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Violenza in scena a Siracusa

di Caterina Barone
  Medea
Data di pubblicazione su web 26/05/2023  

Due tragedie capostipiti di una storia secolare di reinterpretazioni e riscritture, Prometeo incatenato di Eschilo e Medea di Euripide, sono in scena (a giorni alterni, fino al 2 luglio) per la 58° stagione di spettacoli al Teatro Greco di Siracusa, per indagare il tema della violenza, nelle sue declinazioni in ambito sia interpersonale che politico-sociale e antropologico.

Prometeo incatenato

Ha una storia filologica problematica Prometeo incatenato (Prometheus desmotes): dalla metà dell’Ottocento si dibatte, apportando a sostegno argomenti di natura stilistica e metrica e di tecnica teatrale, se la tragedia sia opera di Eschilo – sotto il cui nome è arrivata come unica superstite di una trilogia che comprendeva il Prometeo liberato (lyomenos) e il Prometeo portatore del fuoco (pyrophoros) – oppure di un suo epigono. Perno della discussione è l’interpretazione della figura di Zeus, violento antagonista di Prometeo, il Titano reo di aver protetto e sostenuto gli esseri umani istruendoli nelle arti, e in particolare di aver donato loro il fuoco, sottratto con l’inganno dall’Olimpo, per salvarli dall’annientamento voluto dal re degli dèi. La punizione che si abbatte sul Titano è terribile: Prometeo viene incatenato a una rupe nella remota Scizia, esposto alle intemperie e all’aggressione di un’aquila che gli divora il fegato. La raffigurazione di Zeus, quale sovrano tirannico e spietato, è sembrata essere in contraddizione con l’affermata concezione eschilea di supremo garante di Dike, la Giustizia. E in conseguenza, che cosa incarna Prometeo? La legittima ribellione al dispotismo di Zeus o il suo è un atto di hybris, di superbia, nell’essersi contrapposto alla sua intangibile volontà?  

Nella lettura di Leo Muscato, regista dello spettacolo, lo scontro tra il Titano e Zeus è quello tra l’eroe che non si arrende di fronte alla prevaricazione e alla prepotenza, difendendo i più deboli a prezzo della sua stessa sofferenza, e il tiranno che opprime chi si oppone al suo potere. Alessandro Albertin, nella parte del protagonista, presta al personaggio accenti di commossa sollecitudine per la sorte degli umani, come un padre preoccupato per il destino dei propri figli, ed esprime il proprio dolore e l’odio nei confronti del suo persecutore senza indulgere a patetici birignao o a grida scomposte. Esposto al freddo che sferza il teatro greco dopo il tramonto, in piedi, immobile con le braccia incatenate in alto, offre una prova attoriale che contempera forza e misura.


Un momento dello spettacolo
© Maria Pia Ballarino

L’ambientazione in cui Muscato colloca la vicenda è metaforica: un paesaggio desolato, una periferia industriale, a cui si accede attraverso un binario morto sul quale scorre un carrello ferroviario. La ruggine che corrode ogni cosa denuncia la vetustà di quell’impianto in disuso: una ciminiera crollata al suolo, una che ancora svetta nella sua inutilità, una turbina dismessa e tubi ormai inservibili appaiono retaggio di una tecnica obsoleta e aggressiva – un inceneritore, una centrale nucleare? – nociva al punto da cancellare ogni elemento naturale.

Prometeo arriva a piedi, dietro al carrello che trasporta Kratos (Potere) ed Efesto, preceduti da Bia (Violenza), le mani in catene come un forzato, il collo imprigionato in una gogna di ferro, un cappuccio a coprire il volto. Gli dèi al servizio di Zeus lo inchiodano all’alto della ciminiera, condannato alla solitudine, privato della possibilità di parlare con gli esseri umani che egli ha protetto. Una punizione impietosa per lui che ha avuto pietà dei mortali. In successione arrivano al suo cospetto solo divinità divise tra empatia e ferocia: le Oceanine, il loro padre Oceano, Ermes, minaccioso messaggero del dio olimpico, e una donna, Io, che non ha più nulla di umano, trasformata com’è in vacca da Era, gelosa dell’amore di Zeus per quella giovane mortale che ora è costretta a vagare peregrina per il mondo, spinta dalla puntura di un tafano. Suoni graffianti che lacerano l’aria e luci crepitanti segnalano a tratti la presenza remota ma incombente di Zeus.


Un momento dello spettacolo
© Maria Pia Ballarino

Ai piedi di Prometeo, le Oceanine, a differenza del loro padre, sono solidali con lui. Ne compiangono la sofferenza e, colpite dalla sua grandezza d’animo, gli offrono consolazione fino al punto di voler condividere la sua stessa sorte quando Zeus, per punirne ulteriormente l’indomabile protervia, con un cataclisma lo precipita nell’abisso. Movimento e canto (frutto di una connessione sinergica tra le musiche di Ernani Maletta, la direzione del Coro di Francesca Della Monica e le coreografie di Nicole Kehrberger) vanno all’unisono in un ensemble dove le voci si espandono con variegata ampiezza di timbri e il dinamismo coreutico viene ampliato dallo strascico dei morbidi vestiti grigio azzurri che richiamano l’iconologia delle Sirene (creazione di Silvia Aymonino).

