Il
pianto di Orfeo sulla tomba dellamata Euridice si leva intenso e totale,
mentre un coro di ninfe e pastori intona un lamento mesto; il cantore invoca
dolente gli dei – «Euridice! Euridice! / Ombra cara ove sei?» – chiedendo che
gli venga restituita la giovane sposa. Così ha inizio Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck, che per
la prima rappresentazione al Burgtheater di Vienna il 5 ottobre 1762 si avvale
del libretto di Ranieri de Calzabigi e delle coreografie di Gasparo
Angiolini. Al di là delle successive variazioni di Parma (1769) e di Parigi
(1774), ledizione viennese rimane un punto di riferimento necessario,
anzitutto per gli aspetti innovativi introdotti dal compositore e dal poeta
rispetto allimpianto tradizionale del teatro musicale barocco.
Lopera
è ora andata in scena al Teatro La Fenice di Venezia in una veste davvero
esemplare, affidandosi allaccurata direzione musicale di Ottavio Dantone
e alla genialità creativa di Pier Luigi Pizzi, che firma la regia, le
scene e i costumi, con la valida collaborazione di Massimo Gasparon
(light designer) e di Massimo Berriel (movimenti coreografici).
Lesecuzione veneziana è caratterizzata dalla centralità dellorchestra e del
coro, fattori che evidenziano limportanza della vocalità e la struttura
drammaturgica. Conta anche la scelta di affidare il ruolo di protagonista a un
mezzosoprano, evitando di sovrapporre così la relazione timbrica con le altre
due parti da soprano; nello stesso tempo sul palcoscenico si muove un gruppo di
strumentisti che fanno da cornice mimica al dramma di Orfeo. 
Una scena dello spettacolo © Michele Crosera
A
definire unatmosfera densa di emozioni contribuisce in modo determinante la
cura particolare che Pizzi dedica alla messinscena, immaginando un palcoscenico
quasi spoglio, inclinato e segnato da scalini e fosse tombali. Su di esso
predomina un grande fondale sul quale sono proiettate immagini in movimento,
visioni naturali che scorrono in sintonia con la vicenda e il suo sviluppo: un
cielo coperto da nubi tempestose e un albero cupo e spoglio sovrastano il
seppellimento di Euridice; una persistente vampa di fuoco avvolge le porte
sbarrate degli inferi; un essenziale paesaggio bucolico accoglie il transito di
Orfeo tra le anime dei morti; e, non ultimo, un vortice di cerchi scuri
richiama una lontana finestra di luce, che allude al desiderio di risorgere
verso il mondo dei viventi.

Una scena dello spettacolo ©Michele Crosera
Lidea
base che evidenza la linea innovata dellopera di Gluck è accentuato
dallapoteosi finale che esalta la vittoria dellamore sulla morte, il trionfo
della musica sulloblio del tempo: sullo sfondo affiora, allora, il profilo
architettonico del Teatro La Fenice, una figurazione che sopravanza verso la
platea, volendo significare limpegno a perpetuare la sovranità della musica.
Quando lintervento di Amore decreta il risveglio di Euridice, nonostante il
tormentato e vano tentativo di Orfeo di superare la prova imposta dagli dei che
lo costringe a non volgere lo sguardo verso lamata finché si trova nel regno
della morte, la scena sillumina dimmenso e la coralità si afferma oltre i
confini della rappresentazione.
La
delicatezza esecutiva e visiva dellopera è accentuata dalla ottima prova delle
cantanti. Cecilia Molinari nel ruolo principale offre uninterpretazione
essenziale; è intensa e scrupolosa nel modulare le tessiture vocali secondo gli
stati danimo, dal dolore intenso alla ribellione verso il destino, dalla sfida
canora contro i demoni fino allangoscia interiore nella splendida aria «Che
farò senza Euridice!». Mary Bevan dona a Euridice un crescente pathos
che la vede smarrita e, poi, angustiata dal rifiuto di uno sguardo da parte di
Orfeo. Silvia Frigato dona al personaggio di Amore la limpidezza di una
voce che collega il modo degli uomini alla zona divina. Un ruolo di rilievo ha
il coro, diretto da Alfonso Caiani, che richiama la centralità delle
tragedie classiche.
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