Presentato
in anteprima mondiale al 73° Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella
categoria Generation Kplus e distribuito a partire dal 18 maggio, il lungometraggio
desordio del documentarista Antonio Biagini, classe 1980, esce nelle sale italiane a otto anni di distanza da
Ella Maillart - Double Journey (2015), co-diretto con Mariann
Lewinsky. Prodotto da Kiné, casa di produzione di Bologna distintasi negli
ultimi anni per la valorizzazione di filmati darchivio, Le proprietà dei metalli è liberamente
ispirato a reali accadimenti che ruotano attorno a un fenomeno diffusosi
soprattutto in Italia nella seconda metà degli anni Settanta in cui dei giovani
sembravano in grado di piegare i metalli con il solo tocco delle mani. Il film
sfrutta il pretesto paranormale per imbastire un dramma famigliare e allo
stesso tempo ritrarre luniverso preadolescenziale, con sogni, paure, dolori,
inquietudini e incomprensioni. Allorigine della sceneggiatura il vaglio di
studi scientifici condotti da due professori italiani su bambini di umile
estrazione sociale, inseriti in dinamiche famigliari complesse.
Una scena del film
Ambientata
in un imprecisato borgo emiliano degli anni Settanta, la vicenda ruota attorno alla
famiglia del dodicenne Pietro (Martino Zaccara), orfano di madre che
vive con la nonna materna, il fratello minore (Edoardo Marcucci) e il
padre taglialegna Mauro (Antonio Buil Pueyo), indurito dalla scomparsa
della moglie. Luomo deve fare i conti con la figura senza scrupoli di Bruno (Enzo
Vetrano), che lo minaccia ripetutamente per via di un ingente debito
maturato in seguito a un prestito di denaro mai sanato. Sullo sfondo di questa
faida si staglia la vicenda del giovane protagonista e del suo dono misterioso.
Un giorno gli fa visita il professor Moretti (David Pasquesi),
scienziato italoamericano dellUniversità di Bologna intenzionato a studiare il
caso. Se Pietro si lascia convincere facilmente, vivendo questa serie di
incontri come una lieta distrazione dalla monotonia rurale, a far leva sul
padre è la possibilità di vincere una grossa somma di denaro con la partecipazione
a un concorso internazionale su fenomeni paranormali. Il premio diventa dunque
speranza di riscatto di unesistenza segnata da galline sgozzate e ruote recise.
Una scena del film
La
scrittura dellultima opera di Bigini ingloba ambienti semplici e situazioni
spiccatamente rurali, con incursioni fiabesche e non poche tinte noir,
avvalorate da un notevole lavoro di montaggio (Ilaria Fraioli). Esemplare
la scena della dimostrazione scientifica, durante la quale tensione e ritmo
crescono simultaneamente e progressivamente. Funzionali e coinvolgenti sono anche
le musiche originali di Simonluca Laitempergher. Calibrata e prudente la
regia, capace di valorizzare situazioni delicate senza mai lasciarsi andare a
virtuosismi fini a sé stessi. Da lodare anche la direzione degli attori: più
che con gli adulti Bigini è formidabile nel guidare i giovanissimi interpreti, così
naturali e spontanei da sembrare professionisti navigati. Menzione speciale anche
per la costruzione dellantagonista principale, Bruno, di unambiguità e di una
crudeltà tali da farlo spiccare sugli altri personaggi nonostante i pochi
minuti in cui compare sullo schermo. Ben gestito è anche il rapporto di Pietro
con le due figure maschili principali, il padre e il professore: se con il
primo la relazione ruota attorno una vita semplice, fatta di lavoro e di
questioni pratiche, quella con il secondo è invece un salto nel vuoto, nellignoto.
Pregevole
anche la scelta di scandagliare il percorso di crescita di Pietro, il cui unico
contatto con l“esterno” avviene per mezzo della televisione, con limperdibile
appuntamento con la miniserie Sandokan, diretta da Sergio Sollima e
distribuita sulla RAI proprio a partire dal 1976. Se nel resto dItalia la
trasmissione è a colori, a casa di Pietro è ancora in bianco e nero per via
dellapparecchio desueto, indizio sia di un forte ancoraggio al passato, sia di
una situazione economica non proprio idilliaca. Non è un caso che Bigini abbia
ambientato il tutto proprio nel decennio di annichilimento di quellItalia
rurale con forti eredità pagane, protesa verso un capitalismo stringente e
dilagante anche nelle campagne più remote. La tendenza a giocare sul non detto
(o meglio sul non visto), stuzzicando la fantasia e la curiosità dello
spettatore senza mai appagarla pienamente, esortandolo a rimanere vigile
durante tutta la durata del film, è quanto mai azzeccata.
Una scena del film
Lopera
è essenziale sotto molteplici punti di vista: dagli eventi alle location fino
al numero esiguo dei personaggi principali. Apprezzabile la scelta di evitare effetti
speciali o eventi ingombranti potenzialmente difficili da gestire. Se nella
prima parte le immagini e le atmosfere ammiccano a quelle di Padre padrone (1977)
di Paolo e Vittorio Taviani, di Ermanno Olmi (Lalbero
degli zoccoli, 1978), Bernardo Bertolucci (Novecento, 1976) e
di Giorgio Diritti (Luomo che verrà, 2009), verso il finale il
regista se ne discosta, orientando il film in direzione introspettiva e
psicologica. Allora emerge il perturbante di Pietro, il represso che diventa catartico,
simboleggiato da una luce solare proveniente da uno specchietto tenuto in mano
da una sua coetanea, a ricordargli limportanza della semplicità e della
bellezza nelle avventure quotidiane.
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