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Un palmarès “sorprendente”

di Sara Mamone
  Un palmarès “sorprendente”
Data di pubblicazione su web 01/03/2023  

Levatasi il pensiero del politically correct con due, peraltro correttissimi, premi per le migliori interpretazioni, la giuria della Berlinale ha potuto quest’anno dare vita ad un palmarès sorprendente. Sorprendente, però, alla rovescia. Andiamo con ordine.

Tra le dichiarazioni della presidente della giuria Kristen Stewart (celebre per la serie Twilight e poi come Biancaneve e Diana Spencer in successive prove) si era affacciato un preoccupante bisogno di opere che sorprendessero e scuotessero. Ci si predisponeva dunque a provocatori premi ad opere prime telluriche e improbabili, provocatorie e marginali oltre i limiti ben noti del consueto slancio promozionale di ogni marginalità scovata e coltivata. La correttezza politica del festival berlinese ne è stata da sempre la cifra.

Quest’anno, in assenza o quanto meno carenza, di opere di grande afflato politico, la correttezza si è limitata al privato, premiando le/gli interpreti (beate le lingue che non hanno il genere o che hanno almeno il neutro!) di due opere incentrate sulla diversità di genere. Bis ans Ende der Nacht (Till the End of the Night) del regista tedesco Christoph Hochhäusler, protagonista l’attrice e attivista trans Thea Ehre, e 20.000 especies de abejas (20,000 Species of Bees) di Estibaliz Urresola Solaguren con la giovanisssima Sofia Otero che veste i panni di un bambino dalla femminilità ingabbiata da pregiudizi che alla fine si scioglieranno nell’affetto familiare. Riconoscimenti ineccepibili.


Mal viver di Joao Canijo

Passando ai premi più consistenti, e inerpicandosi fino all’Orso d’oro, constatiamo la sparizione del mondo. Tutto si restringe. Tutto diventa privato: pur condividendo l’opinione che (secondo lo slogan di Carol Hanisch negli anni Sessanta), “il privato è politico”, non possiamo non constatare la novità di questa scelta. Sul podio sono saliti conflitti familiari dall’aspetto strinberghiano (Mal viver del sessantacinquenne Joao Canijo, Orso d’argento Premio della Giuria); storie garbatamente autobiografiche sul problema della creazione artistica (Roter Himmel dell’ultrasessantenne Christian Petzold, Orso d’argento Gran Premio della Giuria) e della trasmissione del mestiere nelle famiglie d’arte (Le grand chariot, del settantacinquenne Philippe Garrel, Orso d’argento per la miglior regia, qui burattinaio dei suoi tre figli).

Al vertice il bel documentario Sur l’Adamant del navigatissimo ultrasettantenne Nicolas Philibert, sbalordito come noi per il premio che saliva sul barcone francese dove il regista aveva filmato, con abili ma disadorne interviste, la vita quotidiana, l’umanità quotidiana di un gruppo di persone con disturbi mentali accolte dal servizio diurno della mairie di Parigi. Anche qui però, ben più importanti di qualunque proclama, il regista intervistatore mette in luce i volti, i talenti, le vicende umane dei suoi ospiti.


Sur l’Adamant di Nicolas Philibert

Insomma, per fare un calcolo statistico e rendere plastica la novità di questa edizione, basterà constatare che i premiati sono tutti maschi, bianchi, solidamente insediati nella terza età, già ampiamente riconosciuti nel loro campo d’azione. È proprio questa la novità, è questo lo stupore: niente donne, niente giovani, niente cinematografie emergenti, niente promozioni pour épater. Nessuna promozione risarcitoria. Forse la giuria presieduta dalla giovane vampira ha giudicato le opere secondo i propri gusti, abbandonando il criterio sottilmente coloniale della promozione.   






Kristen Stewart 
presidente della giuria

 
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