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Semiologia musicale

di Paolo Patrizi
  Don Carlo
Data di pubblicazione su web 09/03/2023  

Grande affresco polifonico di creature tutte intrappolate in una gabbia ontologica – amore impossibile, ragion di stato, diktat della religione, vanità della bellezza e del potere, ineluttabilità dell’olocausto di ogni utopia – Don Carlo è un’opera che imprigiona i suoi personaggi, e non a caso molte delle sue scene si svolgono in carceri, stanze claustrofobiche, eremi, tombe. Ne è ben consapevole Marin Blažević, regista e teorico teatrale di punta nell’area ex iugoslava, che in questa coproduzione sloveno-croata del capolavoro verdiano (in scena a Maribor, per trasferirsi a Fiume il mese prossimo) fa agire i protagonisti all’interno di grate metalliche via via rimodulate dai protagonisti stessi, prigionieri e carcerieri al medesimo tempo.

In questa prospettiva è Ella giammai m’amò il più eloquente biglietto da visita del Don Carlo di Blažević e dei suoi collaboratori (Wolfgang von Zoubek realizza scenografie stilizzatissime e luci incessantemente cangianti, Sandra Dekanić firma costumi diacronici che diventano “personaggi” anch’essi): Filippo II si aggira per l’Escorial cercando un refolo d’aria e chiarore nelle prime luci dell’alba, ma verone e doppieri cedono il passo a un’immensa cancellata che di momento in momento si amplia o si raggruma, ora spalancata e ora inchiavardata da quel re sperduto nel proprio labirinto.

Una scena dello spettacolo
© Tiberiu Marta

Nella diatriba che oggi contrappone i registi illustrativi a quelli concettuali, ecco una messinscena che persegue con coerenza una terza strada: quella di un’autentica drammaturgia – ma nel caso di Blažević sarebbe più corretto parlare di semiologia – musicale, che dà forma al pensiero compositivo dell’autore restituendo in termini di pura teatralità quanto Verdi fa circolare nelle pieghe dell’armonia, della strumentazione, dei materiali leitmotivici. 

Blažević, dunque, “racconta” per immagini così forti da non aver bisogno delle didascalie del libretto: il colpo di archibugio che abbatte il Marchese di Posa proprio non c’è, perché ormai sta scritto nella musica che Rodrigo deve morire; mentre nella scena dell’autodafé il coro dei domenicani, e con esso i condannati al rogo che vengono trascinati, rimane fuori scena, ma le branche oscene dell’Inquisizione vengono comunque impeccabilmente raffigurate da un balletto di uomini e donne in tonache da frate (coreografie di Maša Kolar), che spalancando il saio mostrano una teoria di arti e piedi amputati. Ed è impressionante la capacità, propria solo dei grandi registi, di far “recitare” gli oggetti: come la carrozzina su cui si presenta il Grande Inquisitore, presto abbandonata da quel vegliardo tutt’altro che invalido e scagliata via da Filippo II in un moto di rabbia; o il guardinfante della gonna di Eboli, trasformato in richiamo erotico e simbolo ginecologico, laddove quello di Elisabetta diventa invece per Carlo, figliastro innamorato, un rifugio verso la regressione fetale. 

Anche quei momenti dove tradizionalmente affiora una scollatura tra qualità musicale e tenuta drammatica diventano qui colpi di teatro. Non pianger mia compagna, tenero commiato di Elisabetta alla contessa d’Aremberg condannata all’esilio, è una di quelle arie con il “limite” di due strofe che sono l’una il clone dell’altra: Blažević evita ogni monotonia catalizzando l’attenzione dello spettatore non verso il soprano, che la sta cantando, bensì illustrando la romanza “in soggettiva”, ossia facendocela vedere – con un ideale piano-sequenza che progressivamente illumina movenze e controscene degli altri personaggi – attraverso gli occhi ora di Filippo II, ora di Eboli, ora di Rodrigo; mentre l’umiliazione dell’esiliata è invisibile eppure palpabilissima, con la contessa che resta costantemente di spalle, ma come attraversata da un fremito (straordinaria l’attrice-mima Cleopatra Purice).


