Due tragedie capostipiti di una
storia secolare di reinterpretazioni e riscritture, Prometeo incatenato di
Eschilo e Medea di Euripide, sono in scena (a giorni alterni, fino al 2
luglio) per la 58° stagione di spettacoli al Teatro Greco di Siracusa, per
indagare il tema della violenza, nelle sue declinazioni in ambito sia
interpersonale che politico-sociale e antropologico.
Prometeo incatenato
Ha una storia filologica
problematica Prometeo incatenato (Prometheus desmotes):
dalla metà dellOttocento si dibatte, apportando a sostegno argomenti di natura
stilistica e metrica e di tecnica teatrale, se la tragedia sia opera di Eschilo
– sotto il cui nome è arrivata come unica superstite di una trilogia che
comprendeva il Prometeo liberato (lyomenos) e il Prometeo
portatore del fuoco (pyrophoros) – oppure di un suo epigono. Perno
della discussione è linterpretazione della figura di Zeus, violento
antagonista di Prometeo, il Titano reo di aver protetto e sostenuto gli esseri
umani istruendoli nelle arti, e in particolare di aver donato loro il fuoco,
sottratto con linganno dallOlimpo, per salvarli dallannientamento voluto dal
re degli dèi. La punizione che si abbatte sul Titano è terribile: Prometeo
viene incatenato a una rupe nella remota Scizia, esposto alle intemperie e
allaggressione di unaquila che gli divora il fegato. La raffigurazione di
Zeus, quale sovrano tirannico e spietato, è sembrata essere in contraddizione
con laffermata concezione eschilea di supremo garante di Dike, la
Giustizia. E in conseguenza, che cosa incarna Prometeo? La legittima ribellione
al dispotismo di Zeus o il suo è un atto di hybris, di superbia,
nellessersi contrapposto alla sua intangibile volontà?
Nella lettura di Leo Muscato,
regista dello spettacolo, lo scontro tra il Titano e Zeus è quello tra leroe
che non si arrende di fronte alla prevaricazione e alla prepotenza, difendendo
i più deboli a prezzo della sua stessa sofferenza, e il tiranno che opprime chi
si oppone al suo potere. Alessandro Albertin, nella parte del protagonista,
presta al personaggio accenti di commossa sollecitudine per la sorte degli
umani, come un padre preoccupato per il destino dei
propri figli, ed esprime il proprio dolore e lodio nei confronti del suo
persecutore senza indulgere a patetici birignao o a grida scomposte. Esposto al
freddo che sferza il teatro greco dopo il tramonto, in piedi, immobile con le
braccia incatenate in alto, offre una prova attoriale che contempera forza e
misura. Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino
Lambientazione in cui Muscato
colloca la vicenda è metaforica: un paesaggio desolato, una periferia
industriale, a cui si accede attraverso un binario morto sul quale scorre un
carrello ferroviario. La ruggine che corrode ogni cosa denuncia la vetustà di
quellimpianto in disuso: una ciminiera crollata al suolo, una che ancora
svetta nella sua inutilità, una turbina dismessa e tubi ormai inservibili
appaiono retaggio di una tecnica obsoleta e aggressiva – un inceneritore, una
centrale nucleare? – nociva al punto da cancellare ogni elemento naturale.
Prometeo arriva a piedi, dietro
al carrello che trasporta Kratos (Potere) ed Efesto, preceduti da Bia
(Violenza), le mani in catene come un forzato, il collo imprigionato in una
gogna di ferro, un cappuccio a coprire il volto. Gli dèi al servizio di Zeus lo
inchiodano allalto della ciminiera, condannato alla solitudine, privato della
possibilità di parlare con gli esseri umani che egli ha protetto. Una punizione
impietosa per lui che ha avuto pietà dei mortali. In successione arrivano al
suo cospetto solo divinità divise tra empatia e ferocia: le Oceanine, il loro
padre Oceano, Ermes, minaccioso messaggero del dio olimpico, e una donna, Io,
che non ha più nulla di umano, trasformata comè in vacca da Era, gelosa
dellamore di Zeus per quella giovane mortale che ora è costretta a vagare
peregrina per il mondo, spinta dalla puntura di un tafano. Suoni graffianti che
lacerano laria e luci crepitanti segnalano a tratti la presenza remota ma
incombente di Zeus.
Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino
Ai piedi di Prometeo, le Oceanine,
a differenza del loro padre, sono solidali con lui. Ne compiangono la
sofferenza e, colpite dalla sua grandezza danimo, gli offrono consolazione
fino al punto di voler condividere la sua stessa sorte quando Zeus, per punirne
ulteriormente lindomabile protervia, con un cataclisma lo precipita
nellabisso. Movimento e canto (frutto di una connessione sinergica tra le
musiche di Ernani Maletta, la direzione del Coro di Francesca Della Monica e le
coreografie di Nicole Kehrberger) vanno allunisono in un ensemble dove
le voci si espandono con variegata ampiezza di timbri e il dinamismo coreutico
viene ampliato dallo strascico dei morbidi vestiti grigio azzurri che
richiamano liconologia delle Sirene (creazione di Silvia Aymonino).
