Fare teatro vuol dire anche
scompaginare le carte, smontare i meccanismi, porre nuove domande in attesa di
risposte che non necessariamente arriveranno subito. Il modo con cui lOpera di
Roma si avvia a celebrare un secolo dalla morte di Giacomo Puccini è, sotto
questo profilo, esemplare: un progetto triennale (2023-2025, con al centro
lanno centenario) intitolato Trittico ricomposto, che
destruttura la più stratificata fra le creazioni pucciniane – il Trittico,
appunto – spalmando su tre diversi spettacoli i pannelli che la compongono e
creando altrettanti nuovi dittici, dove Il tabarro, Suor Angelica
e Gianni Schicchi dialogano con altri grandi atti unici del
Novecento storico.
Il primo appuntamento ha visto Tabarro
entrare in dialettica con il Bartók del Castello del principe Barbablù.
Parrebbe abbinamento peregrino, a un colpo docchio superficiale (che lanno
della première, il 1918, sia lo stesso è una semplice casualità): al
contrario, trova irreprensibile cittadinanza drammaturgica nellunità di tempo
e luogo caratterizzanti il libretto di Giuseppe Adami come quello di Béla Balász,
nonché nel buio senza speranza che informa tanto il triangolo amoroso (dove
però lamore è solo chimera o ricordo) portato in scena da Puccini quanto la
mortifera partita a due tra il Barbablù bartokiano e la sua ultima moglie. Ma
soprattutto linsolito abbinamento – come, si spera, quelli dei due spettacoli
a venire – svela una serie di ulteriori rapporti nascosti (o li crea: il
talento di un regista si misura pure sotto il profilo demiurgico, non solo
sotto quello ermeneutico), che sono la ragione più profonda di questa
messinscena e dellintero progetto Trittico ricomposto.
Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Ne siamo debitori a Johannes Erath,
al suo debutto in un teatro italiano: uno di quei registi che spesso ignorano
le didascalie dei libretti (il suo splendido Ballo in maschera da anni
in scena a Monaco resta ermetico per chi non conosca il plot dellopera
verdiana), ma restando sempre “dentro” la musica, e capaci di restituire le
motivazioni più profonde dei personaggi ponendoli in uno spazio mentale avulso
da addentellati realistici. Il risultato è un Tabarro elusivo della sua
tradizionale cornice naturalistica (viene meno, in questottica, il Puccini
narratore di ambienti e oggetti: perfino del tabarro eponimo non cè traccia) e
ricollocato in una dimensione simbolista – una sorta di Zola letto con la lente
di Maeterlinck – che è il miglior trait dunion possibile con
lopera di Bartók. Che peraltro, a sua volta, si carica qui di sollecitazioni
materiche tali da infittire – sul piano scenico, e soprattutto percettivo –
latmosfera rarefatta del testo di Balász, imprimendogli una concretezza non
troppo lontana dal dramma a tinte fosche versificato da Adami per Puccini.
In tale fertile circuito tra
sussurri simbolisti e grida espressioniste, tra nuove frontiere impressioniste
e antiche reminiscenze veriste, non è necessario assimilare tutto subito: lo
spettacolo è di quelli che si sedimentano nella memoria del pubblico e traggono
vantaggio da una seconda visione. Fra i momenti dimpatto più immediato si
possono citare, nel Tabarro, linizio favolistico da “Cera una volta”
(le scene di Katrin Connan via via si scarnificano in una teoria di strutture
metalliche, ma partono con una tela riproducente Böcklin), che allude alla
fiaba spezzata dei sogni di Giorgetta e, insieme, prelude alla successiva
favola nera di Barbablù; locchio esterno che scruta la
vicenda, con la coppia dei due amanti (mere voci fuori scena
nelloriginale pucciniano) trasformati in muti testimoni di quella storia di
amori andati a male, e che sin dallalzarsi del sipario osservano seduti in
panchina come i fidanzatini di Peynet; lacqua della Senna spogliata dal suo
“specifico” fluviale e restituita come elemento onirico-evocativo (gran lavoro
delle luci di Alessandro Carletti e dei video di Bibi Abel); lumanità reietta
degli scaricatori di porto sostituita da una squadra di tecnici e inservienti
teatrali, a memento che il vero paria, oggi, è chi lavora in teatro. Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Non manca qualche figura
allapparenza criptica o esornativa (la piccola ballerina in tutù, le donne
piumate che contrappuntano il sogno di lustrini fatto da Giorgetta…), ma il
cerchio si chiude nella seconda parte dello spettacolo, quando quegli stessi
personaggi femminili tornano come altre mogli di Barbablù. Qui la liquida
visionarietà che informava Il tabarro cede il passo a una
crudeltà meno immateriale e di più concreta evidenza (più pucciniana, verrebbe
paradossalmente da dire), dove il personaggio di Judit – la nuova moglie – non
è solo lanello terminale duna catena di spose-martiri, ma una donna che
conosce bene larte di alternarsi tra vittima e carnefice. E che quella di
Erath sia una regia musicalissima, capace di dar forma allimmaterialità di
unidea sonora, trova conferma in quei grandi veli mossi dal vento –
contrappunto arioso alla livida stagnazione della vicenda – che della musica di
Bartók restituiscono appunto ogni increspatura: dalla ritmica proteiforme alla
divaricazione degli intervalli.
Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Purtroppo, al contrario del
regista, il direttore non è riuscito a costruire un percorso unitario tra le
due opere. Nella lettura di Michele Mariotti – peraltro si deve proprio a lui
lidea del Trittico ricomposto – manca la plasticità di resa, e la
fantasia narrativa, necessarie per trasformare Puccini e Bartók in ununica
avventura musicale. Del primo, anzi, cura (anche se con indubbia perizia)
soprattutto gli aspetti più ovvi: ricchezza coloristica, melodismo
orecchiabile, necessario sostegno del canto. Latita invece il Puccini più
inquieto e sperimentale, che nel sempiterno dualismo tra “ispirazione” e
“fattura” si era ormai spostato verso la seconda delle due polarità, e proprio
nel Trittico trovò il punto di non ritorno di tale tendenza. Quanto al Castello
del principe Barbablù, i grandi affondi espressionistici vengono
prevedibilmente disinnescati da una bacchetta incline a “calviniana” leggerezza
come quella di Mariotti: peccato che al diminuire della tensione fonica non
corrisponda lapprodo a più suadenti atmosfere, ma solo un gusto per i dettagli
che fatica a coagularsi in autentico racconto.
Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
I due cast hanno trovato il
punto di forza nelle rispettive protagoniste e gli aspetti più deboli nei loro
antagonisti maschili. Maria Agresta incarna una Giorgetta quasi trasfigurata
nel suo sogno senza speranza di riscatto amoroso, con una purezza di emissione
che guarda allideale di un “belcanto verista” che ha il suo modello implicito
in Renata Scotto; mentre Szilvia Vörös è una Judit bifronte: voluminosa nel
registro grave ma penetrante in alto, con un fisico non da modella eppure
dintrigante sensualità (efficacissimo contrappasso dellascetica venustà della
Agresta). Rispetto a interpretazioni tanto cesellate e personali, Luca Salsi e Mikhail
Petrenko convincono assai meno: il primo appare abbastanza estraneo – lunico,
di tutta la locandina – alla logica di questo spettacolo, e fedele al vecchio
modello del Tabarro verista con baritono granitico, laltro è interprete
più raffinato (anche perché ottimo attore in scena), ma con limiti di timbro e
colore.
Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Limiti, questi ultimi, che sarebbe
stato invece logico avvertire in Gregory Kunde, date le sessantanove primavere
del grande tenore americano. Così non è stato e, almeno nella recita di cui si
dà conto (i cantanti a fine carriera hanno
inevitabilmente rese altalenanti), si è assistito a una performance che
non sarà esagerato definire sbalorditiva: fermezza di suono, lunghezza di
fiati, acuti squillanti erano quelli delle serate di grazia. Un ulteriore
tassello di una carriera che continua a vedere ogni anno ruoli nuovi, sempre
con la voglia di mettersi in gioco; e sebbene Luigi non sia uno dei tenori
pucciniani più esaltanti, Kunde ha saputo farne un personaggio introverso e
perdente: dove la gagliardia di certe frasi acquistano retrospettivamente il
sapore dun presagio di morte, anziché di una gradassata tenorile.
Tra gli altri interpreti assai
icastica Enkelejda Shkoza nei panni della Frugola, la senzatetto che fruga tra
limmondizia. Sala abbastanza plaudente, ma non un successo pieno. Speriamo che
i successivi appuntamenti (lo Schicchi verrà abbinato al Ravel dellHeure
Espagnole, Suor Angelica al Dallapiccola del Prigioniero)
rendano il pubblico romano più empatico con loperazione Trittico ricomposto.
|
|