Una scena dello spettacolo
© Tiberiu Marta 

Quanto all’epilogo – il più fulminante, insieme a quello del Trovatore, e certo il più spiazzante tra tutti i finali verdiani – Blažević ne restituisce tutta la dimensione fantastico-allusiva, avvolgendola in un’ossimorica rarefatta plasticità: una luce turchese avvolge il palcoscenico, quasi evocasse una desolata landa marina (compreso un apparente promontorio sullo sfondo, che si rivelerà essere il Frate accovacciato), dove Elisabetta si aggira come fosse la sola superstite d’un improvviso dissolvimento del genere umano. E il suo lapidario «O ciel!» conclusivo, mentre a commentare la fine di tutto provvede un ultimo accordo orchestrale in “fortissimo”, la vede unico personaggio reale in un mondo ormai di ombre, con Carlo, Filippo, l’Inquisitore e il Frate che sono solo altrettante silhouette nere sullo sfondo. 

Una regia di tale scavo, perfetto corrispettivo di quell’“inconscio senza psicanalisi” che Verdi pone in essere con quest’opera, avrebbe avuto bisogno però di una lettura musicale capace di tenergli testa. Sul podio dell’orchestra del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor, Valentin Egel tende invece più al fragoroso che al monumentale, ai tableaux paratattici piuttosto che alla plasticità espositiva. La qualità sonora è in sé abbastanza pregevole (nonostante qualche scollamento tra buca e palcoscenico si avverta), ma si tratta di un suono che esprime poco. Sotto tale aspetto la scelta di optare per la versione in quattro atti, senza quella sorta di prologo che è l’atto di Fontainebleau, è tutto sommato condivisibile: elimina, di questa sterminata partitura, il segmento più sinuoso e vibratile, dunque il meno consono al braccio – non flessibilissimo – di Egel.


Una scena dello spettacolo
© Tiberiu Marta 

Il cast trova la sua prevedibile punta di diamante in Rebeka Lokar, la più celebrata cantante slovena di oggi, che offre di Elisabetta un’incarnazione insieme dolente e nobile, eloquente ma trattenuta, in un perfetto bilanciamento tra monumentalità fonica della cantante (la Lokar ha i mezzi del soprano drammatico di antico stampo) e rassegnata compostezza dell’interprete. Appena un gradino sotto sa farsi onore pure Dimitris Paksoglou, che a sua volta fa convergere squillo romantico e accento soffocato, tenorilità eroica e introversioni perdenti, restituendo tutte le velleità e le contraddizioni di Carlo. Accanto a lui il giovane Domen Križaj baritono prettamente lirico, forse non ancora nel pieno della propria maturità vocale – è un Rodrigo di genuina freschezza e nobiltà, tanto morbido nell’emissione quanto limpido nella dizione, un po’ acerbo nell’intaglio della parola scenica (la pagina meno risolta è il duetto con Filippo) ma sempre scorrevole nei grandi cantabili (trova il momento migliore in Carlo ch’è sol il nostro amore). 

Più istrionesco nell’accento che scandagliato nel fraseggio, Luciano Batinić è comunque un Filippo II di sufficiente imponenza, così come Valentin Pivovarov non ha la ieraticità marmorea e le risonanze sepolcrali degli interpreti storici del Grande Inquisitore, pennellando però un personaggio abilmente costruito nella sua dimensione politica. Sicché, del sestetto protagonistico, l’unico anello debole risulta l’Eboli di Irena Petkova: la regia di Blažević lavora moltissimo sul questo ruolo, ma la cantante non ne restituisce la fluidità melismatica e la seduttività timbrica, in una raffigurazione canora tanto cauta quanto pallida. Al passivo, per quanto riguarda i ruoli minori, andrebbe poi annoverato il Frate di Slavko Sekulić, che vanifica un po’ la straordinaria atmosfera creata da Verdi quando è in scena tale ultraterreno personaggio. Tuttavia a far pareggiare i conti tra i comprimari provvede Valentina Čuden, che dopo essere stata un graziosissimo Tebaldo en travesti si trasforma nella Voce dal cielo chiamata a chiudere la scena dell’autodafé: trascolorando, e con maestria, dalle mercuriali leziosità del paggetto di corte agli aerei trilli del sollievo celeste.




Don Carlo
Opera in quattro atti


cast cast & credits
 
trama trama


Una scena dello spettacolo 
visto da chi scrive al Teatro Nazionale Sloveno di Maribor 
il 3 marzo 2023
© Tiberiu Marta


 
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