Durante
la serata più attesa dellanno, tenutasi il 12 marzo, Woman Talking si
aggiudica il premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, dopo aver
ricevuto il medesimo riconoscimento anche agli ultimi Writers Guild of America
Award e ai Critics Choice Awards. La regia e la sceneggiatura sono opera di Sarah
Polley, canadese classe 1979, la quale si è affidata a produttori navigati come
Brad Pitt (Plan B Entertainment) e Frances McDormand, anche nelle
vesti di interprete, seppur in una manciata di inquadrature, riuscendo comunque
a incidere in maniera decisiva nella resa complessiva del film. Il titolo in
questione pone laccento su numerose questioni, con un racconto che trasuda forti
emozioni, portando il pubblico a riflettere su temi religiosi, sulla violenza,
sullidentità sessuale, sulla genitorialità ma soprattutto sulla libertà tout court. Testo di partenza è
lomonimo romanzo best seller (Knopf, 2018) di Miriam Toews, la cui
infanzia e formazione, così come le conseguenze dellestremismo religioso a cui
è stata costretta, sono strettamente legate allambientazione e al contesto
della storia. La scrittrice è cresciuta infatti in una comunità mennonita – la
più numerosa tra le varie chiese anabattiste nel mondo – e già nel 2007 aveva
avuto modo di entrare a contatto con le proprie radici recitando nel ruolo di
protagonista in Luz Silenciosa di Carlos Reygadas, girato in
lingua plautdietsch, tipico vernacolo dei mennoniti tedeschi.
Una scena del film
Se
nel romanzo di Toews i fatti (realmente accaduti) hanno luogo in una comunità
mennonita boliviana, quelli di Women Talking si dipanano in un luogo
imprecisato di area anglofona dellanno 2010 ma più vicino alle abitudini e ai
costumi del diciannovesimo secolo: ad esempio, al di là dellabbigliamento
vicino a quellepoca, è di fatto vietato a tutti lutilizzo di mass media e di
Internet, così come ogni contatto con realtà esterne. Donne di ogni età,
finanche bambine, si svegliano costantemente con forti dolori in tutto il
corpo, perdite di sangue e ricordi confusi. Addossando la colpa a demoni o a
imprese sataniche, alcuni uomini del villaggio somministrano di nascosto potenti
anestetici alle ignare vittime per poter abusare sessualmente di loro e
soddisfare così i propri istinti di inenarrabile efferatezza. La storia va ad
affrontare le conseguenze dellamara e tragica scoperta delle brutalità dal
punto di vista delle donne, costrette peraltro, dai componenti maschili, a una
condizione di analfabetismo.
Dopo
larresto di alcuni dei violentatori, il resto degli uomini si reca in città
per pagare loro la cauzione e consentirgli così di attendere il processo da
casa. Prima di lasciare il villaggio, intimano alle donne di perdonare gli
stupratori affinché possano guadagnarsi la possibilità di accedere al regno dei
cieli. Nelle quarantotto ore in cui nel villaggio restano solo donne, ad
eccezione dellinsegnante August (Ben Whishaw) – unico in grado di
redigere il verbale –, esse si riuniscono per valutare cosa fare delle proprie
vite e di quelle dei propri figli: far finta di nulla; rimanere nella colonia e
combattere; lasciare tutto per ricominciare una nuova vita altrove. Il gruppo
decreta sin da subito che le soperchierie e i ricatti subiti sono imperdonabili
e prendono dunque a discutere, in maniera democratica, delle possibilità di
risoluzione dei problemi. Scartata la prima ipotesi, quella di far finta di
nulla, il film si sviluppa attorno alle altre due opzioni attraverso una serie
di dibattiti. Tra le voci che si levano quelle della vendicativa Salome (Claire
Foy), della più quieta e ragionevole Ona (Rooney Mara) – rimasta
incinta proprio a causa di uno stupro –, delle più giovani ma anche di quelle
più avanti negli anni, foriere di esperienza e saggezza. Il raggiungimento del
verdetto tenta tuttavia di accontentare ogni istanza.
Una scena del film
«Ciò
che segue è un atto di immaginazione femminile», questa la frase programmatica
che irrompe sullo schermo dopo pochi ma intensi minuti durante i quali, tramite
flashback e montaggio ellittico, si viene a conoscenza degli orrori perpetrati
alle ignare vittime. La violenza, solo accennata dalle fugaci immagini,
amplifica la portata orrorifica degli atti, lasciando agli spettatori larduo
compito di immaginarli, di visualizzarli nella propria mente. Questo tipo di
società chiusa, dalle mille incognite e fondata su un regime teocratico,
ricorda molto da vicino i romanzi distopici della canadese Margaret Atwood
– si pensi a The Handmaids Tale (McClelland and Stewart Houghton
Mifflin Harcourt, 1988) o il suo più recente seguito The Testaments
(McClelland & Stewart, 2019) –, con i quali il film condivide unatmosfera
impossibile da collocare nel tempo e nello spazio. E dire che la regista del
film, Sarah Polley, nel 2017 aveva sceneggiato la miniserie televisiva Alias
Grace, tratta dallomonimo romanzo (McClelland & Stewart, 1996) proprio
della Atwood.
«Molti
dei miei personaggi sono in cerca della libertà in un modo o nellaltro. Di
solito è la semplice libertà da un controllo esterno che diventa poi il veicolo
per orizzonti più ampi e lontani… Entrambi, la vita e il viaggio, richiedono
fede, curiosità, coraggio e un intenso desiderio di essere liberi. Liberi dalla
tirannia, dal potere senza autorevolezza, dalla meschinità di certi adulti,
dalle convenzioni sociali e dalle nostre stesse paure e ansie». Queste le
parole della scrittrice Toews la quale, allo stesso modo della Polley,
evita una rappresentazione pedissequa e documentaristica delle vicende,
aggirando inoltre il tentativo di fornire a ogni costo spiegazioni sociologiche
e psicologiche ma puntando piuttosto alla ricerca del dibattito, del dialogo,
dellindagine delle cause per ricercare possibili e attuabili soluzioni. Più
che contro gli uomini come categoria, le autrici prendono di mira le
conseguenze del cieco e ottuso patriarcato.
Una scena del film
Pur con qualche
ingranaggio poco oleato e qualche passaggio piuttosto retorico, la scrittura di
Women Talking avanza con caparbietà, sradicando lo spettatore dalla
propria quotidianità per trascinarlo con sé nel fienile (location quasi
esclusiva dellintera pellicola), allinterno del quale le protagoniste si
ritrovano per discutere assieme del loro futuro, valutandone pro e contro. Il
carattere volutamente verboso della sceneggiatura si poggia su interpretazioni
intense e sentite ma anche su un meraviglioso e sottovalutato lavoro sulla messa
in scena: dalla fotografia di Luc Montpellier alle musiche della
compositrice islandese Hildur Guđnadóttir, autrice delle colonne sonore
dellacclamata miniserie Chernobyl (2019) e vincitrice dellOscar nel
2020 per quella di Joker (2019), diretto da Todd Phillips. Il
film di Polley si colloca a metà strada tra un western senza sparatorie e un
film giudiziario fondato proprio sul confronto fra giurati in attesa di
emettere un verdetto, ammiccando a 12 Angry Men (1957) di Sidney
Lumet ma anche a certe visioni e dinamiche di Lars von Trier e Michael
Haneke. Insomma, a prescindere dalla sola statuetta ricevuta, la pellicola
merita una sorte rosea per loriginalità della messa in scena e per la capacità
di condensare riflessioni urgenti con sensibilità ma anche con veemenza.
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