Antifrastica alla punizione di Prometeo, condannato all’immobilità, è quella dell’errante Io (Deniz Ozdogan), il cui ingiusto supplizio la rende empaticamente compartecipe della sorte del Titano. Nel loro lungo dialogo emergono i patimenti che entrambi subiscono a causa di Zeus e che si protrarranno per le generazioni a venire. La profezia di Prometeo, che rivela a Io le dure prove che l’attendono, si dilata in una dimensione spazio-temporale nell’abbracciare futuro e passato e ci porta ai confini del mondo: la staticità della scena acquista dinamismo attraverso la narrazione e le battenti sticomitie, impegnativo banco di prova della forza interpretativa degli attori.


Un momento dello spettacolo
© Aliffi

Empatia dimostrano anche Efesto (Michele Cipriani), il dio amico, stretto a Prometeo da vincoli di parentela, che malvolentieri esegue i crudeli ordini di Zeus, saldando con la fiamma ossidrica le catene del condannato; mentre Oceano (Alfonso Veneroso), pur attribuendo alla rabbia e alla superbia del condannato le sventure da cui è colpito, si offre inutilmente di fare da mediatore nel corso di un dialogo dove il Titano ne respinge l’aiuto con amara ironia e sdegno, come a denunciarne una subdola e nascosta connivenza, che traduttore e regista ricavano dalle pieghe del testo greco. 

Ancora più aspro è nell’esodo lo scontro verbale tra Prometeo ed Ermes (Pasquale di Filippo), portavoce insolente dell’ultimatum minaccioso del dio. Abito luccicante, capigliatura fulva, atteggiamento arrogante, il messaggero, “leccapiedi di Zeus”, servo del potere, non ha lo standing per scalfire la determinazione di Prometeo deciso a non venire a patti col tirannico re dell’Olimpo e pronto a sprofondare nel Tartaro con un ultimo grido di dolore contro l’ingiustizia.

A Prometeo, tragedia di impervia tenitura scenica, la traduzione di Roberto Vecchioni imprime agilità e la rende più facilmente fruibile per il pubblico attraverso una scrittura che smussa il potente turgore eschileo con un linguaggio di moderna efficacia e con immagini di poetica suggestione, quali «misero burattino nell’aria devo bere la gioia maligna dei nemici», per Prometeo, o «le creature dalla breve luce» per definire la condizione dei mortali, o di contro espressioni colloquiali, «smettila di blaterare ordini» o «Ermes mi ha rotto i timpani». Nel suo insieme la versione conferisce al Titano una dolorosa umanità abbassando la vicenda dalla sfera divina, nella quale si svolge, alla sfera umana così da rispecchiare, nel contrasto tra la violenza esercitata da Zeus e lo stoico dolore di Prometeo, la tragica condizione dei mortali in balia delle forze incontrastabili del destino.

 

Medea

Figura complessa per quel suo essere vittima e carnefice, amante appassionata e maga astuta, principessa e reietta, Medea si offre a interpretazioni pluridirezionali, in bilico com’è tra due civiltà opposte e lontane tra loro. Una dimensione, questa, che nello spettacolo siracusano acquista immediata evidenza con l’ingresso di un coro di voci bianche: rivestiti da candide tuniche a rappresentare l’innocenza dei figli di Medea, i coreuti si fanno interpreti di una sacralità sciamanica che rimanda al mondo ancestrale della Colchide da cui proviene l’eroina. Un mondo magico, ancorato alla natura, reso tangibile sulla scena dalla maschera indossata da Medea: quella di un rapace dal becco adunco, completata da un mantello con una coda a strascico di piume bianche, azzurre e nere. Il regista, Federico Tiezzi, esplicita così la maestosità e la forza che caratterizzano il personaggio e che accompagneranno le sue azioni future. La Medea a cui dà vita Laura Marinoni si nutre di doppiezza e ferocia, trasmigrando da supplice ad assassina con atteggiamento regale, sostenuta in questo dagli abiti di scena – ne cambia tre – sfarzosi, fino alla aerea fuga trionfale splendente di luce.


