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Uscita di sicurezza

di Paolo Patrizi
  Elektra
Data di pubblicazione su web 15/05/2023  

Dimenticare Micene e la reggia degli Atridi. Nell’Elektra messa in scena da Claus Guth a Francoforte di miti greci non c’è traccia: siamo, piuttosto, nei paraggi della Berggasse 19, mitico indirizzo – uscito dalla porta, il mito rientra dalla finestra – dello studio-ambulatorio di Freud a Vienna. Opera emblematica degli anni in cui fu composta (pubblicata nel 1899, L’interpretazione dei sogni precede di dieci anni la partitura di Strauss e appena quattro il testo di Hofmannsthal), Elektra declina alla luce delle nuove teorie mediche l’inconscio non ancora psicanalizzato della tragedia sofoclea che ne è alla radice, e Guth si limita a prenderne atto. 

Ne scaturisce una tragedia senza sangue (una provocazione intellettuale, se si pensa che dai tempi di Ronconi l’Elektra ambientata in una macelleria è divenuta un autentico filone registico), dove non c’è spazio né per la potenza barbarica dei tragici greci né per le virate espressionistiche care a tanta tradizione esecutiva straussiana. La cornice è un ambiente totalmente asettico (un albergo? una clinica psichiatrica?): al proscenio delle sedie in serie – la sedia è, con il divano, oggetto psicanalitico per eccellenza – e sullo sfondo una teoria di cortine violacee, dietro le quali scorre la vita dei clienti dell’hotel (o dei pazienti della clinica). Mimi volteggianti in divisa da pulitrici e maggiordomi – quasi un aggiornamento dei camerieri del sanatorio nella Montagna incantata di Thomas Mann – rendono il quadro ancor più straniante. Infine, delle porte indicanti altrettante uscite di sicurezza: mete agognate, non sbocchi reali, almeno per la protagonista segregata nella propria stanza mentale.


Una scena dello spettacolo
© Monika Rittershaus 

In questa prospettiva, che è poi la medesima chiave di lettura con cui Guth ha recentemente messo in scena il Don Carlo a Napoli, tutto è una visione di Elettra e tutti sono suoi fantasmi. Oreste appare ora bambino, ora spettro in accappatoio: ma quando fa (o dovrebbe fare) davvero il suo ritorno, il dialogo tra fratello e sorella si trasforma in soliloquio e la protagonista resta sola in palcoscenico. L’urlo di Clitennestra, nel momento in cui viene sgozzata, non è altro che un grido della stessa Elettra. Anche Egisto, trasformato in gagà con frak e cilindro (la civiltà dell’operetta è a sua volta coeva di Hofmannsthal e Freud), si rialza con una derisoria piroetta dopo essere stato teoricamente ucciso. Forse perfino l’assassinio di Agamennone non è mai avvenuto, sebbene il suo fantasma incomba ripetutamente in scena. 

Tra una Crisotemide alcolizzata e una Clitennestra vecchia diva cinematografica sul viale del tramonto, ma omaggiata da tutti i presenti (il cinema muto è, con la psicanalisi e l’operetta, il terzo muro maestro antropologico degli anni in cui Elektra fu composta), pure gli altri ruoli subiscono un radicale ridisegnamento: e sempre con perfetta consequenzialità. Convince meno – sebbene funzionale al turbato point of view della protagonista – la moltiplicazione dei personaggi (che Clitennestra entri non con due, ma quattro accompagnatrici disinnesca le figure, così ben pennellate da Strauss, della Confidente e dell’Ancella dello strascico), così come può lasciare perplessi la conclusiva danza dionisiaca trasformata in trenino umano con trombette e coriandoli. Lo spettacolo, comunque, mantiene dall’inizio alla fine la sua algida forza d’impatto, anche grazie alle luci ora livide e ora lattiginose di Olaf Winter, all’eleganza visiva e concettuale della scenografia di Katrin Lea Tag, alla dialettica tra costumi primonovecenteschi e moderni disegnati da Theresa Wilson.