Antifrastica alla punizione di Prometeo,
condannato allimmobilità, è quella dellerrante Io ( Deniz Ozdogan), il cui
ingiusto supplizio la rende empaticamente compartecipe della sorte del Titano.
Nel loro lungo dialogo emergono i patimenti che entrambi subiscono a causa di
Zeus e che si protrarranno per le generazioni a venire. La profezia di
Prometeo, che rivela a Io le dure prove che lattendono, si dilata in una
dimensione spazio-temporale nellabbracciare futuro e passato e ci porta ai
confini del mondo: la staticità della scena acquista dinamismo attraverso la
narrazione e le battenti sticomitie, impegnativo banco di prova della forza
interpretativa degli attori.
Un momento dello spettacolo © Aliffi
Empatia dimostrano anche Efesto (Michele
Cipriani), il dio amico, stretto a Prometeo da vincoli di parentela, che malvolentieri
esegue i crudeli ordini di Zeus, saldando con la fiamma ossidrica le catene del
condannato; mentre Oceano (Alfonso Veneroso), pur attribuendo alla rabbia e
alla superbia del condannato le sventure da cui è colpito, si offre inutilmente
di fare da mediatore nel corso di un dialogo dove il Titano ne respinge laiuto
con amara ironia e sdegno, come a denunciarne una subdola e nascosta
connivenza, che traduttore e regista ricavano dalle pieghe del testo
greco.
Ancora più aspro è nellesodo lo
scontro verbale tra Prometeo ed Ermes ( Pasquale di Filippo), portavoce
insolente dellultimatum minaccioso del dio. Abito luccicante, capigliatura
fulva, atteggiamento arrogante, il messaggero, “leccapiedi di Zeus”, servo del
potere, non ha lo standing per scalfire la determinazione di Prometeo
deciso a non venire a patti col tirannico re dellOlimpo e pronto a sprofondare
nel Tartaro con un ultimo grido di dolore contro lingiustizia.
A Prometeo, tragedia di
impervia tenitura scenica, la traduzione di Roberto Vecchioni imprime agilità e
la rende più facilmente fruibile per il pubblico attraverso una scrittura che
smussa il potente turgore eschileo con un linguaggio di moderna efficacia e con
immagini di poetica suggestione, quali «misero burattino nellaria devo bere la gioia
maligna dei nemici», per Prometeo, o «le creature dalla breve luce» per
definire la condizione dei mortali, o di contro espressioni colloquiali, «smettila di blaterare ordini» o «Ermes mi ha rotto i timpani». Nel suo
insieme la versione conferisce al Titano una dolorosa umanità abbassando la
vicenda dalla sfera divina, nella quale si svolge, alla sfera umana così da
rispecchiare, nel contrasto tra la violenza esercitata da Zeus e lo stoico
dolore di Prometeo, la tragica condizione dei mortali in balia delle forze
incontrastabili del destino.
Medea
Figura complessa per quel suo
essere vittima e carnefice, amante appassionata e maga astuta, principessa e
reietta, Medea si offre a interpretazioni pluridirezionali, in bilico comè tra
due civiltà opposte e lontane tra loro. Una dimensione, questa, che nello
spettacolo siracusano acquista immediata evidenza con lingresso di un coro di
voci bianche: rivestiti da candide tuniche a rappresentare linnocenza dei figli
di Medea, i coreuti si fanno interpreti di una sacralità sciamanica che rimanda
al mondo ancestrale della Colchide da cui proviene leroina. Un mondo magico,
ancorato alla natura, reso tangibile sulla scena dalla maschera indossata da
Medea: quella di un rapace dal becco adunco, completata da un mantello con una
coda a strascico di piume bianche, azzurre e nere. Il regista, Federico Tiezzi,
esplicita così la maestosità e la forza che caratterizzano il personaggio e che
accompagneranno le sue azioni future. La Medea a cui dà vita Laura Marinoni si
nutre di doppiezza e ferocia, trasmigrando da supplice ad assassina con
atteggiamento regale, sostenuta in questo dagli abiti di scena – ne cambia tre –
sfarzosi, fino alla aerea fuga trionfale splendente di luce.
