Li
zite ngalera (“I fidanzati sulla nave”, Napoli 1722)
di Bernardo Saddumene con musica di Leonardo Vinci, visti alla Scala, sono
come porcellane di Capodimonte. Nei confronti del pubblico attuale la loro
fragilità è assoluta: tre ore di commedeja
pe mmuseca in napoletano stretto, trama difficile da capire, equivoci
bizzarri, uomini con voci femminili e una donna con voce di tenore, un seguito
di arie col da capo, senza concertati dazione ma solo momenti esclamativi a
tre e quattro voci, sfidano tanto il regista, quanto, ancor più, lo spettatore
doggi. La convenzione regna sovrana e ci sono due modi per vitalizzarla:
cercare di camuffarla in abiti moderni, con lillusione di “attualizzare”
lopera, oppure accoglierla per quello che è, sfruttandone lenergia teatrale. Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano
Il regista Leo Muscato ha scelto la seconda opzione, con un orecchio molto
attento alla musica, il che è già di per sé una rarità: commedia vivacissima,
gesticolazione esagitata e così esplicita da compensare la difficoltà di capire
il testo. Ma qui non ci vuole la recitazione realistica che si imporrà
progressivamente nellopera buffa durante i decenni successivi, sino alla
suprema naturalezza di quella mozartiana. Questo teatro è un incrocio tra la
commedia dellarte e la rappresentazione popolare di piazza: il personaggio del
garzone Ciccariello è un onnipresente Arlecchino, quello della matura
Meneca-tenore il grottesco erede delle nutrici dellopera barocca.
Convenzionale è pure lindipendenza dei registri vocali rispetto ai personaggi
(uomini con voci da donna e viceversa): non centra la fluidità di genere, su
cui qualche spettatore incontentabile avrebbe desiderato che il regista
costruisse una commedia in abiti moderni, magari con qualche trita caricatura
di omosessuali travestiti. No, i personaggi de Li zite ngalera non si possono abbigliare in jeans, T-shirts e
sneakers: sarebbe improbabile e ridicolo sentirli cantare, conciati così, le
arie di Vinci, radicate nel gusto, nel mondo e nel sistema semiotico del primo
Settecento napoletano. Arie che il ritmo, più importante della melodia, fa
scoppiare di movimenti e gesti impliciti, resi visibili da Muscato con un
lavoro capillare sugli attori. Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano
Comprendiamo così che lunione di
musica e azione era intrinseca alla natura dellopera buffa sin delle origini,
anche nei pezzi solistici, e che la sua carica di vitalità, ancor oggi, può
essere contagiosa, nonostante la drammaturgia basata su una sfilza
interminabile di arie solistiche. Ma chi se ne accorge? Muscato è bravissimo a
sottolineare il carattere dialogico di ogni pezzo e movimenta ogni scena, non
solo mettendo in evidenza colui a cui è diretto il discorso, ma vivacizzando
ogni situazione attraverso la presenza di altri personaggi, che vanno e vengono
con discrezione e leggerezza, senza mai disturbare lascolto della musica.
Questo spettacolo, pur essendo
ispirato da un senso vivo della storia, cioè dalla volontà di restituire al
pubblico limmagine di che cosa era la commedeja
pe mmuseca nel primo Settecento, è vivo, scattante, spiritoso e poetico:
nessuna simbologia astrusa, tutto è reale, in omaggio alla verità effettuale. Così
il pubblico si diverte, e giunge alla fine delle tre ore scoppiando in
applausi, soddisfatto anche per il buon gusto dei costumi settecenteschi di Silvia Aymonino e per la varietà delle
scene di Federica Parolini che ricostruiscono sul palcoscenico della
Scala la piccola dimensione del napoletano Teatro dei Fiorentini, scorrendo
lateralmente con agilità cinematografica, sotto calde luci pastello, oppure
sparendo per lasciar apparire lo sfondo di un porticato, aperto su un cielo
sparso di nubi. Sfilano la cucina con le piastrelle di Vietri e i rami
luccicanti, la camera da letto, il salotto Luigi XV con la stufa di ceramica,
il balconcino coi panni stesi, i vicoli affollati in cui, a un certo punto,
scoppia una trascinante tarantella, finché alla fine appare lo sfondo vaporoso
e antico del Vesuvio e della nave.  Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano
Lessenza teatrale, se non la
lettera, della drammaturgia di Saddumene e Vinci viene così vitalizzata, mentre
i gesti nascono come naturale emanazione di quella musica veloce, scattante,
legnosa, burattinesca, guizzante, beffarda, bizzarra, grottesca; idea forte,
dalle enormi conseguenze storiche (tutta lopera buffa, sino a Rossini e oltre,
parte di lì) che non ha bisogno di esser sostituita da altre idee, se la
ricostruzione storica, musicale e visiva, sa renderla viva. E se quel mondo è
lontano dal nostro, tanto meglio: la differenza insegna di più su noi stessi di
quanto non faccia una forzata somiglianza. Immergersi in un sistema di segni in
cui la vitalità debordante e il guizzo ironico, il ripiegamento sentimentale e
lestroversione si fondono in un equilibrio ideale, ci offre un modello di vita
e di rappresentazione del mondo che solleva, diverte e ricrea la nostra
sensibilità contemporanea, facendoci riflettere, per contrasto, sul mondo
attuale. Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano Ottima è parsa la direzione di Andrea Marcon, con lorchestra della
Scala barocchizzata grazie al concorso de «La Cetra Barockorchester» e lintroduzione
di strumenti storici, tra cui un colascione, tiorbe, percussioni tintinnanti e
metalliche: non una nota di Vinci è stata toccata, ma la varietà timbrica,
trattata con molto gusto da Marcon, ha contribuito in modo determinante alla
scorrevolezza dellascolto. Bravi gli interpreti che nella commedeja pe mmuseca vanno giudicati prima di tutto come attori,
come quelli che, allepoca, affrontavano indifferentemente parti parlate e
cantate. Ma la compagnia era di alto livello: Francesca Aspromonte ha cantato con grande eleganza la parte di
Carlo, Chiara Amarù quella di
Belluccia Mariano, Francesca Pia Vitale
è stata una deliziosa Ciomma Palummo, il controtenore Filippo Mineccia e il basso Marco
Filippo Romano ottimi rispettivamente nella parte sentimentale di
Titta Castagna e in quella buffa del cuoco Rapisto. Su tutti spiccavano Raffaele Pe (Ciccariello) e Alberto
Allegrezza (Meneca Vernillo) che, oltre a cantare, fischia e suona
benissimo il flauto dolce: straordinari istrioni, scoppiettanti dispensatori di
lazzi e fantasie.
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