Una scena dello spettacolo
© Monika Rittershaus 

Sebastian Weigle, direttore stabile dell’Oper Frankfurt, sigla una lettura in linea con la regia: ipertrofie foniche e lacerazioni ritmiche sono tenute a bada, in favore di uno Strauss intimo, terso, quasi trasparente. Senza nulla sottrarre in drammaticità, la tavolozza orchestrale si mantiene nitida anche nei momenti più cupi. La parola resta sempre perfettamente intelligibile, pure quando immersa in un fiume di suono. E la concertazione è di un’analiticità non dispersiva, che consente di tratteggiare uno a uno tutti i personaggi – compresi i minori e i minimi – mantenendo però quella serrata compattezza che, dell’Elektra, è requisito inderogabile. 

Aile Asszonyi non è solo una protagonista di formidabile ampiezza e splendore vocale, capace d’oltrepassare tutte le muraglie sonore che l’orchestrazione di Strauss dissemina lungo la strada del suo canto. È anche un’Elettra in grado – all’occasione – di flettere la propria smisurata colonna di suono a “pianissimi” quasi cameristici, e dove comunque i ben più numerosi “fortissimi” mantengono sempre un’incontaminata purezza lirica di fondo, in un fraseggio che resta interiorizzato perfino nei momenti più ossessivi e martellanti. E pure la sua fisicità bionda e florida è perfetta per il personaggio nevrotizzato e disturbato, certo, ma di una nevrosi “morbida”, non ruvida, declinata dalla lettura di Weigle e Guth.


Una scena dello spettacolo
© Monika Rittershaus 

Bionda, d’una carnalità radiosa simmetrica alla freschezza e robustezza del suo organo vocale, è anche la Crisotemide di Jennifer Holloway. La chiave registica di Guth, unita all’intrinseca personalità interpretativa della cantante, non ne fanno la consueta pallida deuteragonista schiacciata dalla caratterialità debordante della sorella: il personaggio assurge ad altezze coprotagonistiche, affrancandosi da quella dolcezza e quel buonsenso che rappresentano un’alternativa più autenticamente femminile alla sete d’odio di Elettra, diventando a tutti gli effetti un’altra Elettra, massacrata da nevrosi di segno differente ma altrettanto giganteggianti. E la corrente sessuale che si crea tra le due sorelle – un seme gettato da Hofmannsthal, e raccolto benissimo da Guth, quando Elettra sprona Crisotemide a restare vergine per perpetrare l’assassinio, poiché le vergini hanno più forza – è un’istantanea che rimane negli occhi dello spettatore: in apparente dormiveglia la Holloway giace distesa lungo le sedie allineate al proscenio, mentre la Asszonyi, sussurrando parole omicide, la sfiora tra le gambe svegliandola di soprassalto. 

Sulla scia di molte illustri Elettre di ieri che sul finire della carriera sono passate a interpretare la madre della protagonista, anche Susan Bullock – che fu Elettra per Ozawa – oggi incarna Clitennestra. La voce appare a tratti un po’ vuota (sessantacinque primavere e una carriera spesa tra Wagner e Strauss non sono uno scherzo), ma questa regina di Micene sfumata e vulnerabile, giocata sullo scavo della frase e propensa a risolvere in puro canto quel che la tradizione spesso converte in declamato e gridato, è un personaggio di notevole presa. Di minore impatto l’Oreste di Kihwan Sim, troppo basso e troppo poco baritono, mentre efficacissimo è l’Egisto di Peter Marsh, caricaturale e tuttavia inquietante, incline allo Sprechgesang senza però nulla perdere in squillo tenorile. A fare da cornice, la pletora delle parti di fianco: non tutte parimenti a fuoco, ma con una menzione speciale per l’ottima dialettica della coppia tenore-basso dei due servi (Jonathan Abernethy, che la regia mette su una sedia a rotelle, e Seungwon Choi), nonché per l’efficace mix tra canto cristallino e (voluta) sguaiatezza scenica che promana dalla Sorvegliante di Nombuelo Yende.


Una scena dello spettacolo
© Monika Rittershaus



Elektra
Tragedia in un atto


cast cast & credits
 
trama trama


Un momento dello spettacolo
visto il 5 maggio 2023
all'Oper Frankfurt
© Monika Rittershaus

 
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