Un momento dello spettacolo © Franca Centaro
Le donne del Coro, con lei
solidali, vestono abiti monocromi, di un azzurro che richiama le tute da lavoro
di creature sottomesse, avvezze ad obbedire. Attingendo lacqua da secchi
metallici, puliscono freneticamente il pavimento ingabbiate in un ruolo subalterno
che non lascia loro nessuna autonomia e le pone in una condizione di
inferiorità: una lettura divergente dalla lettera del testo greco dove Medea
contrappone la propria sorte alla loro, affermando che vivono una vita comoda,
in compagnia delle persone care, a sottolineare il proprio isolamento e il suo
essere estranea alla città in cui è approdata. Se nel corso dellazione il
ruolo del Coro viene molto ridotto dallo sfoltimento del testo, nel finale le
donne riacquistano peso scenico: chine a terra, con i loro stracci tingono il
pavimento del sangue versato, dando concretezza allorrore. Un momento dello spettacolo © Aliffi
Lo schema geometrico su cui è
disegnata la scena, bianca con luci a led e arredi neri, suggerisce
unambientazione borghese che – così dichiara Tiezzi – evoca la violenza
rappresentata nella drammaturgia di Ibsen o Strindberg. Lingresso di Creonte
(nel quale Roberto Latini insinua ambiguità) indica la linea interpretativa
dello spettacolo: come denuncia la sua maschera di coccodrillo, la stessa che
calzano le guardie al suo seguito (di contro i bambini, piccole vittime
inconsapevoli, indossano bianche teste di coniglio), il re è lesponente
simbolico di una società neocapitalista, utilitaristica e feroce. Alla maschera
con la quale minaccia Medea incombendo fisicamente su di lei, leroina oppone a
sua volta la testa di uccello, totem di unetica divergente. Lattaccamento
alla casa e la preoccupazione di padre affermati da Creonte non suscitano nello
spettatore vicinanza simpatetica, sembrano piuttosto vuote parole, strumentali,
pronunciate con ostentazione, come rivela anche la postura che trasuda
cinismo.
Anche Giasone (il mellifluo e
sfrontato Alessandro Averone) si pone sulla stessa linea con limpudenza e la
malafede che lo connotano nel testo euripideo; il suo insistere sulla propria
oculatezza nel garantire un futuro ai figli ne denuncia la falsità, e i
vantaggi che prospetta a Medea sono in realtà funzionali al proprio egoistico
interesse, tipico di una borghesia concentrata sul raggiungimento di ricchezza
e potere.
Limpostazione registica, basata
anche sui costumi – per Giasone, abito grigio e cappotto nero da élite
dirigenziale; per Medea, fregi etnici dorati sul lungo mantello a richiamare la
sua discendenza dal Sole – fa sì che il conflitto tra i due sposi non si
esaurisca, dunque, nello scontro tra due individui e il divergere delle loro
passioni, ma si giochi tra due civiltà contrapposte, quella arcaica,
primordiale della Colchide e quella “post-industriale” di Corinto, regolata da
spietate leggi economiche e politiche: una dicotomia tra natura e società che
si materializza nello sfondamento della scena, il salotto borghese, aperto
visivamente sul boschetto retrostante. Un momento dello spettacolo © Aliffi
Alla violenza perpetrata su di lei
Medea risponde con astuzia – inganna in successione Creonte e Giasone, e
irretisce Egeo, re di Atene, ottenendone protezione – e reagisce con
efferatezza disumana, arrivando a uccidere i figli non solo per vendicarsi del
loro padre, ma per sottrarsi al riso e allo scherno dei nemici, simile in questo
agli eroi omerici, custodi della propria timè, lonore, il bene più
prezioso da preservare a ogni costo.
Alle atroci morti di Creusa e
Creonte raccontate dal Messaggero (unefficace Sandra Toffolatti), segue
linfanticidio segnato dalle urla di dolore dei bambini e dal dispiegarsi di un
canto lirico stridente: la musica di Silvia Colasanti, punto di forza dello
spettacolo, che mette in relazione György Ligeti, Gustav Mahler, Franz Schubert,
e Heitor Villa-Lobos, pone un potente sigillo al percorso tragico.
Nella traduzione di Massimo
Fusillo, la ricerca di unespressività scorrevole e fluida, non intacca la
precisione filologica: la molteplicità dei registri stilistici che caratterizza
lo stile euripideo viene mantenuta e arricchita
con risonanze antropologiche e psicanalitiche per richiamare le stratificazioni
interpretative sedimentatesi sulla tragedia nel corso dei secoli. Qualche
esempio: al linguaggio giuridico («i
bambini sono prosciolti dallesilio») si affianca quello emozionale («passione viscerale», per Medea che
definisce «bastardo» lo sposo ed è «ossessionata
dalla fedeltà»; «è
soggiogato da letti regali», per Giasone, che ostenta «un aspetto per bene»); alle tensione
poetica dei cori («figli di dèi beati
si nutrono della sapienza più fulgida, camminano con eleganza nellaria piena
di luce») si succedono espressioni colloquiali («tu non dovevi scendere al mio livello») in un amalgama che
unisce intensità espressiva al rispetto del dettato originale.
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