Andersson ha selezionato unampia
parte di risposte, relative a motivi seri, oppure a pareri minimi e qualche
volta vani, ponendoli a confronto con la «grande storia»; si va dal rimpianto
per il prestigio nazionale perduto dalla Svezia al desiderio di suonare uno
strumento musicale, dal trauma legato al tradimento della migliore amica, un
atto che è giunto a provocare un delitto, al desiderio di cambiare in modo
radicale il proprio aspetto fisico; e così via.
Nel corso della rappresentazione,
ambientata in un rettangolo luminoso, un ideale spazio vuoto in grado di
accogliere squarci della quotidianità più comune, i personaggi oltrepassano la
soglia della memoria per entrare nella sfera dellauto-analisi. Il succedersi
delle varie dichiarazioni finisce per generare, ben presto, confronti e
dialoghi, talvolta incoerenti e imperfetti, che travalicano la dimensione del
sondaggio fino a diventare unoccasione per immaginare la possibilità di
modificare la propria esistenza. A volte, quando sullo schermo centrale appare
il nome e letà dei partecipanti, si sviluppa scenicamente una sorta di
retroscena attivo, si manifesta cioè una segreta propensione alla confessione.
Oltre le parole polemiche della
canzone Forever Young degli
Alphaville affiora la tesi dell«eterno ritorno» che ha percorso il pensiero di
Nietzsche, per il quale luniverso
nasce e muore in un tempo ciclico; ne La
gaia scienza (1882) il demone asserisce: «Questa vita, come tu ora la vivi
e lhai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e
non ci sarà in essa mai niente di nuovo». Il gioco del “se”, che Andersson ha
tratteggiato anzitutto nellideazione drammaturgica, insiste sullincidenza dei
condizionamenti sociali nel modo di vivere dellindividuo contemporaneo,
determinando scelte sbagliate e disagi esistenziali.
Un momento dello spettacolo
© Andrea Avezzù
La concezione polifonica che la
regia assegna alla rappresentazione si sviluppa lungo linee di movimento
coordinate con cura, si anima negli slanci coreografici che trasfigurano i
corpi dei protagonisti e, ancor più, nei quadri di famiglia che sinoltrano
nelle crisi coniugali e insistono sulle difficoltà della convivenza sociale.
Alcuni passaggi sono davvero pregevoli, non solo perché richiamano alla mente
immagini tipiche del cinema di Bergman e del teatro di Kantor, ma anche per la tragicità dei riferimenti narrativi. Come
non ricordare la partita con i dadi che le figure sedute intorno a un tavolo
ingaggiano alla presenza della morte, una donna in nero che si protende fino a
raggiungere la zona degli spettatori; oppure la vorticosa danza delle coppie
che mutano partner al di là del loro genere sessuale; e ancora, la sfilata
delle spose, alcune delle quali siedono accanto al pubblico, o la visita alle
tombe di quanti non ci sono più.
Pertanto agli attori, che
agiscono come un collettivo coeso e ineguagliabile per bravura, spetta
limpegno a fissare la complessità dei ruoli e le caratteristiche di ogni
singola identità; e risultano eccezionali nel disegnare lintensità degli
sguardi, la mutevolezza fisica, la destrezza nel variare personaggio. Li aiuta
una pista sonora che richiama la musica di Schubert,
mentre nel finale riecheggia la voce di Edith
Piaf che canta Non, je ne regrette
rien. Il gradimento unanime ha conferito agli interpreti lunghi applausi.