Un momento dello spettacolo
© Franca Centaro

Le donne del Coro, con lei solidali, vestono abiti monocromi, di un azzurro che richiama le tute da lavoro di creature sottomesse, avvezze ad obbedire. Attingendo l’acqua da secchi metallici, puliscono freneticamente il pavimento ingabbiate in un ruolo subalterno che non lascia loro nessuna autonomia e le pone in una condizione di inferiorità: una lettura divergente dalla lettera del testo greco dove Medea contrappone la propria sorte alla loro, affermando che vivono una vita comoda, in compagnia delle persone care, a sottolineare il proprio isolamento e il suo essere estranea alla città in cui è approdata. Se nel corso dell’azione il ruolo del Coro viene molto ridotto dallo sfoltimento del testo, nel finale le donne riacquistano peso scenico: chine a terra, con i loro stracci tingono il pavimento del sangue versato, dando concretezza all’orrore.


Un momento dello spettacolo
© Aliffi

Lo schema geometrico su cui è disegnata la scena, bianca con luci a led e arredi neri, suggerisce un’ambientazione borghese che – così dichiara Tiezzi – evoca la violenza rappresentata nella drammaturgia di Ibsen o Strindberg. L’ingresso di Creonte (nel quale Roberto Latini insinua ambiguità) indica la linea interpretativa dello spettacolo: come denuncia la sua maschera di coccodrillo, la stessa che calzano le guardie al suo seguito (di contro i bambini, piccole vittime inconsapevoli, indossano bianche teste di coniglio), il re è l’esponente simbolico di una società neocapitalista, utilitaristica e feroce. Alla maschera con la quale minaccia Medea incombendo fisicamente su di lei, l’eroina oppone a sua volta la testa di uccello, totem di un’etica divergente. L’attaccamento alla casa e la preoccupazione di padre affermati da Creonte non suscitano nello spettatore vicinanza simpatetica, sembrano piuttosto vuote parole, strumentali, pronunciate con ostentazione, come rivela anche la postura che trasuda cinismo. 

Anche Giasone (il mellifluo e sfrontato Alessandro Averone) si pone sulla stessa linea con l’impudenza e la malafede che lo connotano nel testo euripideo; il suo insistere sulla propria oculatezza nel garantire un futuro ai figli ne denuncia la falsità, e i vantaggi che prospetta a Medea sono in realtà funzionali al proprio egoistico interesse, tipico di una borghesia concentrata sul raggiungimento di ricchezza e potere.

L’impostazione registica, basata anche sui costumi – per Giasone, abito grigio e cappotto nero da élite dirigenziale; per Medea, fregi etnici dorati sul lungo mantello a richiamare la sua discendenza dal Sole – fa sì che il conflitto tra i due sposi non si esaurisca, dunque, nello scontro tra due individui e il divergere delle loro passioni, ma si giochi tra due civiltà contrapposte, quella arcaica, primordiale della Colchide e quella “post-industriale” di Corinto, regolata da spietate leggi economiche e politiche: una dicotomia tra natura e società che si materializza nello sfondamento della scena, il salotto borghese, aperto visivamente sul boschetto retrostante. 


Un momento dello spettacolo
© Aliffi

Alla violenza perpetrata su di lei Medea risponde con astuzia – inganna in successione Creonte e Giasone, e irretisce Egeo, re di Atene, ottenendone protezione – e reagisce con efferatezza disumana, arrivando a uccidere i figli non solo per vendicarsi del loro padre, ma per sottrarsi al riso e allo scherno dei nemici, simile in questo agli eroi omerici, custodi della propria timè, l’onore, il bene più prezioso da preservare a ogni costo.         

Alle atroci morti di Creusa e Creonte raccontate dal Messaggero (un’efficace Sandra Toffolatti), segue l’infanticidio segnato dalle urla di dolore dei bambini e dal dispiegarsi di un canto lirico stridente: la musica di Silvia Colasanti, punto di forza dello spettacolo, che mette in relazione György Ligeti, Gustav Mahler, Franz Schubert, e Heitor Villa-Lobos, pone un potente sigillo al percorso tragico.      

Nella traduzione di Massimo Fusillo, la ricerca di un’espressività scorrevole e fluida, non intacca la precisione filologica: la molteplicità dei registri stilistici che caratterizza lo stile euripideo viene mantenuta e arricchita con risonanze antropologiche e psicanalitiche per richiamare le stratificazioni interpretative sedimentatesi sulla tragedia nel corso dei secoli. Qualche esempio: al linguaggio giuridico («i bambini sono prosciolti dall’esilio») si affianca quello emozionale («passione viscerale», per Medea che definisce «bastardo» lo sposo ed è «ossessionata dalla fedeltà»; «è soggiogato da letti regali», per Giasone, che ostenta «un aspetto per bene»); alle tensione poetica dei cori («figli di dèi beati si nutrono della sapienza più fulgida, camminano con eleganza nell’aria piena di luce») si succedono espressioni colloquiali («tu non dovevi scendere al mio livello») in un amalgama che unisce intensità espressiva al rispetto del dettato originale.



Prometeo incatenato e Medea
Prometeo
cast cast & credits
 
Medea
cast cast & credits
 



Alessandro Albertin
in Prometeo incatenato
© Franca Centaro







Laura Marinoni
in Medea
© Franca Centaro
 
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