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Li zite ngalera

di Paolo Gallarati
  Li zite ngalera
Data di pubblicazione su web 26/04/2023  

Li zite ngalera (“I fidanzati sulla nave”, Napoli 1722) di Bernardo Saddumene con musica di Leonardo Vinci, visti alla Scala, sono come porcellane di Capodimonte. Nei confronti del pubblico attuale la loro fragilità è assoluta: tre ore di commedeja pe mmuseca in napoletano stretto, trama difficile da capire, equivoci bizzarri, uomini con voci femminili e una donna con voce di tenore, un seguito di arie col da capo, senza concertati d’azione ma solo momenti esclamativi a tre e quattro voci, sfidano tanto il regista, quanto, ancor più, lo spettatore d’oggi. La convenzione regna sovrana e ci sono due modi per vitalizzarla: cercare di camuffarla in abiti moderni, con l’illusione di “attualizzare” l’opera, oppure accoglierla per quello che è, sfruttandone l’energia teatrale.


Una scena dello spettacolo
© Brescia e Amisano

Il regista Leo Muscato ha scelto la seconda opzione, con un orecchio molto attento alla musica, il che è già di per sé una rarità: commedia vivacissima, gesticolazione esagitata e così esplicita da compensare la difficoltà di capire il testo. Ma qui non ci vuole la recitazione realistica che si imporrà progressivamente nell’opera buffa durante i decenni successivi, sino alla suprema naturalezza di quella mozartiana. Questo teatro è un incrocio tra la commedia dell’arte e la rappresentazione popolare di piazza: il personaggio del garzone Ciccariello è un onnipresente Arlecchino, quello della matura Meneca-tenore il grottesco erede delle nutrici dell’opera barocca. Convenzionale è pure l’indipendenza dei registri vocali rispetto ai personaggi (uomini con voci da donna e viceversa): non c’entra la fluidità di genere, su cui qualche spettatore incontentabile avrebbe desiderato che il regista costruisse una commedia in abiti moderni, magari con qualche trita caricatura di omosessuali travestiti. No, i personaggi de Li zite ngalera non si possono abbigliare in jeans, T-shirts e sneakers: sarebbe improbabile e ridicolo sentirli cantare, conciati così, le arie di Vinci, radicate nel gusto, nel mondo e nel sistema semiotico del primo Settecento napoletano. Arie che il ritmo, più importante della melodia, fa scoppiare di movimenti e gesti impliciti, resi visibili da Muscato con un lavoro capillare sugli attori.


Una scena dello spettacolo
© Brescia e Amisano

Comprendiamo così che l’unione di musica e azione era intrinseca alla natura dell’opera buffa sin delle origini, anche nei pezzi solistici, e che la sua carica di vitalità, ancor oggi, può essere contagiosa, nonostante la drammaturgia basata su una sfilza interminabile di arie solistiche. Ma chi se ne accorge? Muscato è bravissimo a sottolineare il carattere dialogico di ogni pezzo e movimenta ogni scena, non solo mettendo in evidenza colui a cui è diretto il discorso, ma vivacizzando ogni situazione attraverso la presenza di altri personaggi, che vanno e vengono con discrezione e leggerezza, senza mai disturbare l’ascolto della musica. 

Questo spettacolo, pur essendo ispirato da un senso vivo della storia, cioè dalla volontà di restituire al pubblico l’immagine di che cosa era la commedeja pe mmuseca nel primo Settecento, è vivo, scattante, spiritoso e poetico: nessuna simbologia astrusa, tutto è reale, in omaggio alla verità effettuale. Così il pubblico si diverte, e giunge alla fine delle tre ore scoppiando in applausi, soddisfatto anche per il buon gusto dei costumi settecenteschi di Silvia Aymonino e per la varietà delle scene di Federica Parolini  che ricostruiscono sul palcoscenico della Scala la piccola dimensione del napoletano Teatro dei Fiorentini, scorrendo lateralmente con agilità cinematografica, sotto calde luci pastello, oppure sparendo per lasciar apparire lo sfondo di un porticato, aperto su un cielo sparso di nubi. Sfilano la cucina con le piastrelle di Vietri e i rami luccicanti, la camera da letto, il salotto Luigi XV con la stufa di ceramica, il balconcino coi panni stesi, i vicoli affollati in cui, a un certo punto, scoppia una trascinante tarantella, finché alla fine appare lo sfondo vaporoso e antico del Vesuvio e della nave.

Una scena dello spettacolo
© Brescia e Amisano 

L’essenza teatrale, se non la lettera, della drammaturgia di Saddumene e Vinci viene così vitalizzata, mentre i gesti nascono come naturale emanazione di quella musica veloce, scattante, legnosa, burattinesca, guizzante, beffarda, bizzarra, grottesca; idea forte, dalle enormi conseguenze storiche (tutta l’opera buffa, sino a Rossini e oltre, parte di lì) che non ha bisogno di esser sostituita da altre idee, se la ricostruzione storica, musicale e visiva, sa renderla viva. E se quel mondo è lontano dal nostro, tanto meglio: la differenza insegna di più su noi stessi di quanto non faccia una forzata somiglianza. Immergersi in un sistema di segni in cui la vitalità debordante e il guizzo ironico, il ripiegamento sentimentale e l’estroversione si fondono in un equilibrio ideale, ci offre un modello di vita e di rappresentazione del mondo che solleva, diverte e ricrea la nostra sensibilità contemporanea, facendoci riflettere, per contrasto, sul mondo attuale.

Una scena dello spettacolo
© Brescia e Amisano

Ottima è parsa la direzione di Andrea Marcon, con l’orchestra della Scala barocchizzata grazie al concorso de «La Cetra Barockorchester» e l’introduzione di strumenti storici, tra cui un colascione, tiorbe, percussioni tintinnanti e metalliche: non una nota di Vinci è stata toccata, ma la varietà timbrica, trattata con molto gusto da Marcon, ha contribuito in modo determinante alla scorrevolezza dell’ascolto. Bravi gli interpreti che nella commedeja pe mmuseca vanno giudicati prima di tutto come attori, come quelli che, all’epoca, affrontavano indifferentemente parti parlate e cantate. Ma la compagnia era di alto livello: Francesca Aspromonte ha cantato con grande eleganza la parte di Carlo, Chiara Amarù quella di Belluccia Mariano, Francesca Pia Vitale è stata una deliziosa Ciomma Palummo, il controtenore Filippo Mineccia e il basso Marco Filippo Romano ottimi rispettivamente nella parte sentimentale di Titta Castagna e in quella buffa del cuoco Rapisto.   Su tutti spiccavano Raffaele Pe (Ciccariello) e Alberto Allegrezza (Meneca Vernillo) che, oltre a cantare, fischia e suona benissimo il flauto dolce: straordinari istrioni, scoppiettanti dispensatori di lazzi e fantasie.



Li zite ngalera
Commedia in musica in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama


Una scena dello spettacolo
visto al Teatro alla Scala
di Milano 
© Brescia e Amisano

 
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