Lucia di Lammermoor nella
nuova edizione critica, con la direzione
di Riccardo Chailly, la regia, le scene
e i costumi di Yannis Kokkos ha
fatto furore alla Scala. Lisette
Oropesa è una belcantista provetta e la sua Lucia
ha scatenato, giustamente, una tempesta di applausi; Juan Diego Florez canta con la tecnica raffinatissima che conosciamo, anche
se la sua voce non possiede la luminosità e il calore sempre graditi, se non necessari, allemozione
del canto romantico. Chailly dirige con grande cura
analitica, flessibilità ritmica e una dinamica
singolarmente ristretta, che va dal mezzoforte in su (gli unici veri “pianissimi” li ho sentiti nei pizzicati della
scena della pazzia). Nel complesso, siamo usciti soddisfatti, anche se,
personalmente, ho atteso invano che la poesia dellopera sbocciasse veramente, e le
melodie e i colori orchestrali confluissero in quellincanto intimamente nostalgico,
di struggente lirismo, che della Lucia è la tinta dominante.
Difficile però che ciò potesse avvenire nel contesto di questo spettacolo.
Una scena dello spettacolo © Brescia/Amisano
Kokkos abolisce ogni riferimento
alla Scozia. Evita così il pericolo di cadere nel folclore,
esibendo cornamuse, gonne a quadretti e copricapi con la piuma (anche
se ci sono mille modi per realizzarli, grotteschi o elegantissimi); ma oscura il complesso di valori figurativi, poetici e
musicali che fanno sistema nel capolavoro di Cammarano e Donizetti,
attraverso il sovrapporsi di strati temporali diversi: il medioevo gotico, con fontane corrose, architetture
diroccate, torri in rovina affacciate sul mare, tetti
caduti, mura sbrecciate; la Scozia tardo-cinquecentesca, teatro dellazione; il
tempo di Walter Scott che ne
rielabora la visione in chiave romantica; quello di Donizetti che interpreta il
tutto attraverso i colori brumosi e trasognati della sua musica (larmonica a bicchieri nella scena della pazzia), certo non
insensibile al fascino delle rovine, la “Ruinen-Faszination”, ben nota agli storici dellarte, che impregnò un filone
cospicuo della pittura europea dellOttocento. Sospesi sullo sfondo di
queste associazioni temporali, figurative, storiche, culturali, geografiche,
poetiche, i drammi dei personaggi traggono un valore aggiunto di suggestione e
capacità di commozione. Un bellimpegno per il regista che voglia realizzarne lequivalente
visivo. Una scena dello spettacolo © Brescia/Amisano
Kokkos, invece, semplifica tutto. Il mondo passato, ritenuto evidentemente poco
interessante in base alla triste negazione della
storia e della sua poesia, oggi di moda, è trasportato negli anni Venti
del Novecento. Il fine? Quello di mettere «in rilievo
il fatto che la pressione morale sia meno forte della violenza degli interessi
economici». Interessi economici nella Lucia di Lammermoor? Se ci sono, come daltronde
in ogni società, sono così nascosti, così
impliciti, che è ardua impresa andarli a scovare e metterli
in evidenza nella rappresentazione teatrale. Ancora
una volta, dunque, il regista ha preso un dettaglio, assolutamente marginale, assumendolo come generale
criterio interpretativo. Così, dopo lo stilizzato bosco di apertura, sfilano le
scene razionaliste di Kokkos in un seguito
di pareti lisce, linee rette, scalinate a spigoli vivi, giacche, cravatte, pantaloni,
gilet, abiti lunghi per le donne, colori sempre cupi, grigi e neri e nessuna
differenza nei costumi dei personaggi, tanto che, quando Edgardo irrompe tra
gli invitati al ricevimento di Arturo, come apparizione folgorante, colpo di
scena, peripezia dirompente, lo spettatore stenta ad individuarlo tra la folla
in cui si confonde.
Una scena dello spettacolo © Brescia/Amisano
Ma cè un altro
problema: la recitazione. La scelta di attenersi ad una recitazione
convenzionale da melodramma potrebbe anche esser dettata da un sofisticato
intento di ricostruzione storica, giustificabile però in un contesto
scenografico ad hoc, magari con scene dipinte in stile ottocentesco. Ma, in un
ambiente primo Novecento, vedere
braccia alzate, mani al cuore, abbracci e generici movimenti di scena di
cantanti-attori abbandonati a sé stessi, spicca ancora di più nella sua innaturalezza.
Non stupisce dunque che sia difficile, per i cantanti maschili, vestiti a quel
modo, immedesimarsi totalmente nellanima poetica e drammatica dei loro
personaggi; meglio hanno invece potuto fare le due donne con costumi meno
datati, in particolare Lisette Oropesa, una Lucia veritiera, sin dalla prima
scena, che, nella scena della pazzia, è arrivata veramente a commuovere.
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