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Sulle orme della luce

di Giuseppe Mattia
  Le proprietà dei metalli
Data di pubblicazione su web 22/05/2023  

Presentato in anteprima mondiale al 73° Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella categoria Generation Kplus e distribuito a partire dal 18 maggio, il lungometraggio d’esordio del documentarista Antonio Biagini, classe 1980, esce nelle sale italiane a otto anni di distanza da Ella Maillart - Double Journey (2015), co-diretto con Mariann Lewinsky. Prodotto da Kiné, casa di produzione di Bologna distintasi negli ultimi anni per la valorizzazione di filmati d’archivio, Le proprietà dei metalli è liberamente ispirato a reali accadimenti che ruotano attorno a un fenomeno diffusosi soprattutto in Italia nella seconda metà degli anni Settanta in cui dei giovani sembravano in grado di piegare i metalli con il solo tocco delle mani. Il film sfrutta il pretesto paranormale per imbastire un dramma famigliare e allo stesso tempo ritrarre l’universo preadolescenziale, con sogni, paure, dolori, inquietudini e incomprensioni. All’origine della sceneggiatura il vaglio di studi scientifici condotti da due professori italiani su bambini di umile estrazione sociale, inseriti in dinamiche famigliari complesse.



Una scena del film

Ambientata in un imprecisato borgo emiliano degli anni Settanta, la vicenda ruota attorno alla famiglia del dodicenne Pietro (Martino Zaccara), orfano di madre che vive con la nonna materna, il fratello minore (Edoardo Marcucci) e il padre taglialegna Mauro (Antonio Buil Pueyo), indurito dalla scomparsa della moglie. L’uomo deve fare i conti con la figura senza scrupoli di Bruno (Enzo Vetrano), che lo minaccia ripetutamente per via di un ingente debito maturato in seguito a un prestito di denaro mai sanato. Sullo sfondo di questa faida si staglia la vicenda del giovane protagonista e del suo dono misterioso. Un giorno gli fa visita il professor Moretti (David Pasquesi), scienziato italoamericano dell’Università di Bologna intenzionato a studiare il caso. Se Pietro si lascia convincere facilmente, vivendo questa serie di incontri come una lieta distrazione dalla monotonia rurale, a far leva sul padre è la possibilità di vincere una grossa somma di denaro con la partecipazione a un concorso internazionale su fenomeni paranormali. Il premio diventa dunque speranza di riscatto di un’esistenza segnata da galline sgozzate e ruote recise.



Una scena del film

La scrittura dell’ultima opera di Bigini ingloba ambienti semplici e situazioni spiccatamente rurali, con incursioni fiabesche e non poche tinte noir, avvalorate da un notevole lavoro di montaggio (Ilaria Fraioli). Esemplare la scena della dimostrazione scientifica, durante la quale tensione e ritmo crescono simultaneamente e progressivamente. Funzionali e coinvolgenti sono anche le musiche originali di Simonluca Laitempergher. Calibrata e prudente la regia, capace di valorizzare situazioni delicate senza mai lasciarsi andare a virtuosismi fini a sé stessi. Da lodare anche la direzione degli attori: più che con gli adulti Bigini è formidabile nel guidare i giovanissimi interpreti, così naturali e spontanei da sembrare professionisti navigati. Menzione speciale anche per la costruzione dell’antagonista principale, Bruno, di un’ambiguità e di una crudeltà tali da farlo spiccare sugli altri personaggi nonostante i pochi minuti in cui compare sullo schermo. Ben gestito è anche il rapporto di Pietro con le due figure maschili principali, il padre e il professore: se con il primo la relazione ruota attorno una vita semplice, fatta di lavoro e di questioni pratiche, quella con il secondo è invece un salto nel vuoto, nell’ignoto.

Pregevole anche la scelta di scandagliare il percorso di crescita di Pietro, il cui unico contatto con l’“esterno” avviene per mezzo della televisione, con l’imperdibile appuntamento con la miniserie Sandokan, diretta da Sergio Sollima e distribuita sulla RAI proprio a partire dal 1976. Se nel resto d’Italia la trasmissione è a colori, a casa di Pietro è ancora in bianco e nero per via dell’apparecchio desueto, indizio sia di un forte ancoraggio al passato, sia di una situazione economica non proprio idilliaca. Non è un caso che Bigini abbia ambientato il tutto proprio nel decennio di annichilimento di quell’Italia rurale con forti eredità pagane, protesa verso un capitalismo stringente e dilagante anche nelle campagne più remote. La tendenza a giocare sul non detto (o meglio sul non visto), stuzzicando la fantasia e la curiosità dello spettatore senza mai appagarla pienamente, esortandolo a rimanere vigile durante tutta la durata del film, è quanto mai azzeccata.



Una scena del film

L’opera è essenziale sotto molteplici punti di vista: dagli eventi alle location fino al numero esiguo dei personaggi principali. Apprezzabile la scelta di evitare effetti speciali o eventi ingombranti potenzialmente difficili da gestire. Se nella prima parte le immagini e le atmosfere ammiccano a quelle di Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani, di Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli, 1978), Bernardo Bertolucci (Novecento, 1976) e di Giorgio Diritti (L’uomo che verrà, 2009), verso il finale il regista se ne discosta, orientando il film in direzione introspettiva e psicologica. Allora emerge il perturbante di Pietro, il represso che diventa catartico, simboleggiato da una luce solare proveniente da uno specchietto tenuto in mano da una sua coetanea, a ricordargli l’importanza della semplicità e della bellezza nelle avventure quotidiane.




Le proprietà dei metalli
cast cast & credits
 


La locandina del film



 
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