Grande affresco polifonico di
creature tutte intrappolate in una gabbia ontologica – amore impossibile,
ragion di stato, diktat della
religione, vanità della bellezza e del potere, ineluttabilità dellolocausto di
ogni utopia – Don Carlo è unopera che imprigiona i suoi
personaggi, e non a caso molte delle sue scene si svolgono in carceri, stanze
claustrofobiche, eremi, tombe. Ne è ben consapevole Marin Blažević, regista
e teorico teatrale di punta nellarea ex iugoslava, che in questa coproduzione
sloveno-croata del capolavoro verdiano (in scena a Maribor, per trasferirsi a
Fiume il mese prossimo) fa agire i protagonisti allinterno di grate metalliche
via via rimodulate dai protagonisti stessi, prigionieri e carcerieri al
medesimo tempo.
In questa prospettiva è Ella giammai mamò il più eloquente biglietto da visita del Don Carlo di Blažević e
dei suoi collaboratori (Wolfgang von
Zoubek realizza scenografie stilizzatissime e luci incessantemente
cangianti, Sandra Dekanić firma
costumi diacronici che diventano “personaggi” anchessi): Filippo II si aggira
per lEscorial cercando un refolo daria e chiarore nelle prime luci dellalba,
ma verone e doppieri cedono il passo a unimmensa cancellata che di momento in
momento si amplia o si raggruma, ora spalancata e ora inchiavardata da quel re
sperduto nel proprio labirinto. Una scena dello spettacolo © Tiberiu Marta Nella diatriba che oggi
contrappone i registi illustrativi a quelli concettuali, ecco una messinscena
che persegue con coerenza una terza strada: quella di unautentica drammaturgia
– ma nel caso di Blažević sarebbe più corretto parlare di semiologia –
musicale, che dà forma al pensiero compositivo dellautore restituendo in
termini di pura teatralità quanto Verdi
fa circolare nelle pieghe dellarmonia, della strumentazione, dei materiali
leitmotivici.
Blažević, dunque, “racconta” per
immagini così forti da non aver bisogno delle didascalie del libretto: il colpo
di archibugio che abbatte il Marchese di Posa proprio non cè, perché ormai sta
scritto nella musica che Rodrigo deve morire; mentre nella scena dellautodafé
il coro dei domenicani, e con esso i condannati al rogo che vengono trascinati,
rimane fuori scena, ma le branche oscene dellInquisizione vengono comunque
impeccabilmente raffigurate da un balletto di uomini e donne in tonache da
frate (coreografie di Maša Kolar),
che spalancando il saio mostrano una teoria di arti e piedi amputati. Ed è
impressionante la capacità, propria solo dei grandi registi, di far “recitare”
gli oggetti: come la carrozzina su cui si presenta il Grande Inquisitore,
presto abbandonata da quel vegliardo tuttaltro che invalido e scagliata via da
Filippo II in un moto di rabbia; o il guardinfante della gonna di Eboli,
trasformato in richiamo erotico e simbolo ginecologico, laddove quello di
Elisabetta diventa invece per Carlo, figliastro innamorato, un rifugio verso la
regressione fetale.
Anche quei momenti dove
tradizionalmente affiora una scollatura tra qualità musicale e tenuta
drammatica diventano qui colpi di teatro. Non
pianger mia compagna, tenero commiato di Elisabetta alla contessa
dAremberg condannata allesilio, è una di quelle arie con il “limite” di due
strofe che sono luna il clone dellaltra: Blažević evita ogni monotonia
catalizzando lattenzione dello spettatore non verso il soprano, che la sta
cantando, bensì illustrando la romanza “in soggettiva”, ossia facendocela
vedere – con un ideale piano-sequenza che progressivamente illumina movenze e
controscene degli altri personaggi – attraverso gli occhi ora di Filippo II,
ora di Eboli, ora di Rodrigo; mentre lumiliazione dellesiliata è invisibile
eppure palpabilissima, con la contessa che resta costantemente di spalle, ma
come attraversata da un fremito (straordinaria lattrice-mima Cleopatra Purice). Una scena dello spettacolo © Tiberiu Marta
Quanto allepilogo – il più
fulminante, insieme a quello del Trovatore,
e certo il più spiazzante tra tutti i finali verdiani – Blažević ne restituisce
tutta la dimensione fantastico-allusiva, avvolgendola in unossimorica
rarefatta plasticità: una luce turchese avvolge il palcoscenico, quasi evocasse
una desolata landa marina (compreso un apparente promontorio sullo sfondo, che
si rivelerà essere il Frate accovacciato), dove Elisabetta si aggira come fosse
la sola superstite dun improvviso dissolvimento del genere umano. E il suo
lapidario «O ciel!» conclusivo, mentre a commentare la fine di tutto provvede
un ultimo accordo orchestrale in “fortissimo”, la vede unico personaggio reale
in un mondo ormai di ombre, con Carlo, Filippo, lInquisitore e il Frate che
sono solo altrettante silhouette nere
sullo sfondo.
