«La vecchiaia è un passato ricoperto da uno strato di presente»,
scriveva Thomas Mann nel Doctor Faustus. È una frase che torna alla
memoria assistendo allAida
realizzata da Davide Livermore allOpera di Roma: un
allestimento dove convergono scenografie virtuali e videoproiezioni,
coreografie in stile street dance e adattamenti (o addomesticamenti)
drammaturgici sulle ali del politically
correct, insomma un florilegio di
sollecitazioni atte a svecchiare quella museale e un po razzista icona dei
nostri nonni che è il quartultimo capolavoro di Verdi. Ne scaturisce – inevitabile nemesi – un bric-à-brac postmoderno ben più polveroso delle supposte
cianfrusaglie verdiane, oltre a un qualunquismo ideologico assai più corrivo
dellindole “imperialista” alla base della committenza di questopera.
Come di consueto Livermore sigla un lavoro
di gruppo, affidandosi a un ampio e collaudato staff: tuttavia, dopo un colpo docchio iniziale di epidermica ma
indubbia efficacia, sia gli apparati scenici del collettivo Giò Forma sia i video della società D-Wok sembrano avvitarsi su sé stessi,
in una ripetitività che fatica a lievitare in sottotesto ermeneutico. Più
interessanti, semmai, i costumi “freddi” (dunque acconci a unopera-oratorio,
quale per molti aspetti è Aida) di Gianluca Falaschi. Lunico davvero capace dimprimere una reale cifra
stilistica allo spettacolo resta però il light
designer Antonio Castro, grazie a luci “psicologiche” che riescono a far
transitare il palcoscenico dal bianco e nero a un colore dove lunica reale
nota cromatica è loro dei costumi.

Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Linsieme, quindi, sfocia in una
messinscena paradossalmente tradizionalissima, anche e soprattutto nella
latitanza di una regia che possa definirsi tale. Perché cè ben poco, al di là
degli ormai consueti omaggi al fluid gender e della fregola perbenista
duniformare sotto una stessa maschera cerea Aida e Radames, Amneris e
Amonasro, omologando etnie diverse e negando la “diversità” del blackface. Oltremodo déjà vu
pure la trovata di utilizzare un classico del cinema a mo di stella polare
narrativa (qui si attinge a citazioni di Cabiria,
prototipo del kolossal nel grande schermo tanto quanto Aida rappresenta il passo daddio del kolossal nel melodramma);
mentre i balletti in chiave di danza moderna – Livermore si fa carico anche
delle coreografie – potevano forse approdare a risultati interessanti, con
unimpaginazione meno sbrigativamente ginnica e senza lantimusicalissimo
urletto al termine del grande ballabile nella Scena del Trionfo. Il finale
catartico (quasi una tristaniana trasfigurazione) e a suo modo ottimista resta
la cosa più originale: ma non si amalgama con il resto dello spettacolo.Alla sua seconda produzione come direttore
musicale dellOpera di Roma, Michele
Mariotti sigla invece una lettura
che potremmo definire antitoscaniniana. Sosteneva infatti Toscanini (che tra laltro proprio in Aida raggiunse uno degli esiti più alti della propria arte
direttoriale) che un capolavoro è sempre più grande della somma dei suoi
particolari. Mariotti sembra seguire il percorso opposto: concertatore attento
e sensibile, ben corrisposto dallorchestra e dal coro del teatro, si
raccomanda per lestrema cura dei dettagli, lasciandosi però sfuggire (o non
curandosi di trasmettere) una visione unitaria dellopera. Dunque ascoltiamo un
racconto del Messaggero quasi fiabesco nel “pianissimo” dei legni sul tremolo
degli archi; un languore elegante e voluttuoso, dal profumo impressionistico,
nella danza sacra delle sacerdotesse al tempio di Vulcano; delle trombe –
allinizio del Trionfo – non solo intonatissime, ma dinaudita varietà
dinamica; un inconsueto risalto di quellepisodio sempre trascurato che è lo
scambio di battute tra Amneris e Ramfis allinizio del terzo atto, di cui
Mariotti restituisce latmosfera raccolta e misteriosa. Tutto questo, però,
fatica a coagularsi in plasticità di resa complessiva: latita una visione
dinsieme, la reductio ad unum tra
opera intimista e grand-opéra cede il
passo a un andamento paratattico dove di volta in volta trova spazio, con
notevoli capacità analitiche da parte della bacchetta, ora luno ora laltro
aspetto. 
Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Corollario di una concertazione tanto
dettagliata è poi la grande attenzione al fraseggio dei cantanti. Lo spettacolo
romano ha schierato un quartetto dimportanti nomi internazionali, ma estranei
alle logiche sbrigative dello star system:
Krassimira Stoyanova, Gregory Kunde, Ekaterina Semenchuk e Vladimir Stoyanov sono grandi artisti,
prima ancora che grandi voci (anche perché ormai, chi più chi meno, tutti e
quattro si sono lasciati alle spalle la loro forma migliore) ed è difficile
dire quanto – nellestrema cura che hanno posto alla dizione, allaccento, al
senso di ogni frase – sia frutto di un input
del direttore e quanto ci abbiano messo del loro. Sta di fatto che la
convergenza tra podio e palcoscenico è apparsa impeccabile, e tutti i
protagonisti hanno dato vita ad autentici personaggi, oltre che a un canto
esemplare.
La Stoyanova ha perso qualcosa in
omogeneità e limpidezza, ma resta unAida sensibilissima, dal ventaglio
dinamico estremamente variegato – una vocalista che conosce larte dimprimere
afflato lirico ai “fortissimi” e risonanze drammatiche ai “pianissimi” – e
capace di felici illuminazioni espressive (la domanda «E qual sentier?» fatta a
Radames con voce tremante, proprio con la consapevolezza di perpetrare un
tradimento). Stoyanov denuncia un palpabile depauperamento timbrico, plasmando
però un Amonasro nobilmente antiretorico, impeccabile nel porgere, con il
coraggio di ribaltare la tradizione interpretativa e aprire orizzonti inediti:
chi nellAida aspetta il baritono
allappuntamento con il Sol bemolle di «Dei faraoni tu sei la schiava» resterà
deluso, ma lentrata con quel «Suo padre» risolto in un attacco “mezzoforte”
che subito si flette in mezzavoce, anziché in una lunga nota tenuta a pieni
polmoni, dà tutta unaltra fisionomia al personaggio. Kunde – sessantanovenne –
mostra segni di usura ancor maggiori, soprattutto in termini di dominio
dellemissione: le intenzioni non sempre sono pari agli esiti (tenta di
ottemperare alla disattesa prescrizione verdiana di emettere in “pianissimo” il
Si bemolle acuto conclusivo di Celeste
Aida, e ci riesce al prezzo di una
progressione lentissima e una certa instabilità di suono), ma unisce squillo
romantico e finezze belcantistiche – il suo passato rossiniano fa talvolta
capolino – al servizio di unincarnazione ripiegata, antieroica eppure a suo
modo trascinante. 
Una scena dello spettacolo © Fabrizio Sansoni
Non brilla particolarmente per freschezza,
ma è senzaltro più sana, la voce della Semenchuk: trionfatrice della serata
nella sua miscela di slanci erinnici e insidiose morbidezze, nuove frontiere di
fraseggio (un terzetto interiorizzatissimo, il sussurro vittorioso alla frase
«In poter nostro!» nella scena del Trionfo…) e un ultimo atto che riassume il
meglio delle Amneris aggressive e infuocate – Barbieri, Cossotto, Obraztsvova – ma sempre allinterno di
un perfetto dominio canoro. Riccardo
Zanellato è invece un pallido ancorché corretto Ramfis, che esce
schiacciato dal confronto con la sostanziosità e compattezza timbrica
dellaltro basso, il giovane Giorgi
Manoshvili, nei panni del Faraone. E un comprimario veterano come Carlo Bosi trova anchegli il suo
momento di gloria, grazie pure allottimo accompagnamento fornitogli da
Mariotti, nellentrata del Messaggero. Insomma, per una volta, dal “vecchio” (i
cantanti) è arrivato il nuovo. Mentre dal “nuovo” (le magnifiche sorti e progressive
della messinscena) è traspirato molto di vecchio.
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