Dimenticare Micene e la reggia degli Atridi. NellElektra messa in scena da
Claus Guth a Francoforte di miti greci non cè traccia: siamo, piuttosto, nei
paraggi della Berggasse 19, mitico indirizzo – uscito dalla porta, il mito
rientra dalla finestra – dello studio-ambulatorio di Freud a Vienna. Opera
emblematica degli anni in cui fu composta (pubblicata nel 1899, Linterpretazione
dei sogni precede di dieci anni la partitura di Strauss e appena quattro
il testo di Hofmannsthal), Elektra
declina
alla luce delle nuove teorie mediche linconscio non ancora psicanalizzato della
tragedia sofoclea che ne è alla radice, e Guth si limita a prenderne atto.
Ne scaturisce una tragedia senza sangue (una
provocazione intellettuale, se si pensa che dai tempi di Ronconi lElektra ambientata in una
macelleria è divenuta un autentico filone registico), dove non cè spazio né per
la potenza barbarica dei tragici greci né per le virate espressionistiche care
a tanta tradizione esecutiva straussiana. La cornice è un ambiente totalmente
asettico (un albergo? una clinica psichiatrica?): al proscenio delle sedie in
serie – la sedia è, con il divano, oggetto psicanalitico per eccellenza – e sullo
sfondo una teoria di cortine violacee, dietro le quali scorre la vita dei clienti
dellhotel (o dei pazienti della clinica). Mimi volteggianti in divisa da pulitrici
e maggiordomi – quasi un aggiornamento dei camerieri del sanatorio nella Montagna incantata di Thomas Mann – rendono il
quadro ancor più straniante. Infine, delle porte indicanti altrettante uscite
di sicurezza: mete agognate, non sbocchi reali, almeno per la protagonista
segregata nella propria stanza mentale.
Una scena dello spettacolo © Monika Rittershaus
In questa prospettiva, che è poi la medesima chiave
di lettura con cui Guth ha recentemente messo in scena il Don Carlo a Napoli, tutto è
una visione di Elettra e tutti sono suoi fantasmi. Oreste appare ora bambino, ora
spettro in accappatoio: ma quando fa (o dovrebbe fare) davvero il suo ritorno, il
dialogo tra fratello e sorella si trasforma in soliloquio e la protagonista resta
sola in palcoscenico. Lurlo di Clitennestra, nel momento in cui viene sgozzata,
non è altro che un grido della stessa Elettra. Anche Egisto, trasformato in
gagà con frak e cilindro (la civiltà delloperetta è a sua volta coeva di Hofmannsthal
e Freud), si rialza con una derisoria piroetta dopo essere stato teoricamente ucciso.
Forse perfino lassassinio di Agamennone non è mai avvenuto, sebbene il suo
fantasma incomba ripetutamente in scena.
Tra una Crisotemide alcolizzata e una Clitennestra
vecchia diva cinematografica sul viale del tramonto, ma omaggiata da tutti i
presenti (il cinema muto è, con la psicanalisi e loperetta, il terzo muro
maestro antropologico degli anni in cui Elektra fu composta), pure
gli altri ruoli subiscono un radicale ridisegnamento: e sempre con perfetta
consequenzialità. Convince meno – sebbene funzionale al turbato point
of view della protagonista – la moltiplicazione dei personaggi (che
Clitennestra entri non con due, ma quattro accompagnatrici disinnesca le figure,
così ben pennellate da Strauss, della Confidente e dellAncella dello
strascico), così come può lasciare perplessi la conclusiva danza dionisiaca
trasformata in trenino umano con trombette e coriandoli. Lo spettacolo,
comunque, mantiene dallinizio alla fine la sua algida forza dimpatto, anche
grazie alle luci ora livide e ora lattiginose di Olaf Winter, alleleganza visiva
e concettuale della scenografia di Katrin Lea Tag, alla dialettica tra costumi primonovecenteschi
e moderni disegnati da Theresa Wilson.