Una regia di tale scavo, perfetto
corrispettivo di quell“inconscio senza psicanalisi” che Verdi pone in essere
con questopera, avrebbe avuto bisogno però di una lettura musicale capace di
tenergli testa. Sul podio dellorchestra del Teatro Nazionale Sloveno di
Maribor, Valentin Egel tende invece più al fragoroso che
al monumentale, ai tableaux
paratattici piuttosto che alla plasticità espositiva. La qualità sonora è in sé
abbastanza pregevole (nonostante qualche scollamento tra buca e palcoscenico si
avverta), ma si tratta di un suono che esprime poco. Sotto tale aspetto la
scelta di optare per la versione in quattro atti, senza quella sorta di prologo
che è latto di Fontainebleau, è tutto sommato condivisibile: elimina, di
questa sterminata partitura, il segmento più sinuoso e vibratile, dunque il
meno consono al braccio – non flessibilissimo – di Egel. Una scena dello spettacolo © Tiberiu Marta
Il cast trova la sua prevedibile punta di diamante in Rebeka Lokar, la più celebrata cantante slovena di oggi, che offre di
Elisabetta unincarnazione insieme dolente e nobile, eloquente ma trattenuta,
in un perfetto bilanciamento tra monumentalità fonica della cantante (la Lokar
ha i mezzi del soprano drammatico di antico stampo) e rassegnata compostezza
dellinterprete. Appena un gradino sotto sa farsi onore pure Dimitris Paksoglou, che a sua volta fa convergere squillo romantico e
accento soffocato, tenorilità eroica e introversioni perdenti, restituendo
tutte le velleità e le contraddizioni di Carlo. Accanto a lui il giovane Domen Križaj – baritono
prettamente lirico, forse non ancora nel pieno della propria maturità vocale –
è un Rodrigo di genuina freschezza e nobiltà, tanto morbido nellemissione
quanto limpido nella dizione, un po acerbo nellintaglio della parola scenica
(la pagina meno risolta è il duetto con Filippo) ma sempre scorrevole nei
grandi cantabili (trova il momento migliore in Carlo chè sol il nostro amore).
Più istrionesco nellaccento che
scandagliato nel fraseggio, Luciano Batinić è comunque un Filippo II di
sufficiente imponenza, così come Valentin
Pivovarov non ha la ieraticità
marmorea e le risonanze sepolcrali degli interpreti storici del Grande
Inquisitore, pennellando però un personaggio abilmente costruito nella sua
dimensione politica. Sicché, del sestetto protagonistico, lunico anello debole
risulta lEboli di Irena Petkova: la regia di Blažević lavora
moltissimo sul questo ruolo, ma la cantante non ne restituisce la fluidità
melismatica e la seduttività timbrica, in una raffigurazione canora tanto cauta
quanto pallida. Al passivo, per quanto riguarda i ruoli minori, andrebbe poi
annoverato il Frate di Slavko Sekulić, che vanifica un po la
straordinaria atmosfera creata da Verdi quando è in scena tale ultraterreno
personaggio. Tuttavia a far pareggiare i conti tra i comprimari provvede Valentina Čuden, che dopo essere stata
un graziosissimo Tebaldo en travesti si trasforma nella Voce dal
cielo chiamata a chiudere la scena dellautodafé: trascolorando, e con
maestria, dalle mercuriali leziosità del paggetto di corte agli aerei trilli
del sollievo celeste.
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