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Trittico in dittici

di Paolo Patrizi
  Il tabarro e Il castello del Principe Barbablù
Data di pubblicazione su web 21/04/2023  

Fare teatro vuol dire anche scompaginare le carte, smontare i meccanismi, porre nuove domande in attesa di risposte che non necessariamente arriveranno subito. Il modo con cui l’Opera di Roma si avvia a celebrare un secolo dalla morte di Giacomo Puccini è, sotto questo profilo, esemplare: un progetto triennale (2023-2025, con al centro l’anno centenario) intitolato Trittico ricomposto, che destruttura la più stratificata fra le creazioni pucciniane – il Trittico, appunto – spalmando su tre diversi spettacoli i pannelli che la compongono e creando altrettanti nuovi dittici, dove Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi dialogano con altri grandi atti unici del Novecento storico. 

Il primo appuntamento ha visto Tabarro entrare in dialettica con il Bartók del Castello del principe Barbablù. Parrebbe abbinamento peregrino, a un colpo d’occhio superficiale (che l’anno della première, il 1918, sia lo stesso è una semplice casualità): al contrario, trova irreprensibile cittadinanza drammaturgica nell’unità di tempo e luogo caratterizzanti il libretto di Giuseppe Adami come quello di Béla Balász, nonché nel buio senza speranza che informa tanto il triangolo amoroso (dove però l’amore è solo chimera o ricordo) portato in scena da Puccini quanto la mortifera partita a due tra il Barbablù bartokiano e la sua ultima moglie. Ma soprattutto l’insolito abbinamento – come, si spera, quelli dei due spettacoli a venire – svela una serie di ulteriori rapporti nascosti (o li crea: il talento di un regista si misura pure sotto il profilo demiurgico, non solo sotto quello ermeneutico), che sono la ragione più profonda di questa messinscena e dell’intero progetto Trittico ricomposto.


Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Ne siamo debitori a Johannes Erath, al suo debutto in un teatro italiano: uno di quei registi che spesso ignorano le didascalie dei libretti (il suo splendido Ballo in maschera da anni in scena a Monaco resta ermetico per chi non conosca il plot dell’opera verdiana), ma restando sempre “dentro” la musica, e capaci di restituire le motivazioni più profonde dei personaggi ponendoli in uno spazio mentale avulso da addentellati realistici. Il risultato è un Tabarro elusivo della sua tradizionale cornice naturalistica (viene meno, in quest’ottica, il Puccini narratore di ambienti e oggetti: perfino del tabarro eponimo non c’è traccia) e ricollocato in una dimensione simbolista – una sorta di Zola letto con la lente di Maeterlinck – che è il miglior trait d’union possibile con l’opera di Bartók. Che peraltro, a sua volta, si carica qui di sollecitazioni materiche tali da infittire – sul piano scenico, e soprattutto percettivo – l’atmosfera rarefatta del testo di Balász, imprimendogli una concretezza non troppo lontana dal dramma a tinte fosche versificato da Adami per Puccini.

In tale fertile circuito tra sussurri simbolisti e grida espressioniste, tra nuove frontiere impressioniste e antiche reminiscenze veriste, non è necessario assimilare tutto subito: lo spettacolo è di quelli che si sedimentano nella memoria del pubblico e traggono vantaggio da una seconda visione. Fra i momenti d’impatto più immediato si possono citare, nel Tabarro, l’inizio favolistico da “C’era una volta” (le scene di Katrin Connan via via si scarnificano in una teoria di strutture metalliche, ma partono con una tela riproducente Böcklin), che allude alla fiaba spezzata dei sogni di Giorgetta e, insieme, prelude alla successiva favola nera di Barbablù; l’occhio esterno che scruta la vicenda, con la coppia dei due amanti (mere voci fuori scena nell’originale pucciniano) trasformati in muti testimoni di quella storia di amori andati a male, e che sin dall’alzarsi del sipario osservano seduti in panchina come i fidanzatini di Peynet; l’acqua della Senna spogliata dal suo “specifico” fluviale e restituita come elemento onirico-evocativo (gran lavoro delle luci di Alessandro Carletti e dei video di Bibi Abel); l’umanità reietta degli scaricatori di porto sostituita da una squadra di tecnici e inservienti teatrali, a memento che il vero paria, oggi, è chi lavora in teatro.


Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Non manca qualche figura all’apparenza criptica o esornativa (la piccola ballerina in tutù, le donne piumate che contrappuntano il sogno di lustrini fatto da Giorgetta…), ma il cerchio si chiude nella seconda parte dello spettacolo, quando quegli stessi personaggi femminili tornano come altre mogli di Barbablù. Qui la liquida visionarietà che informava Il tabarro cede il passo a una crudeltà meno immateriale e di più concreta evidenza (più pucciniana, verrebbe paradossalmente da dire), dove il personaggio di Judit – la nuova moglie – non è solo l’anello terminale d’una catena di spose-martiri, ma una donna che conosce bene l’arte di alternarsi tra vittima e carnefice. E che quella di Erath sia una regia musicalissima, capace di dar forma all’immaterialità di un’idea sonora, trova conferma in quei grandi veli mossi dal vento – contrappunto arioso alla livida stagnazione della vicenda – che della musica di Bartók restituiscono appunto ogni increspatura: dalla ritmica proteiforme alla divaricazione degli intervalli.


Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Purtroppo, al contrario del regista, il direttore non è riuscito a costruire un percorso unitario tra le due opere. Nella lettura di Michele Mariotti – peraltro si deve proprio a lui l’idea del Trittico ricomposto – manca la plasticità di resa, e la fantasia narrativa, necessarie per trasformare Puccini e Bartók in un’unica avventura musicale. Del primo, anzi, cura (anche se con indubbia perizia) soprattutto gli aspetti più ovvi: ricchezza coloristica, melodismo orecchiabile, necessario sostegno del canto. Latita invece il Puccini più inquieto e sperimentale, che nel sempiterno dualismo tra “ispirazione” e “fattura” si era ormai spostato verso la seconda delle due polarità, e proprio nel Trittico trovò il punto di non ritorno di tale tendenza. Quanto al Castello del principe Barbablù, i grandi affondi espressionistici vengono prevedibilmente disinnescati da una bacchetta incline a “calviniana” leggerezza come quella di Mariotti: peccato che al diminuire della tensione fonica non corrisponda l’approdo a più suadenti atmosfere, ma solo un gusto per i dettagli che fatica a coagularsi in autentico racconto.


Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

I due cast hanno trovato il punto di forza nelle rispettive protagoniste e gli aspetti più deboli nei loro antagonisti maschili. Maria Agresta incarna una Giorgetta quasi trasfigurata nel suo sogno senza speranza di riscatto amoroso, con una purezza di emissione che guarda all’ideale di un “belcanto verista” che ha il suo modello implicito in Renata Scotto; mentre Szilvia Vörös è una Judit bifronte: voluminosa nel registro grave ma penetrante in alto, con un fisico non da modella eppure d’intrigante sensualità (efficacissimo contrappasso dell’ascetica venustà della Agresta). Rispetto a interpretazioni tanto cesellate e personali, Luca Salsi e Mikhail Petrenko convincono assai meno: il primo appare abbastanza estraneo – l’unico, di tutta la locandina – alla logica di questo spettacolo, e fedele al vecchio modello del Tabarro verista con baritono granitico, l’altro è interprete più raffinato (anche perché ottimo attore in scena), ma con limiti di timbro e colore.


Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Limiti, questi ultimi, che sarebbe stato invece logico avvertire in Gregory Kunde, date le sessantanove primavere del grande tenore americano. Così non è stato e, almeno nella recita di cui si dà conto (i cantanti a fine carriera hanno inevitabilmente rese altalenanti), si è assistito a una performance che non sarà esagerato definire sbalorditiva: fermezza di suono, lunghezza di fiati, acuti squillanti erano quelli delle serate di grazia. Un ulteriore tassello di una carriera che continua a vedere ogni anno ruoli nuovi, sempre con la voglia di mettersi in gioco; e sebbene Luigi non sia uno dei tenori pucciniani più esaltanti, Kunde ha saputo farne un personaggio introverso e perdente: dove la gagliardia di certe frasi acquistano retrospettivamente il sapore d’un presagio di morte, anziché di una gradassata tenorile. 

Tra gli altri interpreti assai icastica Enkelejda Shkoza nei panni della Frugola, la senzatetto che fruga tra l’immondizia. Sala abbastanza plaudente, ma non un successo pieno. Speriamo che i successivi appuntamenti (lo Schicchi verrà abbinato al Ravel dell’Heure Espagnole, Suor Angelica al Dallapiccola del Prigioniero) rendano il pubblico romano più empatico con l’operazione Trittico ricomposto.



Il tabarro e Il castello del Principe Barbablù
Trittico ricomposto


cast cast & credits
 
trama trama



Una scena dello spettacolo visto al Teatro dell'Opera di Roma
© Fabrizio Sansoni
 
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