Una scena dello spettacolo © Monika Rittershaus
Sebastian Weigle, direttore
stabile dellOper Frankfurt, sigla una lettura in linea con la regia:
ipertrofie foniche e lacerazioni ritmiche sono tenute a bada, in favore di uno
Strauss intimo, terso, quasi trasparente. Senza nulla sottrarre in
drammaticità, la tavolozza orchestrale si mantiene nitida anche nei momenti più
cupi. La parola resta sempre perfettamente intelligibile, pure quando immersa
in un fiume di suono. E la concertazione è di unanaliticità non dispersiva, che
consente di tratteggiare uno a uno tutti i personaggi – compresi i minori e i
minimi – mantenendo però quella serrata compattezza che, dellElektra, è requisito
inderogabile.
Aile Asszonyi non è solo una
protagonista di formidabile ampiezza e splendore vocale, capace doltrepassare
tutte le muraglie sonore che lorchestrazione di Strauss dissemina lungo la
strada del suo canto. È anche unElettra in grado – alloccasione – di flettere
la propria smisurata colonna di suono a “pianissimi” quasi cameristici, e dove
comunque i ben più numerosi “fortissimi” mantengono sempre unincontaminata purezza
lirica di fondo, in un fraseggio che resta interiorizzato perfino nei momenti
più ossessivi e martellanti. E pure la sua fisicità bionda e florida è perfetta
per il personaggio nevrotizzato e disturbato, certo, ma di una nevrosi “morbida”,
non ruvida, declinata dalla lettura di Weigle e Guth. Una scena dello spettacolo © Monika Rittershaus
Bionda, duna carnalità radiosa simmetrica
alla freschezza e robustezza del suo organo vocale, è anche la Crisotemide di Jennifer Holloway. La chiave
registica di Guth, unita allintrinseca personalità interpretativa della
cantante, non ne fanno la consueta pallida deuteragonista schiacciata dalla
caratterialità debordante della sorella: il personaggio assurge ad altezze coprotagonistiche,
affrancandosi da quella dolcezza e quel buonsenso che rappresentano unalternativa
più autenticamente femminile alla sete dodio di Elettra, diventando a tutti
gli effetti unaltra Elettra, massacrata da
nevrosi di segno differente ma altrettanto giganteggianti. E la corrente
sessuale che si crea tra le due sorelle – un seme gettato da Hofmannsthal, e raccolto
benissimo da Guth, quando Elettra sprona Crisotemide a restare vergine per
perpetrare lassassinio, poiché le vergini hanno più forza – è unistantanea
che rimane negli occhi dello spettatore: in apparente dormiveglia la Holloway giace
distesa lungo le sedie allineate al proscenio, mentre la Asszonyi, sussurrando
parole omicide, la sfiora tra le gambe svegliandola di soprassalto.
Sulla scia di molte illustri
Elettre di ieri che sul finire della carriera sono passate a interpretare la
madre della protagonista, anche Susan Bullock – che fu Elettra
per Ozawa – oggi incarna Clitennestra. La voce appare a tratti un po vuota (sessantacinque
primavere e una carriera spesa tra Wagner e Strauss non sono uno scherzo), ma questa regina
di Micene sfumata e vulnerabile, giocata sullo scavo della frase e propensa a
risolvere in puro canto quel che la tradizione spesso converte in declamato e
gridato, è un personaggio di notevole presa. Di minore impatto lOreste di Kihwan Sim, troppo basso e
troppo poco baritono, mentre efficacissimo è lEgisto di Peter Marsh, caricaturale e
tuttavia inquietante, incline allo Sprechgesang senza però nulla
perdere in squillo tenorile. A fare da cornice, la pletora delle parti di
fianco: non tutte parimenti a fuoco, ma con una menzione speciale per lottima dialettica
della coppia tenore-basso dei due servi (Jonathan Abernethy, che la regia mette
su una sedia a rotelle, e Seungwon Choi), nonché per lefficace mix tra canto cristallino
e (voluta) sguaiatezza scenica che promana dalla Sorvegliante di Nombuelo Yende.
Una scena dello spettacolo © Monika Rittershaus
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