Le proposte della cinquantunesima edizione
della Biennale-Teatro di Venezia tornano a insistere sulla definizione
aggiornata dellidea di teatro, mettendo in campo una varietà di formule e di
connessioni con altre arti della visione. Un passaggio ulteriore è offerto
dalle eccentriche esibizioni di Boris Nikitin, artefice di
creazioni-happening con cui analizza il rapporto tra realtà e identità; il
performer svizzero predilige da sempre una ricerca sviluppata lungo la linea di
confine che separa linvenzione dallautobiografismo. Dopo avere monologato
senza filtri sullo smarrimento esistenziale procurato al figlio dallagonia del
padre, malato di SLA, con Versuch über
das Sterben (Sul morire), presentato in Sala
dArmi dellArsenale, il regista torna ad affrontare la complessa questione
dellinsicurezza artistica e della vulnerabilità individuale con una
stravagante rivisitazione dellHamlet,
elaborato al di fuori dalla traccia shakespeariana già nel 2016 insieme al
compositore Julia*n Meding e al «pluripremiato quartetto darchi» Der Musikalische Garten.
Nikitin entra nello spazio neutro del Teatro
alle Tese con un passo dinoccolato, indossando una maschera da cinghiale, prima
di svelare un volto imbambolato e una voce gracchiante, persino sgradevole. Si
rivolge in maniera diretta agli spettatori, dichiarando ciò che non sarà il suo
spettacolo: «Questo non è uno spettacolo teatrale. Non è neanche una performance. Questo
non è un concerto. Questa non è la vita vera. E questa non è la realtà». E prosegue elencando con un distacco sospinto oltre la
smorfia grottesca passaggi della sua vita, il suo stato confusionale; e ritorna
sulla scomparsa del padre, ribadisce insomma la conflittualità tra la sfera
personale e quella sociale.

Un momento di HamletCourtesy La Biennale di Venezia ©Andrea Avezzù
Il discorso diventa circolare,
perché ingloba non solo le domande sullessere (e sul non-essere), ma
limpossibilità di stabilire una relazione “politica” con gli altri, persino
con i partner e i tecnici della rappresentazione, certamente con il pubblico e
con il mondo. La scansione spazio-temporale si rivela, allora, cangiante e
inafferrabile, anche quando il protagonista si rifugia in un groviglio sonoro,
fatto di canzoni senza senso e di sfide alle prodezze del quartetto di
musicisti. E si pone in contrasto anche con lo schermo video posto alle sue spalle, che dilata i suoi movimenti fino a
deformare il primo piano della faccia e che, poi, mentre il corpo dellattore piomba al suolo, mostra una lunga
sequenza di anziani malati e moribondi, unamara carrellata sulla sofferenza da
finale di partita tra le corsie di un nosocomio.
Quando, infine, si maschera da
vecchio cinico, Nikitin lascia cadere ogni dubbio residuo sulla vocazione
catartica del teatro, di fronte allincertezza del vivere. Il nodo centrale
rimane una poetica che rende confuso il confronto tra interprete e personaggio,
chiedendosi fino a che punto corrisponda a verità la sintesi espressiva che si
attua in scena, quanto sia attendibile oppure assurdo il resoconto delle storie
proposte e riproposte, come lAmleto.

Un momento di domaniCourtesy La Biennale di Venezia ©Andrea Avezzù
Un appuntamento molto atteso ha riguardato
lazione performativa di Romeo Castellucci domani, accolta nella Scuola Grande della Misericordia a
Cannaregio, un ampio spazio al primo piano di un edificio unico dal punto di
vista scenografico, contrassegnato da pareti affrescate con le immagini dei
dodici profeti e dal soffitto a capriate di metallo. Il luogo ha unincidenza
specifica sul progetto artistico, poiché prefigura un ambiente assoluto dentro
il quale agisce una figura eterea e, insieme, simbolica; si tratta di una donna
cieca, scalza, vestita di bianco che sospinge un lungo ramo dalbero alla cui
estremità è poggiata una piccola scarpa, adatta al piede di un bambino. Costei
ha gli occhi vitrei; si muove agitando i lunghi capelli umidi e arruffati,
tracciando una sorta di solco stridente sul pavimento della sala. Si comprende
da subito come i suoi movimenti seguano un tracciato misterico e i suoni
soffusi e lontani evochino uneco sottile e insinuante. È larchetipo di un
moderno indovino, di chi ha insabbiato il dono della chiaroveggenza e non
scorge più le tracce del presente.
Castellucci ha affidato il compito
di attrarre a sé la presenza degli spettatori, che procedono liberi e in ordine
sparso, seppure alquanto smarriti, alla performer brasiliana Ana Lucia
Barbosa, protagonista della delicata azione muta, difficile da
decodificare, ma efficace nel definire una presenza umana fuori dal tempo. Il
vacillare del passo appare una condizione dinquietudine per qualcosa che si è
perduto, ma soprattutto per limpossibilità di prevedere il futuro, che rimane
un fattore indeterminato e, forse, traumatico.
Nel vuoto del mondo la sola
possibilità resta quella di spingere il ramo contro le mura da un lato e dallaltro
del salone arcaico; a questo punto si diffondono con forza inaudita i riverberi
delle musiche di Scott Gibbons, lartista americano che accompagna
spesso le creazioni di Castellucci. Sono rumori assordanti, che scuotono i
corpi e vibrano nellaria in un crescendo invasivo oltre il limite dellumano.
In silenzio il pubblico lascia la stanza, mentre la donna ritrova unimmobilità
smisurata.
|
 |