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Il vecchio e il nuovo

di Paolo Patrizi
  Aida
Data di pubblicazione su web 09/02/2023  

«La vecchiaia è un passato ricoperto da uno strato di presente», scriveva Thomas Mann nel Doctor Faustus. È una frase che torna alla memoria assistendo all’Aida realizzata da Davide Livermore all’Opera di Roma: un allestimento dove convergono scenografie virtuali e videoproiezioni, coreografie in stile street dance e adattamenti (o addomesticamenti) drammaturgici sulle ali del politically correct, insomma un florilegio di sollecitazioni atte a svecchiare quella museale e un po’ razzista icona dei nostri nonni che è il quartultimo capolavoro di Verdi. Ne scaturisce – inevitabile nemesi – un bric-à-brac postmoderno ben più polveroso delle supposte cianfrusaglie verdiane, oltre a un qualunquismo ideologico assai più corrivo dell’indole “imperialista” alla base della committenza di quest’opera.

Come di consueto Livermore sigla un lavoro di gruppo, affidandosi a un ampio e collaudato staff: tuttavia, dopo un colpo d’occhio iniziale di epidermica ma indubbia efficacia, sia gli apparati scenici del collettivo Giò Forma sia i video della società D-Wok sembrano avvitarsi su sé stessi, in una ripetitività che fatica a lievitare in sottotesto ermeneutico. Più interessanti, semmai, i costumi “freddi” (dunque acconci a un’opera-oratorio, quale per molti aspetti è Aida) di Gianluca Falaschi. L’unico davvero capace d’imprimere una reale cifra stilistica allo spettacolo resta però il light designer Antonio Castro, grazie a luci “psicologiche” che riescono a far transitare il palcoscenico dal bianco e nero a un colore dove l’unica reale nota cromatica è l’oro dei costumi.

Una scena dello spettacolo visto al Teatro dell'Opera di Roma © Fabrizio Sansoni
Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

L’insieme, quindi, sfocia in una messinscena paradossalmente tradizionalissima, anche e soprattutto nella latitanza di una regia che possa definirsi tale. Perché c’è ben poco, al di là degli ormai consueti omaggi al fluid gender e della fregola perbenista d’uniformare sotto una stessa maschera cerea Aida e Radames, Amneris e Amonasro, omologando etnie diverse e negando la “diversità” del blackface. Oltremodo déjà vu pure la trovata di utilizzare un classico del cinema a mo’ di stella polare narrativa (qui si attinge a citazioni di Cabiria, prototipo del kolossal nel grande schermo tanto quanto Aida rappresenta il passo d’addio del kolossal nel melodramma); mentre i balletti in chiave di danza moderna – Livermore si fa carico anche delle coreografie – potevano forse approdare a risultati interessanti, con un’impaginazione meno sbrigativamente ginnica e senza l’antimusicalissimo urletto al termine del grande ballabile nella Scena del Trionfo. Il finale catartico (quasi una tristaniana trasfigurazione) e a suo modo ottimista resta la cosa più originale: ma non si amalgama con il resto dello spettacolo.

Alla sua seconda produzione come direttore musicale dell’Opera di Roma, Michele Mariotti sigla invece una lettura che potremmo definire antitoscaniniana. Sosteneva infatti Toscanini (che tra l’altro proprio in Aida raggiunse uno degli esiti più alti della propria arte direttoriale) che un capolavoro è sempre più grande della somma dei suoi particolari. Mariotti sembra seguire il percorso opposto: concertatore attento e sensibile, ben corrisposto dall’orchestra e dal coro del teatro, si raccomanda per l’estrema cura dei dettagli, lasciandosi però sfuggire (o non curandosi di trasmettere) una visione unitaria dell’opera. Dunque ascoltiamo un racconto del Messaggero quasi fiabesco nel “pianissimo” dei legni sul tremolo degli archi; un languore elegante e voluttuoso, dal profumo impressionistico, nella danza sacra delle sacerdotesse al tempio di Vulcano; delle trombe – all’inizio del Trionfo – non solo intonatissime, ma d’inaudita varietà dinamica; un inconsueto risalto di quell’episodio sempre trascurato che è lo scambio di battute tra Amneris e Ramfis all’inizio del terzo atto, di cui Mariotti restituisce l’atmosfera raccolta e misteriosa. Tutto questo, però, fatica a coagularsi in plasticità di resa complessiva: latita una visione d’insieme, la reductio ad unum tra opera intimista e grand-opéra cede il passo a un andamento paratattico dove di volta in volta trova spazio, con notevoli capacità analitiche da parte della bacchetta, ora l’uno ora l’altro aspetto.

Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Corollario di una concertazione tanto dettagliata è poi la grande attenzione al fraseggio dei cantanti. Lo spettacolo romano ha schierato un quartetto d’importanti nomi internazionali, ma estranei alle logiche sbrigative dello star system: Krassimira Stoyanova, Gregory Kunde, Ekaterina Semenchuk e Vladimir Stoyanov sono grandi artisti, prima ancora che grandi voci (anche perché ormai, chi più chi meno, tutti e quattro si sono lasciati alle spalle la loro forma migliore) ed è difficile dire quanto – nell’estrema cura che hanno posto alla dizione, all’accento, al senso di ogni frase – sia frutto di un input del direttore e quanto ci abbiano messo del loro. Sta di fatto che la convergenza tra podio e palcoscenico è apparsa impeccabile, e tutti i protagonisti hanno dato vita ad autentici personaggi, oltre che a un canto esemplare.

La Stoyanova ha perso qualcosa in omogeneità e limpidezza, ma resta un’Aida sensibilissima, dal ventaglio dinamico estremamente variegato – una vocalista che conosce l’arte d’imprimere afflato lirico ai “fortissimi” e risonanze drammatiche ai “pianissimi” – e capace di felici illuminazioni espressive (la domanda «E qual sentier?» fatta a Radames con voce tremante, proprio con la consapevolezza di perpetrare un tradimento). Stoyanov denuncia un palpabile depauperamento timbrico, plasmando però un Amonasro nobilmente antiretorico, impeccabile nel porgere, con il coraggio di ribaltare la tradizione interpretativa e aprire orizzonti inediti: chi nell’Aida aspetta il baritono all’appuntamento con il Sol bemolle di «Dei faraoni tu sei la schiava» resterà deluso, ma l’entrata con quel «Suo padre» risolto in un attacco “mezzoforte” che subito si flette in mezzavoce, anziché in una lunga nota tenuta a pieni polmoni, dà tutta un’altra fisionomia al personaggio. Kunde – sessantanovenne – mostra segni di usura ancor maggiori, soprattutto in termini di dominio dell’emissione: le intenzioni non sempre sono pari agli esiti (tenta di ottemperare alla disattesa prescrizione verdiana di emettere in “pianissimo” il Si bemolle acuto conclusivo di Celeste Aida, e ci riesce al prezzo di una progressione lentissima e una certa instabilità di suono), ma unisce squillo romantico e finezze belcantistiche – il suo passato rossiniano fa talvolta capolino – al servizio di un’incarnazione ripiegata, antieroica eppure a suo modo trascinante. 

Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Non brilla particolarmente per freschezza, ma è senz’altro più sana, la voce della Semenchuk: trionfatrice della serata nella sua miscela di slanci erinnici e insidiose morbidezze, nuove frontiere di fraseggio (un terzetto interiorizzatissimo, il sussurro vittorioso alla frase «In poter nostro!» nella scena del Trionfo…) e un ultimo atto che riassume il meglio delle Amneris aggressive e infuocate – Barbieri, Cossotto, Obraztsvova – ma sempre all’interno di un perfetto dominio canoro. Riccardo Zanellato è invece un pallido ancorché corretto Ramfis, che esce schiacciato dal confronto con la sostanziosità e compattezza timbrica dell’altro basso, il giovane Giorgi Manoshvili, nei panni del Faraone. E un comprimario veterano come Carlo Bosi trova anch’egli il suo momento di gloria, grazie pure all’ottimo accompagnamento fornitogli da Mariotti, nell’entrata del Messaggero. Insomma, per una volta, dal “vecchio” (i cantanti) è arrivato il nuovo. Mentre dal “nuovo” (le magnifiche sorti e progressive della messinscena) è traspirato molto di vecchio.



Aida



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Una scena dello spettacolo visto al Teatro dell'Opera di Roma © Fabrizio Sansoni

Una scena dello spettacolo visto al Teatro dell'Opera di Roma
© Fabrizio Sansoni



 
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