viene giustiziato e in cui a un genitore – o fratello, nel caso del Trovatore – biologico inconsapevole fa riscontro un genitore adottivo clandestino e “diverso”. E che si tratti di una zingara nomade come Azucena o un ebreo errante come Eléazar, entrambi feroci nei rancori e animaleschi nel loro amore genitoriale di riporto, in fondo cambia poco. D’altronde la stessa memoria storica di Enrico Caruso, che contribuì allo sdoganamento novecentesco di questa partitura nel frattempo accantonata (e a tutt’oggi resta il suo interprete più proverbiale), ne ha veicolato una percezione tardoverdiana, protoverista, comunque stilisticamente inappropriata al di là della grandezza del cantante.


Una scena dello spettacolo
© Andrea Macchia

Tra semplificazioni vocali e tagli destrutturanti, ci si è insomma concentrati sul dramma privato anziché sul grande affresco storico (siamo a Costanza nel 1414, durante quel Concilio destinato a sancire la più sanguinosa cecità cristiana non solo contro gli infedeli ebrei, ma pure verso i riformatori), che per il semita Halévy rappresentava l’ineludibile basamento del dramma stesso. Né hanno saputo restituire la fisionomia più autentica quelle riprese che, negli ultimi decenni, si sono avute in teatri tedeschi e mitteleuropei. Lì il focus è stato – forse ripensando agli entusiasmi che quest’opera seppe scatenare in un compositore non certo filogiudaico come Wagner – intorno alla dimensione “germanica” della Juive, la sua costruttività plasticamente unitaria (al di là della presenza di singoli “numeri” ben enucleabili), i suoi reticoli leitmotivici, la sua strumentazione mai sussidiaria rispetto al canto: punto di vista anch’esso parziale, che ha comportato a sua volta vari tagli, magari diversi da quelli della precedente tradizione.

Lo spettacolo che ha inaugurato il Teatro Regio di Torino non avrà forse tutte le carte in regola per offrirci una Juive completamente attendibile, però ne presenta molte. Innanzi tutto c’è un tenore – Gregory Kunde – che, sulla scia carusiana, innalza il protagonista maschile a protagonista tout court dell’opera, ma con un’aderenza filologica, stilistica e, di conseguenza, psicologica che Caruso in quei suoi anni pionieristici non poteva avere. La totale adesione di Kunde al personaggio, d’altronde, è frutto d’una parabola artistica che curiosamente ricalca quella del creatore del ruolo, Adolphe Nourrit: storico tenore rossiniano “contraltino”, ossia estesissimo nel registro acuto e “di grazia” nel senso ottocentesco del termine, che nella seconda parte della carriera si mutò in baritenore, acquistando (con i mutamenti fisiologici dell’età) e sviluppando (grazie a una tecnica agguerritissima) un’ampiezza del registro centrale e una chiaroscurata drammaticità timbrica impensabili nella voce diafana e puntuta di prima. Kunde, che proprio dal modello contraltino era partito, a sua volta si è via via trasformato nel baritenore per antonomasia dei nostri giorni: la sonora robustezza dei centri – mai disgiunta da acuti ancora scattantissimi, quando sollecitati – e gli impasti ombreggiati del timbro che ne sono il corollario restituiscono, con modernità di gusto e “verità” teatrale, tale problematicissima fisionomia canora, di cui il ruolo di Eléazar resta uno dei muri maestri. La (relativa) mancanza di freschezza, inevitabile in un cantante alla vigilia dei settant’anni quale è Kunde, non infirma nulla: anzi, si traduce in veicolo espressivo per un personaggio che comunque è anziano; e, parallelamente, resta prodigiosa la tenuta vocale senza cedimenti, la perfetta risonanza a tutte le altezze, la capacità – dopo aver mandato in visibilio il pubblico con la grande aria del quarto atto – di lanciarsi ancora nella cabaletta senza il minimo risparmio. A ciò si aggiunga una raffigurazione cesellatissima pure sul piano interpretativo, che restituisce tanto la pietas quanto la hybris di Eléazar, i suoi dolori come la sua quasi rigolettiana brama di vendetta (Verdi ne avrebbe fatto certamente un baritono).


