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Lucia di Lammermoor alla Scala

di Paolo Gallarati
  Lucia di Lammermoor
Data di pubblicazione su web 08/05/2023  

Lucia di Lammermoor nella nuova edizione critica, con la direzione di Riccardo Chailly, la regia, le scene e i costumi di Yannis Kokkos ha fatto furore alla Scala. Lisette Oropesa è una belcantista provetta e la sua Lucia ha scatenato, giustamente, una tempesta di applausi; Juan Diego Florez canta con la tecnica raffinatissima che conosciamo, anche se la sua voce non possiede la luminosità e il calore sempre graditi, se non necessari, all’emozione del canto romantico. Chailly dirige con grande cura analitica, flessibilità ritmica e una dinamica singolarmente ristretta, che va dal mezzoforte in su (gli unici veri “pianissimi” li ho sentiti nei pizzicati della scena della pazzia). Nel complesso, siamo usciti soddisfatti, anche se, personalmente, ho atteso invano che la poesia dell’opera sbocciasse veramente, e le melodie e i colori orchestrali confluissero in quell’incanto intimamente nostalgico, di struggente lirismo, che della Lucia è la tinta dominante. Difficile però che ciò potesse avvenire nel contesto di questo spettacolo.


Una scena dello spettacolo
© Brescia/Amisano

Kokkos abolisce ogni riferimento alla Scozia. Evita così il pericolo di cadere nel folclore, esibendo   cornamuse, gonne a quadretti e copricapi con la piuma (anche se ci sono mille modi per realizzarli, grotteschi o elegantissimi); ma oscura il complesso di valori figurativi, poetici e musicali che fanno sistema nel capolavoro di Cammarano e Donizetti, attraverso il sovrapporsi di strati temporali diversi: il medioevo gotico, con fontane corrose, architetture diroccate, torri in rovina affacciate sul mare, tetti caduti, mura sbrecciate; la Scozia tardo-cinquecentesca, teatro dell’azione; il tempo di Walter Scott che ne rielabora la visione in chiave romantica; quello di Donizetti che interpreta il tutto attraverso i colori brumosi e trasognati della sua musica (l’armonica a bicchieri nella scena della pazzia), certo non insensibile al fascino delle rovine, la “Ruinen-Faszination”, ben nota agli storici dell’arte, che impregnò un filone cospicuo della pittura europea dell’Ottocento. Sospesi sullo sfondo di queste associazioni temporali, figurative, storiche, culturali, geografiche, poetiche, i drammi dei personaggi traggono un valore aggiunto di suggestione e capacità di commozione. Un bell’impegno per il regista che voglia realizzarne l’equivalente visivo. 


Una scena dello spettacolo
© Brescia/Amisano

Kokkos, invece, semplifica tutto. Il mondo passato, ritenuto evidentemente poco interessante in base alla triste negazione della storia e della sua poesia, oggi di moda, è trasportato negli anni Venti del Novecento. Il fine? Quello di mettere «in rilievo il fatto che la pressione morale sia meno forte della violenza degli interessi economici». Interessi economici nella Lucia di Lammermoor? Se ci sono, come d’altronde in ogni società, sono così nascosti, così impliciti, che è ardua impresa andarli a scovare e metterli in evidenza nella rappresentazione teatrale. Ancora una volta, dunque, il regista ha preso un dettaglio, assolutamente marginale, assumendolo come generale criterio interpretativo. Così, dopo lo stilizzato bosco di apertura, sfilano le scene razionaliste di Kokkos in un seguito di  pareti lisce, linee rette, scalinate a spigoli vivi, giacche, cravatte, pantaloni, gilet, abiti lunghi per le donne, colori sempre cupi, grigi e neri e nessuna differenza nei costumi dei personaggi, tanto che, quando Edgardo irrompe tra gli invitati al ricevimento di Arturo, come apparizione folgorante, colpo di scena, peripezia dirompente, lo spettatore stenta ad individuarlo tra la folla in cui si confonde.


Una scena dello spettacolo
© Brescia/Amisano

Ma c’è un altro problema: la recitazione. La scelta di attenersi ad una recitazione convenzionale da melodramma potrebbe anche esser dettata da un sofisticato intento di ricostruzione storica, giustificabile però in un contesto scenografico ad hoc, magari con scene dipinte in stile ottocentesco. Ma, in un ambiente primo Novecento, vedere braccia alzate, mani al cuore, abbracci e generici movimenti di scena di cantanti-attori abbandonati a sé stessi, spicca ancora di più nella sua innaturalezza. Non stupisce dunque che sia difficile, per i cantanti maschili, vestiti a quel modo, immedesimarsi totalmente nell’anima poetica e drammatica dei loro personaggi; meglio hanno invece potuto fare le due donne con costumi meno datati, in particolare Lisette Oropesa, una Lucia veritiera, sin dalla prima scena, che, nella scena della pazzia, è arrivata veramente a commuovere.



Lucia di Lammermoor



cast cast & credits
 
trama trama



Una scena dello spettacolo visto al Teatro alla Scala
© Brescia/Amisano


 
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