drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Quello che le donne (non) dicono

di Giuseppe Mattia
  Women Talking
Data di pubblicazione su web 13/03/2023  

Durante la serata più attesa dell’anno, tenutasi il 12 marzo, Woman Talking si aggiudica il premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, dopo aver ricevuto il medesimo riconoscimento anche agli ultimi Writers Guild of America Award e ai Critics’ Choice Awards. La regia e la sceneggiatura sono opera di Sarah Polley, canadese classe 1979, la quale si è affidata a produttori navigati come Brad Pitt (Plan B Entertainment) e Frances McDormand, anche nelle vesti di interprete, seppur in una manciata di inquadrature, riuscendo comunque a incidere in maniera decisiva nella resa complessiva del film. Il titolo in questione pone l’accento su numerose questioni, con un racconto che trasuda forti emozioni, portando il pubblico a riflettere su temi religiosi, sulla violenza, sull’identità sessuale, sulla genitorialità ma soprattutto sulla libertà tout court. Testo di partenza è l’omonimo romanzo best seller (Knopf, 2018) di Miriam Toews, la cui infanzia e formazione, così come le conseguenze dell’estremismo religioso a cui è stata costretta, sono strettamente legate all’ambientazione e al contesto della storia. La scrittrice è cresciuta infatti in una comunità mennonita – la più numerosa tra le varie chiese anabattiste nel mondo – e già nel 2007 aveva avuto modo di entrare a contatto con le proprie radici recitando nel ruolo di protagonista in Luz Silenciosa di Carlos Reygadas, girato in lingua plautdietsch, tipico vernacolo dei mennoniti tedeschi. 



Una scena del film

Se nel romanzo di Toews i fatti (realmente accaduti) hanno luogo in una comunità mennonita boliviana, quelli di Women Talking si dipanano in un luogo imprecisato di area anglofona dell’anno 2010 ma più vicino alle abitudini e ai costumi del diciannovesimo secolo: ad esempio, al di là dell’abbigliamento vicino a quell’epoca, è di fatto vietato a tutti l’utilizzo di mass media e di Internet, così come ogni contatto con realtà esterne. Donne di ogni età, finanche bambine, si svegliano costantemente con forti dolori in tutto il corpo, perdite di sangue e ricordi confusi. Addossando la colpa a demoni o a imprese sataniche, alcuni uomini del villaggio somministrano di nascosto potenti anestetici alle ignare vittime per poter abusare sessualmente di loro e soddisfare così i propri istinti di inenarrabile efferatezza. La storia va ad affrontare le conseguenze dell’amara e tragica scoperta delle brutalità dal punto di vista delle donne, costrette peraltro, dai componenti maschili, a una condizione di analfabetismo. 

Dopo l’arresto di alcuni dei violentatori, il resto degli uomini si reca in città per pagare loro la cauzione e consentirgli così di attendere il processo da casa. Prima di lasciare il villaggio, intimano alle donne di perdonare gli stupratori affinché possano guadagnarsi la possibilità di accedere al regno dei cieli. Nelle quarant’otto ore in cui nel villaggio restano solo donne, ad eccezione dell’insegnante August (Ben Whishaw) – unico in grado di redigere il verbale –, esse si riuniscono per valutare cosa fare delle proprie vite e di quelle dei propri figli: far finta di nulla; rimanere nella colonia e combattere; lasciare tutto per ricominciare una nuova vita altrove. Il gruppo decreta sin da subito che le soperchierie e i ricatti subiti sono imperdonabili e prendono dunque a discutere, in maniera democratica, delle possibilità di risoluzione dei problemi. Scartata la prima ipotesi, quella di far finta di nulla, il film si sviluppa attorno alle altre due opzioni attraverso una serie di dibattiti. Tra le voci che si levano quelle della vendicativa Salome (Claire Foy), della più quieta e ragionevole Ona (Rooney Mara) – rimasta incinta proprio a causa di uno stupro –, delle più giovani ma anche di quelle più avanti negli anni, foriere di esperienza e saggezza. Il raggiungimento del verdetto tenta tuttavia di accontentare ogni istanza.



Una scena del film

«Ciò che segue è un atto di immaginazione femminile», questa la frase programmatica che irrompe sullo schermo dopo pochi ma intensi minuti durante i quali, tramite flashback e montaggio ellittico, si viene a conoscenza degli orrori perpetrati alle ignare vittime. La violenza, solo accennata dalle fugaci immagini, amplifica la portata orrorifica degli atti, lasciando agli spettatori l’arduo compito di immaginarli, di visualizzarli nella propria mente. Questo tipo di società chiusa, dalle mille incognite e fondata su un regime teocratico, ricorda molto da vicino i romanzi distopici della canadese Margaret Atwood – si pensi a The Handmaid’s Tale (McClelland and Stewart Houghton Mifflin Harcourt, 1988) o il suo più recente seguito The Testaments (McClelland & Stewart, 2019) –, con i quali il film condivide un’atmosfera impossibile da collocare nel tempo e nello spazio. E dire che la regista del film, Sarah Polley, nel 2017 aveva sceneggiato la miniserie televisiva Alias Grace, tratta dall’omonimo romanzo (McClelland & Stewart, 1996) proprio della Atwood.

«Molti dei miei personaggi sono in cerca della libertà in un modo o nell’altro. Di solito è la semplice libertà da un controllo esterno che diventa poi il veicolo per orizzonti più ampi e lontani… Entrambi, la vita e il viaggio, richiedono fede, curiosità, coraggio e un intenso desiderio di essere liberi. Liberi dalla tirannia, dal potere senza autorevolezza, dalla meschinità di certi adulti, dalle convenzioni sociali e dalle nostre stesse paure e ansie». Queste le parole della scrittrice Toews la quale, allo stesso modo della Polley, evita una rappresentazione pedissequa e documentaristica delle vicende, aggirando inoltre il tentativo di fornire a ogni costo spiegazioni sociologiche e psicologiche ma puntando piuttosto alla ricerca del dibattito, del dialogo, dell’indagine delle cause per ricercare possibili e attuabili soluzioni. Più che contro gli uomini come categoria, le autrici prendono di mira le conseguenze del cieco e ottuso patriarcato.



Una scena del film 

Pur con qualche ingranaggio poco oleato e qualche passaggio piuttosto retorico, la scrittura di Women Talking avanza con caparbietà, sradicando lo spettatore dalla propria quotidianità per trascinarlo con sé nel fienile (location quasi esclusiva dell’intera pellicola), all’interno del quale le protagoniste si ritrovano per discutere assieme del loro futuro, valutandone pro e contro. Il carattere volutamente verboso della sceneggiatura si poggia su interpretazioni intense e sentite ma anche su un meraviglioso e sottovalutato lavoro sulla messa in scena: dalla fotografia di Luc Montpellier alle musiche della compositrice islandese Hildur Guđnadóttir, autrice delle colonne sonore dell’acclamata miniserie Chernobyl (2019) e vincitrice dell’Oscar nel 2020 per quella di Joker (2019), diretto da Todd Phillips. Il film di Polley si colloca a metà strada tra un western senza sparatorie e un film giudiziario fondato proprio sul confronto fra giurati in attesa di emettere un verdetto, ammiccando a 12 Angry Men (1957) di Sidney Lumet ma anche a certe visioni e dinamiche di Lars von Trier e Michael Haneke. Insomma, a prescindere dalla sola statuetta ricevuta, la pellicola merita una sorte rosea per l’originalità della messa in scena e per la capacità di condensare riflessioni urgenti con sensibilità ma anche con veemenza.



Women Talking
cast cast & credits
 


La locandina del film


 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013