Una scena dello spettacolo
© Andrea Macchia

Se Halévy plasma il protagonista maschile su tratti baritenorili, per la protagonista eponima si affida a un’altra fisionomia ibrida: quella del Falcon, sorta di soprano cui si richiede una regione centro-grave così densa e voluminosa da sconfinare nel mezzosoprano. Al contrario di Kunde, Mariangela Sicilia non mostra la stessa aderenza alla complessione vocale richiesta dal personaggio (è un’ottima Donna Elvira, ruolo notoriamente sia sopranile che mezzosopranile, ma la sua ottava inferiore non ha timbratura e risonanze da Falcon) e deve prestarsi a qualche artificio per addivenire a tale raffigurazione. Tuttavia la perfetta musicalità della cantante (ritmo e intonazione non sono facili da governare, in Halévy), unita alla compenetrazione di un’interprete che restituisce molto bene, anche fisicamente, la sensualità sottopelle dell’ebrea Rachel, assicurano una prova di gran pregio. Spiccano soprattutto i momenti di più soave lirismo, come la romance del secondo atto: esemplare per la gamma dei “piani”, la ricchezza di sfumature, l’arte del legato.


Una scena dello spettacolo
© Andrea Macchia

Per quella sorta di Duca di Mantova ante litteram che è Léopold, principe sotto mentite spoglie a scopo seduttivo, Halévy riciclò invece l’archetipo rossiniano del tenore contraltino. Un ruolo, insomma, che avrebbe fatto gola al primo Kunde; e a Torino, ascoltando Ioan Hotea, si è davvero avuta l’impressione di sentire un Kunde giovane: limpido nello squillo, siderale nelle ascese sopracute. Anche se dovere di cronaca impone di registrare che, al centro, la voce del promettente tenore rumeno suona ancora piuttosto fioca, laddove quella del sessantanovenne collega americano riempie la sala in qualunque regione del pentagramma si trovi a veleggiare. Analogamente, Martina Russomanno – soprano corretto e gradevole – mostra una certa acerbità se confrontata con Mariangela Sicilia. Tuttavia è proprio la figura di Eudoxie, confinata nel perimetro della “seconda donna” ad alto tasso virtuosistico ma scarso rilievo drammatico, che non offre la possibilità d’incidere più di tanto: consentendo di notare, invece, la felice propensione della Russomanno per il canto di coloratura. Quanto al basso, Riccardo Zanellato trovò nel ruolo del Cardinale Brogni una delle sue prime affermazioni internazionali, per poi prendere il volo in una carriera che non mantenne le promesse iniziali. Qui torna ad affrontarlo con rinnovata maturità interpretativa e una rimarchevole concentrazione espressiva, anche se limitata ad un’assorta austerità che non scandaglia a fondo i devastanti sensi di colpa del personaggio.


Una scena dello spettacolo
© Andrea Macchia

Ben differenziati i baritoni (l’inflessibile prevosto si avvale dell’emissione spigolosa di Gordon Bintner, l’empatico sergente ha la voce morbida di Daniele Terenzi), mentre il coro, istruito da Ulisse Trabacchin, emerge nella sua dimensione di autentico personaggio collettivo. Tutti vengono non solo ben accompagnati, ma ottimamente sostenuti dalla bacchetta: Daniel Oren parte sottotono (in difetto di mistero l’“Andantino” iniziale dell’ouverture) per poi prendere quota, con una lettura equilibrata che unisce severità della linea e gusto del romanzesco. Mentre lo spettacolo “totale” di Stefano Poda (regia, coreografia, scene, costumi e luci) rinuncia all’affresco storico, tenta la via d’una figuratività senza tempo, si affida a pantomime che contrappuntano l’azione e appare tanto didascalico nelle simbologie cristologiche quanto confuso nell’impaginazione del racconto.



La Juive
Grand-opéra in cinque atti


cast cast & credits
 
trama trama


Una scena dello spettacolo
© Andrea Macchia

 
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